Sentenza n. 13 del 1977
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SENTENZA N. 13

ANNO 1977

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 414, 416, 418, 420, commi primo e quinto, e 429, comma terzo, del codice di procedura civile, come modificati dall'art. 1 della legge 11 agosto 1973, n. 533, sul nuovo rito del lavoro, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanze emesse l'8 marzo 1974 dal pretore di Arcidosso (causa di lavoro tra Balzani Paola ed altri ed il Calzaturificio Kent), il 16 marzo 1974 dal pretore di Roma (Gaetani Mario c/soc. Simon Rochas), il 20 marzo 1974 dal pretore di Catania (Sambataro Antonio c/soc. SIRET), il 6 aprile 1974 ed il 1 aprile 1974 dal pretore di Roma (Tudini Albertino c/Azienda Gerardi e Santellini Gino c/soc. Aerea Mediterranea), ed il 26 giugno 1974 dal pretore di Rotondella (Vitale Nicola c/Lunati Pasquale), rispettivamente iscritte ai nn. 165, 185, 226, 299, 300 e 372 del registro ordinanze 1974 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 146 del 5 giugno 1974, n. 153 del 12 giugno 1974, n. 167 del 26 giugno 1974, n. 250 del 25 settembre 1974 e n. 284 del 30 ottobre 1974;

2) ordinanze emesse il 10 maggio 1974 dal pretore di San Severino Marche (Serloni Giorgio c/soc. SIELPA), il 9 marzo 1974 dal pretore di Modena (Benetti Silvano c/soc. CEOM), il 26 luglio 1974 dal pretore di Catania (Baccini Grazia ed altro c/Caffarelli Giuseppe), il 25 luglio 1974 dal pretore di Alba (Ferro Vittorio c/Monte dei Paschi di Siena ed altro), il 25 settembre 1974 dal tribunale di Udine (Minisini Anna Maria c/soc. Centro Ricerche Arte Industria), ed il 18 ottobre 1974 dal pretore di Sanremo (De Rosa Persco c/soc. OTAT), rispettivamente iscritte ai nn. 392, 406, 421, 490, 500 e 508 del registro ordinanze 1974 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del 30 ottobre 1974, n. 296 del 13 novembre 1974, n. 309 del 27 novembre 1974, n. 14 del 15 gennaio 1975 e n. 21 del 22 gennaio 1975.

Visti gli atti di costituzione della Società Aerea Mediterranea e del Monte dei Paschi di Siena, nonché gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 27 ottobre 1976 il Giudice relatore Giulio Gionfrida;

uditi l'avv. Maurizio Marazza, per la soc. Aerea Mediterranea, l'avv. Valente Simi, per il Monte dei Paschi di Siena, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Disciplinando l'introduzione della lite e la successiva costituzione in giudizio del convenuto, stabilisce la legge 1973, n. 533, sul nuovo rito del lavoro (rispettivamente):

a) all'art. 414, n. 5, che la domanda (la quale va proposta con ricorso) "deve contenere" (tra l'altro) "l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione";

b) all'art. 416, commi secondo e terzo, che nella memoria (mediante il cui deposito in cancelleria, almeno dieci giorni prima della udienza, si costituisce il convenuto) "devono essere proposte a pena di decadenza le eventuali domande in via riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito (che non siano rilevabili di ufficio)" ed inoltre deve essere presa "posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della sua domanda" e devono essere proposte "tutte le difese in fatto ed in diritto ed indicati specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali il convenuto intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare".

Confrontando tali due indicate norme (o meglio la disciplina, in queste contenuta, della posizione processuale, rispettivamente, dell'attore e del convenuto), varie ordinanze prospettano violazione dei precetti costituzionali dell'eguaglianza (art. 3) e della difesa (art. 24) in danno del convenuto.

In premessa, tutti i provvedimenti muovono dalla constatazione che una (espressa) previsione di decadenza si contiene nell'art. 416 (ove é ripetuta nei commi secondo e terzo) e non anche nell'art. 414 citato.

Da ciò la questione di costituzionalità (in riferimento ai parametri menzionati) che si puntualizza, poi, nella denuncia dell'art. 414 o dell'art. 416: secondo che l'accento sia, in particolare, posto sulla mancata previsione di decadenza anche a carico dell'attore sul fatto, invece, della comminatoria di tali decadenze "nei confronti del solo convenuto".

Nel primo senso, l'ordinanza 9 marzo 1974 del pretore di Modena.

Nel secondo senso, le ordinanze 1 aprile 1974 del pretore di Roma; 10 maggio 1974 del pretore di San Severino Marche; 26 luglio 1974 del pretore di Catania; 18 ottobre 1974 del pretore di Sanremo; nonché 20 marzo 1974 del pretore di Catania (limitatamente al solo comma secondo) e (limitatamente al comma terzo della norma) 25 settembre 1974 del giudice del lavoro presso il tribunale di Udine.

Nei giudizi relativi a tutte le ordinanze indicate é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, escludendo la fondatezza delle sollevate questioni (alla luce anche di una interpretazione delle norme impugnate, che si coordini con il disposto del successivo art. 420, commi primo e quinto).

2. - La disciplina della posizione dell'attore, nei cui riguardi sia stata proposta domanda riconvenzionale, viene, poi, in considerazione nelle ordinanze 9 marzo 1974 del pretore di Modena, già citata, e in quella 25 luglio 1974 del pretore di Alba.

I provvedimenti indicati muovono dalla identica premessa della non equiparabilità della posizione dell'attore in riconvenzione a quella del convenuto e - desumendone, il primo, il corollario che l'attività defensionale dell'attore, nei cui confronti sia stata proposta domanda riconvenzionale, si sottragga alle preclusioni stabilite per il convenuto e, viceversa, il secondo, che la detta attività resti, invece, subordinata, ex commi primo e quinto dell'art. 420 c.p.c. modificato, all'esistenza di "gravi motivi", quanto all'emendatio libelli, e alla impossibilità di precedente indicazione, quanto alla richiesta di prove - denunziano, in diversa (ed anzi antitetica) prospettiva, rispettivamente, l'art. 418 c.p.c., per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto "non prevede l'estensione all'attore in riconvenzione degli obblighi e preclusioni stabiliti, per il convenuto, nei commi secondo e terzo del precedente art. 416", e l'art. 420, commi primo e quinto, citato, per violazione del diritto di difesa in danno (questa volta) dell'attore.

In entrambi i giudizi é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per contestare la fondatezza delle sollevate questioni.

Nel giudizio relativo all'ordinanza del pretore di Alba si é, altresì, costituito il convenuto Monte dei Paschi di Siena, eccependo l'inammissibilità della questione, in quanto la norma denunziata (art. 420) non si riferirebbe all'ipotesi dell'attore chiamato a difendersi in riconvenzionale (disciplinata, invece, dall'art. 418).

3. - Anche l'art. 429, comma terzo, della legge sul nuovo rito del lavoro ha formato oggetto di denunzia; in particolare nella parte in cui prevede a favore del lavoratore l'obbligo del giudice di "determinare il maggior danno eventualmente subito per la diminuzione di valore del credito".

La questione é sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con le ordinanze 1 aprile (già citata), 16 marzo e 6 aprile 1974 del pretore di Roma, sotto il profilo della (ingiustificata) disparità di trattamento che la norma de qua determinerebbe rispetto alle altre obbligazioni pecuniarie, non derivanti da rapporto di lavoro: sia per quanto concerne l'esonero (nella specie) dell'onus probandi (rispetto al danno), sia per la decorrenza del diritto alla rivalutazione (anche da data anteriore all'entrata in vigore della legge 1973, n. 533), sia, infine, per la liquidabilità ex officio del danno da svalutazione.

Sotto analogo profilo, la questione é proposta anche dal pretore di Rotondella, con ordinanza 26 giugno 1974, la cui motivazione, in prevalenza, é accentrata sul punto dell'ingiustificato esonero (del lavoratore) dalla prova del danno subito per effetto della svalutazione.

Con l'ordinanza 9 marzo 1974 (in precedenza menzionata) il pretore di Modena denunzia, invece, la norma (sempre in riferimento all'art. 3 della Costituzione) per la parte in cui non attribuisce analogo trattamento (anche) al datore di lavoro, per crediti derivanti dallo stesso rapporto.

Infine, il pretore di Arcidosso prospetta (con ordinanza 8 marzo 1974) violazione, sotto vari profili, del precetto di eguaglianza.

Rileva, infatti, che la trasformazione (a suo avviso attuata dall'art. 429 denunziato) dei crediti di lavoro (aventi, ab origine, carattere pecuniario) in "crediti di valore" costituisce una non giustificata "scelta preferenziale per il lavoratore", risolventesi in una "situazione di privilegio per il credito di lavoro non ancorata ad una effettiva diseguaglianza sociale - economica fra le categorie di lavoratori e dei prestatori di lavoro".

Ed aggiunge che la norma "avrebbe dovuto caso mai distinguere fra categorie di lavoratori e categorie di imprenditori" (il rapporto fra grande imprenditore ed operaio non essendo certo eguale a quello fra piccolo imprenditore dipendente; e così, nell'ambito della categoria dei prestatori d'opera, non essendo, evidentemente, assimilabile la posizione sociale ed economica del dirigente a quella del più umile dei lavoratori).

Considerato in diritto

1. - In quanto tra loro connesse - nelle premesse da cui muovono o in alcuni profili di svolgimento - le questioni sollevate con le varie ordinanze in epigrafe, possono esaminarsi congiuntamente, al fine di decisione con unica sentenza.

2. - Con le varie ordinanze in narrativa indicate - che formalmente investono l'art. 414 o l''art. 416 od entrambe dette norme del codice di procedura civile (come modificate dall'art. 1 della legge 1973, n. 533) - questa Corte é investita, innanzi tutto, della questione se sia costituzionalmente legittima la disciplina della posizione processuale delle parti (risultante dal coordinamento delle norme predette), dubitandosi che essa consacri una situazione di disparità e (conseguentemente) vulneri il diritto di difesa del convenuto: in quanto - mentre si troverebbe colpita da decadenza la non tempestiva indicazione, nella memoria di costituzione, delle difese eccezioni e prove ed il non contestuale deposito di documenti, da parte del convenuto - analoga sanzione non sarebbe, invece, prevista per quanto attiene al ricorso introduttivo del giudizio, nel caso in cui manchi la specificazione delle domande, o la indicazione dei mezzi di prova e in particolare dei documenti, da parte dell'attore.

La questione - che fa esclusivamente perno sulla comparazione della lettera degli artt. 414 e 416 citati, dando rilievo alla presenza, soltanto nella seconda norma, della espressione "a pena di decadenza" - é priva di fondamento.

La premessa esegetica comune a tutte le ordinanze - che, cioè, debba desumersi, dalla detta mancanza (nell'art. 414) di una espressa statuizione di decadenza, la effettiva inesistenza di preclusione per l'attività defensionale dell'attore (a fronte della diversa disciplina stabilita, dall'art. 416, per il convenuto) - é, infatti, palesemente erronea.

La retta interpretazione delle norme consente, invero, di pervenire alla conclusione che si realizza, invece, nella concreta dialettica del nuovo processo del lavoro, una perfetta simmetria di posizione tra le parti.

Tale simmetria - già sottolineata nella Relazione alle Commissioni riunite della Camera nel corso della V legislatura (ove, con suggestione di immagine, si contrappone all'obbligo del convenuto di "vuotare il sacco" fin dal principio, quello analogo dell'attore di "dire, senza riserva alcuna, fin dall'atto introduttivo tutto ciò che attiene alla sua difesa e fornire il materiale su cui si basa la pretesa") - é ancora, tra l'altro, ribadita nella Relazione alla Commissione Giustizia e Lavoro del Senato nella VI legislatura, venendo additata come una componente essenziale di quella reciproca collaborazione che, nello spirito della buona fede processuale informativo del codice del 1942 (alla cui formulazione originaria si é inteso riportarsi), condiziona, in pratica, lo svolgimento del nuovo rito, nei suoi caratteri di concentrazione, immediatezza ed oralità.

La lettura sistematica del dato normativo conferma, del resto, senza margine alcuno di dubbio, il carattere paritario della disciplina dell'attività defensionale delle parti.

La stessa sanzione che per il convenuto si trova espressamente sancita nell'art. 416 deve, invero, ritenersi prevista per l'attore, sia pure in modo implicito, ma non per questo meno chiaro, in base al disposto dell'art. 414 n. 5 e dell'art. 420.

Infatti, poiché il comma quinto di questa ultima norma consente al giudice di ammettere all'udienza di discussione, oltre i mezzi di prova già proposti, quelli che la parte - e, quindi, anche l'attore - non poteva proporre prima, ne consegue che, successivamente alla presentazione del ricorso, non potranno essere ammesse le prove che lo stesso atto poteva e doveva indicare ai sensi dell'art. 414 ultimo comma.

Valgono analoghe considerazioni per quanto concerne la modificabilità delle domande, eccezioni e conclusioni, che il comma primo dell'art. 420 cit. subordina, allo stesso modo per l'attore e per il convenuto, alla ricorrenza di "gravi motivi" da accertarsi dal giudice.

Le preclusioni sono dunque nel sistema (nel contesto del quale adempiono alle cennate esigenze di accelerazione e semplificazione della procedura): e si rivolgono senza discriminazione così all'attore come al convenuto, con riguardo rispettivamente al ricorso introduttivo e alla comparsa di risposta, che sono gli unici atti di parte antecedenti all'udienza di discussione.

Il riferimento espresso alla decadenza nell'art. 416 potrebbe, quindi, a questo punto, ritenersi superfluo: se non adempisse all'esigenza (non sfuggita ai primi commentatori della legge) di ribadire, con la massima incisività, che il contrattacco al ricorso introduttivo deve essere concentrato ed esaurito nella memoria di costituzione; sicché il magistrato, conoscendo per tempo e nella loro integralità le contrapposte linee difensive, possa speditamente procedere verso l'auspicato obiettivo di un rapido esaurimento del processo, possibilmente in un'unica udienza di discussione.

Pertanto, dovendo escludersi (contrariamente all'assunto di partenza delle ordinanze di rinvio) che siano mantenute al solo attore facoltà processuali precluse al convenuto o che, comunque, sussista alcuna sostanziale discriminazione nella disciplina delle attività processuali delle parti, risulta confermata l'infondatezza delle sollevate questioni di legittimità degli artt. 414 e 416 citati.

3. - Parimenti non consistenti sono, poi, i dubbi prospettati, con le ordinanze dei pretori di Modena e di Alba, rispettivamente, sulla legittimità dell'art. 418 del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, e per la parte in cui non prevede che si estendano, all'attore nei cui confronti sia stata spiegata domanda riconvenzionale, gli obblighi e le preclusioni stabiliti per il convenuto dal precedente art. 416; e sulla legittimità dei commi primo e quinto dell'art. 420 cit., per contrasto con il diritto di difesa (questa volta) dell'attore, nella parte in cui, relativamente alla riconvenzionale contro di lui proposta, subordinano la sua attività defensionale alle condizioni stabilite per l'emendatio e la richiesta di nuove prove in udienza.

Entrambe le questioni muovono - come in narrativa detto - dal presupposto (da cui, poi, traggono opposti corollari) della non equiparabilità, quanto alla disciplina delle rispettive attività difensive, della posizione dell'attore in riconvenzione e di quella del convenuto.

Tale presupposto non é, però, esatto. Come dalla dottrina riconosciuto già con riguardo al processo ordinario (anche nell'ambito del quale manca, come nel nuovo rito del lavoro, una specifica completa regolamentazione della fattispecie conseguente alla proposizione di domanda riconvenzionale) si verifica, con riferimento appunto alla riconvenzionale, un rovesciamento simmetrico della posizione delle parti, in quanto l'attore assume la veste di convenuto e, viceversa, il convenuto quella di attore.

Discende da ciò che la disciplina dell'attività difensiva dell'attore nei riguardi della riconvenzionale, si ricava, per via di analogia (e nei limiti, ovviamente, delle specifiche modalità che la fattispecie impone), dalla disciplina relativa all'attività processuale del convenuto rispetto alla domanda principale.

Con specifico riguardo al rito del lavoro, ciò equivale a dire che l'attore nei cui confronti sia proposta domanda riconvenzionale ha in sostanza gli stessi poteri, e correlativamente incorre (quanto al loro esercizio) nelle stesse preclusioni, che l'art. 416 prevede per il convenuto.

Con l'unica differenza, sul piano formale, che il termine di riferimento é, per il convenuto in riconvenzione, non già l'udienza fissata ex art. 415, bensì la nuova udienza, la cui fissazione deve essere richiesta contestualmente alla proposizione della riconvenzionale, in base al peculiare meccanismo apprestato dall'art. 418.

Anche in questo caso, pertanto, la dimostrata erroneità della premessa (travolgendo le conclusioni che da essa si traggono) conferma la non fondatezza delle questioni di illegittimità costituzionale formulate.

4. - La Corte é, infine, chiamata a decidere della legittimità costituzionale dell'art. 429, comma terzo, del codice di procedura civile, come modificato dalla legge del 1973, per la parte in cui prevede, a favore del lavoratore, l'obbligo del giudice di "determinare il maggior danno eventualmente subito per la diminuzione di valore del credito".

Di tale norma varie ordinanze prospettano - come detto - il contrasto con l'art. 3 della Costituzione; e ciò sotto vari profili, attinenti, da un lato, alla ingiustificata disparità di trattamento dei crediti del lavoratore rispetto in genere agli altri crediti di carattere pecuniario e in particolare ai crediti del datore di lavoro nascenti dallo stesso rapporto; dall'altro lato, alla ingiustificata identità di trattamento (quanto al rilievo dato alla svalutazione) di tutti i crediti di lavoro senza distinguere la diversa posizione sociale - economica delle varie categorie di lavoratori (che vanno dal modesto dipendente all'alto dirigente) e delle varie categorie dei datori di lavoro (che analogamente vanno dal piccolo artigiano al grande imprenditore). Osserva innanzi tutto, la Corte che non occorre prendere posizione sul problema (allo stato ancora dibattuto e di cui é cenno, in particolare, nell'ordinanza del pretore di Arcidosso), se la disciplina introdotta dall'art. 429 impugnato abbia "operato una trasformazione dei crediti del lavoratore aventi (ab origine) carattere pecuniario in crediti di valore" ovvero si sia limitata ad apportare delle deroghe in ordine ai presupposti del risarcimento del danno per inadempimento delle obbligazioni pecuniarie.

Una volta, infatti, che della norma in esame (cui si collega, in via di integrazione, l'art. 150 disp. attuaz. cod. proc. civ. come sostituito dall'art. 9 della legge n. 533 del 1973) é chiaro il contenuto pratico voluto dal legislatore - assicurare cioè al lavoratore (con riferimento al mancato o ritardato pagamento delle prestazioni in suo favore alla scadenza e a decorrere da tale momento) l'adeguamento delle somme dovutegli, in funzione delle variazioni in aumento degli indici dei prezzi calcolati per la scala mobile - non assumono, evidentemente, rilievo, sul piano del giudizio di costituzionalità, le implicazioni dommatiche (quanto all'attuale inquadramento ed alla astratta classificazione dei crediti del lavoratore) che l'introdotta disciplina prospetta: di questa interessando unicamente valutare il contenuto, sotto il profilo della razionalità o meno della diversificazione dei crediti di lavoro rispetto agli altri crediti pecuniari.

Ora, proprio tale razionalità, con riferimento alla scelta legislativa nella specie operata, non può, ad avviso della Corte, revocarsi in dubbio.

La prima (e, di per sé, già decisiva) giustificazione del trattamento privilegiato attribuito ai crediti di lavoro sta, infatti, nella qualità stessa del credito che trova, nello sfondo, il presidio e la garanzia (per così dire rafforzata) di più precetti costituzionali, quali quelli contenuti negli artt. 1, 3 cpv., 4, 34 e 36.

Nel contesto di tale peculiare tutela razionalmente si colloca la normativa denunziata, apprestando un meccanismo di conservazione del valore in senso economico delle prestazioni dovute al lavoratore, volto a preservare (o, comunque, ripristinare) quel "potere di acquisto di beni reali" che si connette alla retribuzione ed alle indennità di fine rapporto (costituenti la parte indiscutibilmente prevalente dei crediti del lavoratore) e nel contempo ad eliminare il vantaggio che (in precedenza) conseguiva il datore di lavoro col ritardato adempimento, il quale lo poneva, a fronte del solo rischio del pagamento degli interessi legali, in condizioni di lucrare gli effetti della svalutazione monetaria e di disporre delle somme di spettanza del lavoratore. Il che, in altre parole, equivale a dire che il meccanismo esaminato non si risolve (ex altero latere) in un depauperamento del patrimonio del datore di lavoro (soccombente): dal quale viene recuperato, con manovra sostanzialmente riequilibratrice, quel tanto di arricchimento conseguito dal datore di lavoro che non ha compensato la forza di lavoro, il cui frutto ha investito nella propria struttura organizzativa.

Non va, poi, trascurato l'elemento funzionale concorrente (che si combina con gli altri sin qui esaminati con carattere di maggiore o minore prevalenza, a seconda del tipo di rapporto di lavoro considerato) rappresentato dalla "remora" che la disciplina denunciata ingenera rispetto - più che a manovre dilatorie nel processo (cui la stessa attuale strutturazione del rito, improntata a criteri di accelerazione, contribuisce a porre rimedio) - al fatto stesso del non puntuale adempimento alla scadenza delle prestazioni destinate ad assolvere esigenze primarie del lavoratore.

Tale remora basterebbe, di per sé, a giustificare la norma in esame, ove si consideri che il pagamento tempestivo delle spettanze dei lavoratori, oltreché all'interesse individuale dei medesimi, risponde ad un interesse generale della intera collettività e che - proprio con riguardo alle prestazioni retributive - é stata già sottolineata (v. sentenza di questa Corte n. 54 del 1967) la legittimità di norme di tutela risolventisi nella previsione, addirittura, di sanzioni penali per il caso del mancato o ritardato adempimento.

La ratio stessa della disciplina impugnata ne giustifica la mancata estensione ai crediti del datore di lavoro, nei riguardi dei quali, evidentemente, non ricorrono la sottolineata esigenza di garanzia di bisogni primari e la predetta funzione di riequilibrio economico: dimodoché, anche sotto tale aspetto, il dubbio di costituzionalità si rivela non fondato.

Lo stesso é a dire per quanto attiene al profilo (su cui si sofferma il pretore di Arcidosso) di mancata diversificazione della disciplina sul punto della svalutazione in rapporto alla posizione - "non certo di debolezza" - di alcune categorie di prestatori d'opera, quali, ad esempio, i dirigenti e, correlativamente, alla posizione "non preminente", in cui si trovano categorie di datori di lavoro, come i piccoli imprenditori, gli artigiani, etc.

A parte, infatti, che a tale rilievo sarebbe sufficiente opporre l'esigenza, propria della legislazione per norme generali, di modellarsi sull'id quod plerumque accidit (onde l'impossibilità di tener conto delle situazioni limite o, comunque, estreme), gli é che, in realtà, anche rispetto ai rapporti peculiari sopra cennati non difettano le ragioni che giustificano l'applicazione del meccanismo ex art. 429; anche se, nel concreto, queste, poi, si combinano in diversa misura e intensità : assumendo, ad esempio, nei rispetti di un dirigente, la funzione di riequilibrio economico, carattere certamente prevalente rispetto a quella di sostentamento.

Considerazione a parte richiede, infine, il rilievo, contenuto nelle ordinanze del pretore di Roma, di violazione dell'art. 3 della Costituzione, per il trattamento ingiustificatamente più favorevole riservato ai crediti di lavoro (rispetto agli altri crediti pecuniari), quanto alla possibilità di decorrenza del diritto alla rivalutazione da data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 533 del 1973.

Il problema di applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 1 (come modificativo dell'art. 429 cod. proc. civ.) e 9 (come sostitutivo dell'art. 150 disp. attuaz. cod. proc. civ.) della legge n. 533 del 1973 ai crediti sorti anteriormente alla entrata in vigore della detta legge non può dirsi univocamente risolto in dottrina e in giurisprudenza: giacché alla tesi che - pur riconoscendo l'applicabilità di tale disciplina ai crediti di lavoro maturati anteriormente alla entrata in vigore della legge (sempreché l'inadempimento si sia protratto oltre la data predetta) - ritiene che l'adeguamento debba farsi con riguardo e limitatamente alla svalutazione successiva, si contrappone la tesi secondo cui l'adeguamento deve operarsi tenendo conto anche della svalutazione intervenuta prima della entrata in vigore della legge.

A giudizio della Corte va condivisa la prima delle due esposte soluzioni, la quale risponde al principio della irretroattività della legge che (ancorché non sempre costituzionalmente garantito) costituisce espressione di civiltà giuridica e non risulta, nella specie, derogato né esplicitamente, né implicitamente.

Deve, infatti, anzitutto escludersi che la retroattività nel senso sopraindicato discenda dalla disposizione transitoria dell'art. 20, comma primo, della legge del 1973 citata (che dispone l'applicabilità delle norme della legge stessa anche "ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore"): se non altro perché, - come ha di recente riconosciuto la stessa Corte di Cassazione, che pur ha aderito alla prima tesi - la detta disposizione si riferisce alle norme di natura processuale e non anche alle norme di carattere sostanziale come quella del comma terzo dell'art. 429.

Né possono condividersi le altre argomentazioni che desumono la efficacia retroattiva della norma dalla dizione dello stesso art. 429, là dove questo indica come decorrenza il giorno della "maturazione del diritto"; dal fatto che la norma, essendo diretta ad ovviare alle conseguenze del fenomeno della svalutazione (il quale presuppone il decorso di un non breve periodo di tempo), resterebbe svuotata della sua ragione d'essere qualora non prendesse in considerazione gli effetti della svalutazione anteriore alla sua entrata in vigore, una volta che, ad impedire l'incidenza della svalutazione successiva, sarebbe bastato il meccanismo complessivo che assicura la rapidità del processo del lavoro; ed inoltre dalle enunciazioni che sarebbero contenute nei lavori preparatori.

Infatti, l'espressione "con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto", che si riferisce, non solo alla somma corrispondente alla diminuzione di valore del credito, ma anche agli interessi legali, é dettata al fine di determinare il dies a quo indipendentemente da atti di costituzione in mora (analogamente a quanto prescritto dall'art. 1282 cod. civ. per il decorso degli interessi corrispettivi).

E, nel contesto di tale espressione, il riferimento al giorno della maturazione del diritto fa parte del contenuto precettivo innovativo della norma e non rappresenta una disposizione collaterale avente carattere intertemporale.

Il secondo degli argomenti sopra indicati trascura poi di considerare che l'intervallo temporale entro cui può verificarsi la svalutazione del credito non é soltanto costituito dalla durata del processo ma anche e soprattutto dal periodo di tempo (normalmente) intercorrente tra la maturazione del diritto e l'inizio del processo.

Infine, per quanto attiene ai lavori preparatori, é da osservare che - se pure alcuni parlamentari, nei loro interventi (soprattutto nel corso della legislatura precedente a quella in cui il testo della disposizione fu approvato) consideravano la norma come retroattiva -, quando il problema fu discusso ex-professo, un emendamento diretto ad escludere l'efficacia retroattiva nel senso sopra precisato non venne accolto proprio in base alla considerazione, espressa dal relatore Martinazzoli (Senato, VI Legislatura - Commissioni riunite - 29 marzo 1973), che esso era superfluo in quanto la irretroattività già discendeva dai principi generali.

Dovendosi quindi escludere, per quanto fin qui detto, che risulti, nella specie, espressamente od implicitamente voluta una deroga al principio di irretroattività consacrato nell'art. 11 delle preleggi, resta confermato che, secondo la corretta interpretazione della norma denunziata, nell'ipotesi di crediti maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge, deve tenersi conto soltanto della svalutazione posteriore alla data predetta.

Ciò, del resto, risponde pienamente alla applicazione che del suddetto principio di irretroattività fa l'art. 161 delle disposizioni di attuazione del codice civile rispetto al decorso degli interessi corrispettivi, di cui all'art. 1282 cod. civ., sui crediti di somme di denaro divenuti esigibili prima dell'entrata in vigore dello stesso codice; nonché la giurisprudenza, ormai da tempo consolidata, della Corte di Cassazione sui limiti di applicazione della disposizione innovativa di cui all'art. 1224 cod. civ. concernente la risarcibilità del maggior danno dipendente dalla mora, nella ipotesi di inadempimento verificatosi prima della entrata in vigore dello stesso codice.

Pertanto, anche sotto il profilo della prospettata decorrenza del diritto alla rivalutazione "anche da data anteriore alla entrata in vigore della legge 1973, n. 533", la questione di costituzionalità dell'art. 429, comma terzo, non é fondata, poiché muove da una non esatta interpretazione della norma denunziata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione:

a) le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 414 e 416 del codice di procedura civile come modificati dall'art. 1 della legge 1973, n. 533, sul nuovo rito del lavoro, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, con le ordinanze in epigrafe indicate dei pretori di Modena, Roma, San Severino Marche, Catania, San Remo e del giudice del lavoro presso il tribunale di Udine;

b) le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 418 e 420, commi primo e quinto, del codice di procedura civile come modificati dall'art. 1 legge 1973 citata sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, con le ordinanze dei pretori di Modena ed Alba, di cui in epigrafe;

c) le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 429, comma terzo, del codice di procedura civile come modificato dall'art. 1 della legge 1973 citata, sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con le ordinanze in epigrafe dei pretori di Roma, Arcidosso e Rotondella.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 gennaio 1977.

Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 14 gennaio 1977.