SENTENZA N. 128
ANNO 1975
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 21, terzo comma, della legge 21 luglio 1965, n. 903; 36, secondo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488; 43, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153; e 6, primo comma, del d.l. 30 giugno 1972, n. 267, convertito in legge 11 agosto 1972, n. 485, sui trattamenti pensionistici ed assistenziali, promosso con ordinanza emessa il 28 ottobre 1972 dal tribunale di Rieti nel procedimento civile vertente tra Lucantoni Antonio e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 55 del 28 febbraio 1973.
Visto l'atto di costituzione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale;
udito nell'udienza pubblica del 5 marzo 1975 il Giudice relatore Guido Astuti;
udito l'avv. Giovanni Battista Rossi Doria, per l'INPS.
Ritenuto in fatto
Nella causa civile vertente tra Lucantoni Antonio e l'INPS, avente ad oggetto maggiorazione della pensione per familiare a carico, il tribunale di Rieti ha sollevato, di ufficio, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 21, terzo comma, della legge 21 luglio 1965, n. 903, 36, secondo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, 43, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153, e 6, primo comma, del d.l. 30 giugno 1972, n. 267, convertito in legge 11 agosto 1972, n. 485.
Secondo l'ordinanza di rinvio, la normativa impugnata, nel prevedere un minor limite massimo di reddito del coniuge a carico, non ostativo all'aumento della pensione dell'altro coniuge, nell'ipotesi di redditi non derivanti esclusivamente da pensione, urterebbe contro il principio di eguaglianza e lederebbe il diritto del lavoratore ad ottenere per il caso di vecchiaia, mezzi adeguati alle esigenze di vita.
Si é costituito in giudizio l'Istituto nazionale della previdenza sociale, deducendo l'infondatezza della questione proposta.
Considerato in diritto
1. - L'ordinanza di rimessione solleva, in riferimento agli artt. 38, secondo comma, e 3, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 21, terzo comma, della legge 21 luglio 1965, n. 903; 36, secondo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488; 43, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153, e 6, primo comma del decreto legge 30 giugno 1972, n. 267, convertito in legge 11 agosto 1972, n. 485, "nella parte in cui prevedono un minor limite massimo di reddito del coniuge a carico non ostativo all'aumento della pensione dell'altro coniuge nell'ipotesi di redditi non derivanti esclusivamente da pensione".
Osserva il giudice a quo che l'aumento della pensione INPS quando il titolare abbia il coniuge convivente a carico costituisce una forma di integrazione del trattamento previdenziale dei lavoratori, mirante ad assicurarne, per quanto possibile, l'adeguamento alle esigenze normali di vita, tra le quali non possono non comprendersi, - ancorché la formulazione dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione sia diversa da quella dell'art. 36, primo comma - , "anche quelle particolari derivanti dalla posizione di capo della famiglia del lavoratore pensionato, e dal carico che su di lui eventualmente si riversa per il sostentamento del coniuge". Pertanto, dopo aver attribuito tale diritto e riconosciuto che un determinato reddito personale é insufficiente all'autonomo sostentamento del coniuge a carico, il legislatore non potrebbe negare il diritto all'aumento della pensione, quando il coniuge a carico goda di un reddito inferiore a quello già ritenuto, in identiche condizioni, insufficiente all'autonomo sostentamento, solo per la sua diversa natura o provenienza. In tal guisa sarebbe violato anche il principio di eguaglianza, "perché il fondamento e la natura del diritto all'aumento della pensione per il coniuge a carico non può che indurre a ritenere irrilevante la provenienza del reddito del familiare stesso al fine di discriminare il diritto del pensionato all'ottenimento di mezzi adeguati alle esigenze di vita sue e del coniuge a carico".
2. - La questione, sulla cui rilevanza ai fini della decisione del giudizio di merito l'ordinanza fornisce esauriente motivazione, é fondata. La prima delle disposizioni denunciate (art. 21, terzo comma, della legge 21 luglio 1965, n. 903), ha riconosciuto ai titolari di pensioni INPS determinati aumenti delle loro pensioni, per la moglie a carico o per il marito a carico invalido al lavoro, "purché essi non abbiano proventi di qualsiasi natura superiori nel complesso a lire 17.000 mensili, o a lire 24.500 mensili ove si tratti di redditi derivanti esclusivamente da trattamento di pensione"; e le disposizioni successive sopra ricordate hanno con analoghe formule gradualmente elevato questi limiti di reddito personale del coniuge a carico, mantenendo ferma la distinzione tra i redditi derivanti da trattamento di pensione e gli altri proventi di qualsiasi natura. Solo con il decreto legge 30 giugno 1972, n. 267, convertito in legge 11 agosto 1972, n. 485, la distinzione, ancora conservata dal primo comma dell'art. 6 fino al 30 giugno 1972, é stata eliminata dal secondo comma del medesimo art. 6, a decorrere dal 1 luglio dello stesso anno, con riferimento ad una nuova, unica misura di "redditi e proventi di qualsiasi natura, ivi compresi quelli derivanti esclusivamente da trattamento di pensione".
Sono evidenti i motivi che hanno indotto il legislatore, nella progressiva attuazione del principio sancito dall'art. 38, secondo comma, della Costituzione, a realizzare con gradualità nel tempo il miglioramento dei trattamenti pensionistici e assistenziali con riguardo all'esistenza di un coniuge a carico, subordinando la concessione dell'aumento delle pensioni alla condizione che detto coniuge non avesse un proprio reddito personale superiore ad un certo importo, aumentato poi con successive disposizioni. Ma sembra ovvio osservare che, una volta stabilito tale importo come indice di reddito insufficiente all'autonomo sostentamento del coniuge a carico, e ciò con riferimento ad esigenze minime di vita, date le misure sempre molto modeste fissate dalle diverse disposizioni succedutesi nel tempo, non poteva ragionevolmente il legislatore istituire una differenza di trattamento in rapporto alla origine o provenienza di quel reddito, accordando o negando l'aumento delle pensioni INPS secondo che il coniuge del pensionato avesse solo un reddito di pensione, ovvero proventi diversi "di qualsiasi natura", inferiori a detto reddito.
3. - L'Istituto della previdenza sociale, nelle sue deduzioni, ha sostenuto che la legge del 1965 non avrebbe stabilito in lire 24.500 il minimo indispensabile per il mantenimento in proprio del coniuge del pensionato, bensì avrebbe fissato tale limite nella misura di lire 17.000 mensili, apportando una eccezione alla regola per il caso di reddito proveniente esclusivamente da trattamento di pensione. Ma l'assunto dell'Istituto appare infondato, perché non esiste plausibile motivo che possa ragionevolmente spiegare la pretesa eccezione in rapporto all'origine pensionistica del reddito, come causa giustificativa di una elevazione del limite di legge. Se il legislatore ha ritenuto che una pensione di lire 24.500 mensili goduta dal coniuge a carico non é sufficiente per il suo autonomo mantenimento e pertanto é compatibile con l'aumento della pensione dell'altro coniuge, é evidente che questa é la misura limite, richiesta quale condizione per riconoscere il diritto all'aumento, e che non vi é motivo per disconoscere il medesimo diritto quando il coniuge a carico goda di altri proventi inferiori, ma, anche solo in parte, di diversa natura.
L'affermazione dell'Istituto di previdenza, per cui "il pensionato che non abbia redditi di altra natura si trova in una situazione soggettiva di bisogno non equiparabile a quella di chiunque altro sia possessore di reddito dello stesso importo ma di diversa provenienza", non é sorretta da alcun valido argomento. Tale non é certamente il richiamo alle norme vigenti sulla incedibilità, insequestrabilità e impignorabilità, imprescrittibilità, irrenunziabilità delle pensioni, o sulla loro limitata tassabilità, che dimostrano precisamente come i proventi delle pensioni siano semmai più sicuri o meglio garantiti di quelli derivanti dal reddito di piccoli capitali immobiliari o mobiliari, o di modeste attività economiche, e comunque non tali da giustificare uno speciale trattamento sotto il profilo della pretesa minore idoneità a soddisfare esigenze minime di sostentamento e di vita.
In altri termini, il riconoscimento del diritto all'aumento delle pensioni INPS quando il titolare abbia un coniuge considerato a carico, in quanto fornito di redditi non superiori a un determinato importo, ritenuto di per sé insufficiente al suo mantenimento, rende del tutto irrilevante il riferimento alla natura e provenienza di tali redditi; e pertanto ne consegue la irrazionalità del diverso trattamento attuato dalle disposizioni denunciate, con la distinzione tra i redditi derivanti esclusivamente da pensione e quelli di altra natura o provenienza, distinzione che lo stesso legislatore ha ormai abolito, richiedendo, con il secondo comma dell'art. 6 della legge ora vigente, un'unica misura- limite per i "redditi e proventi di qualsiasi natura, ivi compresi quelli derivanti esclusivamente da trattamento di pensione". Deve conseguentemente dichiararsi la illegittimità costituzionale parziale della preesistente normativa, per contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione; e questa pronuncia é assorbente di ogni altra considerazione circa il diritto dei lavoratori ad un trattamento di quiescenza adeguato alle loro esigenze di vita, secondo il disposto dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 21, terzo comma, della legge 21 luglio 1965, n. 903; dell'art. 36, secondo comma, del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, dell'art. 43, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153; dell'art. 6, primo comma, del decreto legge 30 giugno 1972, n. 267, convertito in legge 11 agosto 1972, n. 485, nella parte in cui, per l'ipotesi di redditi del coniuge a carico non derivanti esclusivamente da pensione, stabiliscono un limite ostativo all'aumento delle pensioni dell'Istituto nazionale della previdenza sociale diverso da quello previsto per i redditi derivanti da pensione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 1975.
Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 28 maggio 1975.