SENTENZA N. 46
ANNO 1975
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente
Avv. Giovanni Battista BENEDETTI
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 21, terzo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare), promosso con ordinanza emessa il 5 lug1io 1973 dal tribunale di Salerno sull'istanza dell'avv. La Torraca Alfredo, curatore del fallimento Martucci Angelo, iscritta al n. 356 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 276 del 24 ottobre 1973.
Udito nella camera di consiglio del 19 dicembre 1974 il Giudice relatore Angelo De Marco.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza 5 luglio 1973 i1 tribunale di Salerno, chiamato a decidere sull'istanza di liquidazione del compenso dovutogli, proposta dal curatore di un fallimento la cui dichiarazione era stata revocata con sentenza passata in giudicato per mancanza degli estremi di legge che la legittimassero e con esclusione di colpa da parte del creditore istante, dichiarava rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 21 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) in base al quale, secondo la costante giurisprudenza, avrebbe dovuto porre tale compenso a carico del fallito, in riferimento agli artt. 24, comma quarto, e 3 della Costituzione.
Dopo gli adempimenti di legge, non essendovi stata costituzione od interventi di parti, il giudizio come sopra promosso é stato portato alla cognizione della Corte adunata in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 26, comma secondo, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
Considerato in diritto
1. - L'art. 21 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), nel disciplinare gli effetti della revoca della dichiarazione di fallimento, tra l'altro, al terzo comma, dispone: "Le spese di procedura e il compenso al curatore sono a carico del creditore istante, che é stato condannato ai danni per aver chiesta la dichiarazione di fallimento con colpa. In caso contrario il curatore può ottenere il pagamento, in tutto o in parte, secondo le modalità stabilite dalle speciali norme vigenti per l'attribuzione di compensi ai curatori, che non poterono conseguire adeguata retribuzione".
Le "speciali norme vigenti" richiamate nella seconda parte del riportato comma erano quelle contenute nella legge 10 luglio 1930, n. 995, relative alla istituzione del ruolo degli amministratori giudiziari (art. 1) e del fondo speciale destinato, tra l'altro, ad attribuire i detti compensi ai curatori nel caso sopra ipotizzato (art. 5 u.c.).
Soppressi il ruolo ed il fondo speciale di cui si é detto con il d.l.C.P.S. 23 agosto 1946, n. 153, la giurisprudenza della Cassazione ha costantemente affermato il principio che, nell'ipotesi già disciplinata nella detta seconda parte del terzo comma dell'art. 21 del r.d. n. 267 del 1942, spese e compensi del curatore dovessero essere posti a carico del fallito.
Il tribunale, chiamato a decidere sull'istanza di compenso presentata dal curatore, nei confronti di un imprenditore commerciale, la cui dichiarazione di fallimento era stata revocata in sede di opposizione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 21 del r.d. n. 267 del 1942 sotto un duplice profilo:
a) violazione dell'ultimo comma dell'art. 24 della Costituzione, in quanto mentre tale norma - applicabile, secondo l'ordinanza di rinvio, anche nella materia civile - prevede addirittura la riparazione degli errori giudiziari, di fronte ad un evidente errore giudiziario, chi ne é stato vittima non solo non ha diritto ad alcuna riparazione, ma é addirittura tenuto a subirne un ulteriore onere;
b) violazione dell'art. 3 della Costituzione in quanto, senza razionale ragione, in deroga al principio che le spese seguono la soccombenza, si pongono a carico di chi non solo non é soccombente ma non ha dato causa al procedimento, nel quale é risultato vincitore, gli oneri derivanti dal procedimento stesso.
2. - Così chiaritine i termini risulta che la questione é fondata, sotto l'assorbente profilo della violazione del principio di eguaglianza.
Che anche nel procedimento fallimentare, quando ne ricorrono gli estremi, si debba applicare il principio che le spese seguono la soccombenza risulta confermato dalla stessa norma impugnata che implicitamente ne prevede addirittura una forma aggravata - quale la condanna al risarcimento dei danni - per il creditore che abbia richiesta la dichiarazione di fallimento con colpa.
Né può obbiettarsi che risolvendosi, in sostanza, quello fallimentare in un procedimento esecutivo, debba ad esso applicarsi l'art. 95 del codice di procedura civile, in base al quale le spese vanno poste a carico di chi ha subito l'esecuzione.
Tale principio, infatti, presuppone una esecuzione legittima ed indubbiamente ben deve essere applicato nel procedimento fallimentare quando abbia avuto il suo corso normale, con la liquidazione dell'attivo e la relativa ripartizione tra i creditori.
Ma quando, come nella specie, il procedimento sia stato troncato sul nascere per la contestazione della mancanza degli estremi che ne legittimassero l'instaurazione e per giunta non può ravvisarsi nel comportamento di chi l'abbia subita un qualsiasi elemento di rapporto di causa ad effetto con tale instaurazione, evidentemente manca ogni fondamento giuridico per una pronunzia che ha come presupposto necessario l'affermazione di una responsabilità.
Infatti, appunto alla responsabilità delle parti per le spese ed i danni processuali é intitolato il capo IV del titolo III del codice di procedura civile che disciplina la relativa materia e presupposto di qualsiasi forma di responsabilità é sempre un comportamento, anche se lecito, dal quale possa derivare ad altri un onere o peggio un danno, con rapporto diretto ed immediato di causalità.
Alla stessa guisa, pertanto, che il creditore istante che abbia provocato una dichiarazione di fallimento successivamente revocata, in tanto può essere chiamato a rispondere dei danni derivatine in quanto sia incorso in colpa, il debitore dichiarato illegittimamente fallito, in tanto può essere ritenuto responsabile degli oneri che da tale dichiarazione siano derivati, in quanto se non proprio in colpa, sia incorso in comportamenti che abbiano indotto il giudice all'errato convincimento della esistenza degli estremi necessari per la dichiarazione successivamente revocata.
Quando questo comportamento non vi sia, evidentemente non vi può essere affermazione di quella particolare forma di responsabilità che é il presupposto necessario di ogni condanna al pagamento di spese o di compensi inerenti al procedimento revocato.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 21, comma terzo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui, nel caso di sentenza di revoca della dichiarazione di fallimento, pone a carico di chi l'abbia subita senza che ne ricorressero i presupposti e senza che vi avesse dato causa col suo comportamento le spese della procedura ed il compenso al curatore.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 1975.
Francesco Paolo BONIFACIO – Giovanni Battista BENEDETTI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO
Depositata in cancelleria il 6 marzo 1975.