SENTENZA N. 77
ANNO 1974
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Avv. Giovanni Battista BENEDETTI
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2113, secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza emessa il 21 maggio 1971 dal pretore di Gonzaga nella causa di lavoro vertente tra Mortoni Tacito ed il Consorzio di miglioramento fondiario "Po Morto - Digagnola", iscritta al n. 255 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 233 del 15 settembre 1971.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 6 febbraio 1974 il Giudice relatore Guido Astuti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso di una causa di lavoro vertente tra Mortoni Tacito ed il Consorzio di miglioramento fondiario "Po Morto - Digagnola" il pretore di Gonzaga ha sollevato, di ufficio, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2113, secondo comma, del codice civile per contrasto con gli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione.
Nell'ordinanza di rinvio si afferma che la norma impugnata, per la eccessiva brevità del termine previsto a pena di decadenza per impugnare le rinunzie e transazioni invalide in quanto aventi ad oggetto diritti non derogabili del prestatore d'opera, sarebbe in contrasto con i principi del diritto al lavoro e del diritto alla giusta retribuzione.
Inoltre la stessa norma determinerebbe un trattamento deteriore dei diritti del lavoratore, rispetto al regime ordinario dei crediti periodici, soggetti ad un termine di prescrizione e non di decadenza. La disposizione impugnata creerebbe infine una ulteriore disparità di trattamento, secondo che al termine del rapporto il lavoratore abbia rilasciato una mera dichiarazione liberatoria o una dichiarazione transattiva o abdicativa dei diritti maturati.
É intervenuto in giudizio, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, deducendo la infondatezza della questione proposta.
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza di rimessione viene sollevata d'ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2113, secondo comma, del codice civile, in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione. La statuizione di un breve termine di decadenza per l'impugnazione delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge svuoterebbe di efficacia pratica la declaratoria di invalidità contenuta nel primo comma dello stesso art. 2113, offrendo una tutela meno favorevole di quella risultante dal comune regime di prescrizione dei crediti periodici, e determinando una disparità di trattamento, in ordine al diritto alla giusta retribuzione, secondo che sia intervenuta o meno, alla fine del rapporto, una semplice dichiarazione liberatoria, ovvero una dichiarazione transattiva o abdicativa dei diritti maturati.
2. - La questione non é fondata. La prospettata disparità di trattamento, che dipenderebbe dalla diversa durata dei termini di prescrizione e di decadenza "in ordine a un medesimo diritto", non sussiste, perché non é possibile istituire un raffronto tra fattispecie essenzialmente diverse, come quelle disciplinate dalla norma denunziata e dall'art. 2948, n. 4, del codice civile. L'art. 2113, secondo comma, non concerne l'azione accordata a tutela del diritto alla retribuzione, diritto di credito soggetto, di regola, al termine quinquennale di prescrizione stabilito dall'art. 2948, n. 4, bensì l'impugnazione degli atti di disposizione di tale credito, liberamente compiuti dal lavoratore dopo la risoluzione del rapporto d'impiego; atti ovviamente non comparabili, per contenuto e valore, alle semplici dichiarazioni di quietanza. Appare pertanto ingiustificato il richiamo alle norme concernenti la prescrizione dei diritti, per contestare la legittimità della normativa stabilita dall'art. 2113 del codice civile, che sancisce l'invalidità dei negozi di disposizione di diritti già acquisiti, assoggettando tuttavia la relativa azione di annullamento ad un termine di decadenza.
L'ordinanza fa richiamo all'art. 36 della Costituzione, che riconosce il diritto del lavoratore ad una giusta retribuzione: ma la garanzia costituzionale di questo diritto patrimoniale, pur implicando la nullità di ogni rinunzia preventiva alla retribuzione, non comporta tuttavia una assoluta indisponibilità, e come non esclude la prescrittibilità del diritto, così non impedisce al legislatore di disciplinare le forme e i modi di esercizio del potere di impugnazione degli atti di disposizione eventualmente compiuti dal lavoratore, sotto pena di decadenza. Sono ovvie le esigenze di certezza giuridica che giustificano la comminatoria della decadenza e la connessa statuizione di un limite temporale: ai fini della legittimità costituzionale importa soltanto che sia effettivamente garantita al lavoratore la concreta possibilità di ricorso alla tutela giurisdizionale. Non si può dire che un termine di tre mesi sia così breve da rendere illusoria tale possibilità; al contrario, esso appare congruo e sufficiente, tanto più considerando che decorre dalla data di risoluzione del rapporto, o da quella della rinunzia o transazione successivamente intervenuta, cosicché risulta assicurata anche la piena libertà di azione dell'interessato.
La stessa disciplina normativa contenuta nei primi due commi dell'art. 2113 é stata del resto oggetto di recente conferma con l'art. 6 della legge 11 agosto 1973, n. 533, che ha portato da tre a sei mesi il termine di impugnazione, ferma rimanendo tuttavia la sanzione della decadenza.
3. - L'ordinanza di rimessione fa generico riferimento anche all'art. 4 della Costituzione: ma il richiamo é privo di fondamento, perché l'art. 4 riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, senza peraltro incidere direttamente sul regolamento normativo dei rapporti di lavoro né sul regime delle retribuzioni.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2113, secondo comma, del codice civile, sollevata con l'ordinanza di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 1974.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 20 marzo 1974.