SENTENZA N. 184
ANNO 1973
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, ultimo comma, della legge 26 luglio 1965, n. 965 (Miglioramenti ai trattamenti di quiescenza delle Casse per le pensioni ai dipendenti degli enti locali e agli insegnanti, modifiche agli ordinamenti delle Casse pensioni facenti parte degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), e dell'art. 1 della legge 8 giugno 1966, n. 424 (Abrogazione di norme che prevedono la perdita, la riduzione o la sospensione delle pensioni a carico dello Stato o di altro ente pubblico), promosso con ordinanza emessa il 6 novembre 1971 dalla Corte dei conti - sezione III pensioni civili - sul ricorso di Giustozzi Franco contro la Direzione generale degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 180 del 12 luglio 1972.
Visti gli atti di Costituzione di Giustozzi Franco e della Direzione generale degli Istituti di previdenza;
udito nell'udienza pubblica del 17 ottobre 1973 il Giudice relatore Giuseppe Verzi;
uditi l'avv. Aurelio Schwarzenberg, per il Giustozzi, e il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Zagari, per la Direzione generale degli Istituti di previdenza.
Ritenuto in fatto
Giustozzi Franco, impiegato di segreteria dell'Azienda elettrica municipalizzata di Macerata, dal 1 gennaio 1969 cessava dal servizio per dimissioni volontarie e il direttore generale degli Istituti di previdenza, quale amministratore della Cassa per le pensioni ai dipendenti degli Enti locali, con decreto 28 novembre 1969, n. 23947, liquidava a titolo di indennità la somma di lire 2.040.850 sulla base di anni 13, mesi 6 e giorni 29 di servizio utile, disponendo la devoluzione di essa all'Istituto nazionale della previdenza sociale per la costituzione della posizione assicurativa, ai sensi della legge 2 aprile 1958, n. 322. La misura integrale della indennità in base al servizio prestato sarebbe stata in effetti di lire 4.081.700, ma, tenuto conto che la cessazione dal servizio si era verificata per dimissioni volontarie, era stata ridotta alla metà, ai sensi dell'art. 5, ultimo comma, della legge 26 luglio 1965, n. 965.
Avverso il suddetto decreto il Giustozzi proponeva ricorso alla Corte dei conti denunziando, tra l'altro, la illegittimità costituzionale del menzionato art. 5 della legge n. 965 in riferimento all'art. 36 della Costituzione.
La Corte dei conti - terza sezione giurisdizionale - su conforme parere del pubblico ministero, con ordinanza 6 novembre 1971 ha accolto l'eccezione del Giustozzi e, sospeso il giudizio, ha rimesso gli atti a questa Corte per la relativa decisione. Con la stessa ordinanza, altresì, la Corte dei conti ha sollevato d'ufficio anche la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 8 giugno 1966, n. 424, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.
Nel presente giudizio si è costituito il Giustozzi e la Direzione generale degli Istituti di previdenza (C.P.D.E.L.) rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato. Quest'ultima ha concluso chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Considerato in diritto
L'ordinanza della Corte dei conti solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, ultimo comma, della legge 26 luglio 1965, n. 965, il quale, per i dipendenti degli enti locali iscritti alla relativa Cassa pensioni, riduce a metà - quando cessano dal servizio per dimissioni volontarie - l'importo della indennità "una volta tanto", che viene invece corrisposta per intero quando la cessazione del rapporto di lavoro avvenga per altro titolo (raggiungimento dei limiti di età, inabilità fisica, e perfino provvedimenti disciplinari o condanne penali).
Sarebbero fondati i dubbi di legittimità di questa norma in riferimento all'art. 36 della Costituzione dopo che la Corte costituzionale ha affermato che la pensione riveste carattere di retribuzione differita, dal momento che il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato deve intendersi rivolto non soltanto alla retribuzione corrisposta durante il servizio, ma anche a quella differita. La quale, nel vigente sistema previdenziale, può essere di due tipi: pensione o indennità "una volta tanto". Inoltre, a proposito della indennità di anzianità spettante ai lavoratori ex art. 2120 del codice civile, la Corte ha escluso che i motivi della risoluzione del rapporto (colpa del lavoratore o dimissioni volontarie) possano influire sull'obbligo della corresponsione di detta indennità. La norma impugnata appare, poi, in contrasto con l'art. 3 Cost. giacché può risultare lesivo del principio di uguaglianza che venga attribuita in misura intera l'indennità in esame a coloro che cessino dal servizio perfino per provvedimento disciplinare o condanna penale, e venga invece corrisposta in misura ridotta a chi cessi per volontarie dimissioni.
In contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost. sarebbe ancora l'art. 1 della legge 8 giugno 1966, n. 424, che abroga le disposizioni che prevedono, a seguito di condanna penale o di provvedimento disciplinare, la perdita, riduzione o sospensione del diritto del dipendente dello Stato o di altro ente pubblico al conseguimento della pensione, o di ogni altro assegno od indennità da liquidarsi in conseguenza della cessazione del rapporto di dipendenza. e l'art. 2 ha ripristinato nei confronti dei medesimi la pensione o le indennità perdute, ridotte o sospese. Detti articoli non comprendono, accanto ai dipendenti colpiti da provvedimenti disciplinari o penali, coloro che sono cessati dal servizio per dimissioni, meritevoli tuttavia anch'essi di un trattamento quanto meno di uguale favore.
La questione, che va decisa in base ai principi enunciati dalla su indicata giurisprudenza della Corte, è fondata.
L'indennità una tantum liquidata in occasione della cessazione del rapporto di lavoro dipendente, costituisce anch'essa - come la pensione - parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita allo scopo di agevolare il superamento delle difficoltà economiche, possibili ad insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione. Per assolvere a tale finalità, che sta a base del differimento del pagamento, la misura dell'indennità viene determinata in proporzione alla durata del lavoro prestato ed alla complessiva retribuzione di carattere continuativo, senza che il motivo che dà luogo alla risoluzione del rapporto (colpa del lavoratore o dimissioni volontarie) possa avere alcuna incidenza.
L'Avvocatura dello Stato sostiene che la corresponsione della indennità in misura ridotta non si risolve affatto nella perdita del diritto e che, comunque, ai fini della iscrizione della posizione previdenziale all'INPS per la liquidazione della pensione, l'importo viene calcolato sull'intera retribuzione percepita dal lavoratore per tutto il periodo del servizio prestato. Questi argomenti perٍ non valgono a rendere legittima la riduzione della indennità. Ed invero, da un canto, questa ha una sua particolare autonomia, sotto il riflesso economico e sociale, rispetto alla pensione, e, dall'altro, la norma impone una decurtazione, che - come esattamente osserva l'ordinanza - è di rilevante misura, tale da tradursi, sostanzialmente, in una perdita parziale del diritto.
La proposta questione appare fondata anche in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Infatti, dopo le sentenze di questa Corte riguardanti le pensioni e le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, e dopo le disposizioni della legge 8 giugno 1966, n. 424, la sopravvivenza della norma impugnata determinerebbe una ingiustificata ineguaglianza di trattamento tra i dipendenti di enti locali che lasciano il servizio per dimissioni volontarie e gli appartenenti ad altre categorie di lavoratori.
Va dichiarata pertanto la illegittimità costituzionale dell'art. 5, ultimo comma, della legge n. 965 del 1965, nei limiti proposti dall'ordinanza di rimessione.
Rimane assorbito l'esame della questione sollevata per la legge n. 424 del 1966, in quanto la eventuale pronuncia della illegittimità costituzionale di questa legge svolgerebbe soltanto una funzione concorrente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, ultimo comma, della legge 26 luglio 1965, n. 965 (Miglioramenti ai trattamenti di quiescenza delle Casse per le pensioni ai dipendenti degli enti locali e agli insegnanti, modifiche agli ordinanti delle Casse pensioni facenti parte degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), nella parte in cui riduce alla metà la misura delle indennità per il personale cessato dal servizio per dimissioni volontarie.
Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 dicembre 1973.
Francesco PAOLO BONIFACIO – Giuseppe VERZÌ – Giovanni BATTISTA BENEDETTI – Luigi OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI
Arduino SALUSTRI – Cancelliere
Deposito in cancelleria: 27 dicembre 1973