Sentenza n.143 del 1973
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SENTENZA N. 143

ANNO 1973

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente

Dott. Giuseppe  VERZÌ

Dott. Giovanni  BATTISTA BENEDETTI

Dott. Luigi  OGGIONI

Dott. Angelo  DE MARCO

Avv. Ercole  ROCCHETTI

Prof. Enzo  CAPALOZZA

Prof. Vincenzo  MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio  CRISAFULLI

Dott. Nicola  REALE

Prof. Paolo  ROSSI

Avv. Leonetto  AMADEI

Prof. Giulio  GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido  ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 4, 31, 34, 38 e 39 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa l'11 marzo 1969 dal pretore di Milano nel procedimento penale a carico di Capraro Gaetano, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 106 del 28 aprile 1971;

2) ordinanza emessa il 16 dicembre 1970 dal pretore di Pisa nel procedimento penale a carico di Girolami Carlo, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 127 del 19 maggio 1971;

3) ordinanza emessa il 14 giugno 1971 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Parretti Giancarlo, iscritta al n. 362 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 297 del 24 novembre 1971;

4) ordinanza emessa il 5 giugno 1971 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Mazzatosta Giocondo, iscritta al n. 382 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 304 del 1 dicembre 1971;

5) ordinanza emessa il 25 febbraio 1972 dal pretore di Pietrasanta nel procedimento penale a carico di Dini Pietro ed altro, iscritta al n. 146 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 141 del 31 maggio 1972.

Udito nella camera di consiglio del 14 giugno 1973 il Giudice relatore Edoardo Volterra.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Gaetano Capraro, il pretore di Milano, con ordinanza emessa l'11 marzo 1969, ma pervenuta alla Corte costituzionale il 25 febbraio 1971, ha sollevato questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, sull'ordinamento giudiziario ed in particolare dell'art. 4, relativamente all'espressione "di ogni grado", dell'art. 31, per quanto concerne l'espressione "in sottordine", dell'art. 34 e dell'art. 39, primo comma, in riferimento agli artt. 101, 107, terzo comma, e 25 della Costituzione.

Ritenuta la rilevanza della questione proposta perché incidente sulle condizioni di capacità del giudice ai sensi dell'art. 185, n. 1, del codice di procedura penale e la sua proponibilità per avere il legislatore provveduto alla revisione dell'ordinamento giudiziario ai sensi della VII disp. trans. e finale Cost., in relazione alla non manifesta infondatezza il pretore osserva che l'art. 4 dell'Ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, pone una distinzione tra giudici di diverso grado delle preture; che l'art. 31 mette in evidenza l'esistenza di una categoria di magistrati in sottordine, ai quali il successivo art. 34 assegna il compito di coadiuvare il titolare nell'adempimento delle "sue" funzioni; che inoltre, il primo comma dell'art. 39 dello stesso Ordinamento giudiziario, contenente le disposizioni per le preture costituite in sezioni, quali quella cui é assegnato il giudice a quo, ripete lo schema gerarchico, stabilito negli articoli precedentemente citati.

Né la gerarchia, stabilita dall'Ordinamento giudiziario di cui al r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, potrebbe dirsi mutata dalla legge 24 maggio 1951, n. 392, perché questa avrebbe fatto una sostituzione nominale delle categorie ai suddetti gradi, essendo rimasti in vita questi ultimi, cui sono rapportate le retribuzioni economiche, a prescindere dalle funzioni esercitate in concreto dai singoli magistrati.

Ritiene quindi il giudice a quo che un tale sistema sia contrario apertamente con le disposizioni della Costituzione, la quale, com'é noto, dispone che i magistrati si distinguano soltanto per diversità di funzioni (art. 107), rifiutando l'ordinamento a base gerarchica.

In particolare la distinzione per gradi dei giudici di pretura di cui agli artt. 4 e 39 dell'Ordinamento sembra in contrasto con l'art. 101 della Costituzione, che prescrive che i giudici siano soggetti soltanto alla legge, derivando da tale disposizione che la giurisdizione, che si esercita nel nome del popolo, non può essere esercitata per delega oppure per disposizione di un superiore gerarchico, ma soltanto come espressione di un potere-dovere sovrano precostituito per legge. Tale disposizione costituzionale avrebbe lo scopo di realizzare la condizione di indipendenza di tutti i giudici garantendone la imparzialità da qualsiasi timore o speranza che possono provenire anche dall'interno della magistratura, e dalle garanzie costituzionali di cui é parola deriva il dubbio sulla legittimità dell'espressione "magistrati in sottordine" contenuta nell'art. 31 dell'Ordinamento vigente, ripresa e ribadita con maggiore "convinzione" dall'art. 34.

Il pretore, inoltre, ritiene che l'intera disposizione dell'art. 34 sia in contrasto con l'art. 107, terzo comma della Costituzione, il quale stabilisce, in modo reciso, che i magistrati si distinguono fra loro "soltanto" per diversità di funzioni. Sarebbe, perciò, chiaro che, se la funzione giurisdizionale é propria di ciascun magistrato, non può essere "sua", cioè del solo titolare della pretura costituita in sezioni.

La struttura gerarchica in questione trasparirebbe infine dalla disposizione dell'art. 39 dell'Ordinamento, nella parte in cui statuisce che "la prima sezione é presieduta dal titolare della pretura e che le altre sezioni sono presiedute dal magistrato più elevato in grado... e possono essere anche presiedute dal titolare della pretura".

Viene, pertanto, sottoposto al giudizio della Corte costituzionale anche il primo comma di tale articolo, il quale, tra l'altro, con l'ammettere la sostituzione del titolare della pretura a qualsiasi altro pretore, costituirebbe una palese violazione dell'art. 25 della Costituzione, secondo la più ampia interpretazione che di esso ha dato la Corte. Infatti non sarebbe dubbio che una possibile sostituzione, operata di volta in volta e per ogni singolo processo, verrebbe ad eludere la predetta disposizione, che riguarda il giudice precostituito per legge.

2. - Questione di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma primo, 34, comma primo, e 38 del r.d.30 gennaio 1941, n. 12, é stata sollevata in riferimento agli artt. 101, comma secondo, 107, comma terzo, e 25 Cost., anche dal pretore di Pisa nel corso del procedimento penale a carico di Carlo Girolami, con ordinanza emessa il 16 dicembre 1970.

Il giudice a quo, che era stato investito del processo dal pretore dirigente a seguito di una dichiarazione di nullità del decreto di citazione a giudizio dell'imputato pronunziata dal pretore d'udienza e dell'emanazione di un nuovo decreto di citazione a giudizio da parte del dirigente medesimo - omesso qualsiasi provvedimento in ordine alla contestazione istruttoria del reato -, dopo aver ritenuto la rilevanza della questione per motivi analoghi a quelli posti in evidenza dal pretore di Milano, interpreta le norme impugnate nel senso che il loro combinato disposto creerebbe, nelle preture cui sono assegnati più magistrati, una posizione gerarchicamente sopraordinata del pretore titolare e correlativamente una sotto ordinazione degli altri giudici: il primo regge e dirige la pretura e distribuisce secondo criteri insindacabili il lavoro tra i secondi, i quali hanno il dovere di coadiuvarlo nell'adempimento delle sue funzioni.

Tale contenuto precettivo delle norme denunziate, non condiviso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 80 del 1970, risulterebbe invece oltre che dalla testuale esegesi anche dalla comune applicazione che delle disposizioni si fa nelle preture, ove sarebbe regola che ai singoli pretori venga assegnato soltanto un segmento delle complessive attribuzioni spettanti all'ufficio, sino ad arrivare all'esclusione di alcuni magistrati dall'attività di giudizio.

In tal senso il dubbio di costituzionalità riguarda in primo luogo la conformità della normativa sopra individuata agli artt. 101, comma secondo, e 107, comma terzo, della Costituzione.

Infatti la possibilità accordata ad un magistrato (pretore dirigente) di assegnare agli altri pretori una parte soltanto della trattazione del singolo affare e di riprendere in mano la regiudicanda dopo l'espletamento dell'attività parziaria assegnata (che così diventa "delegata") implicherebbe già che tra il giudice e l'affare non vi sia più soltanto la legge ma si aggiunga il pretore dirigente. Quel rapporto di immediatezza e di correlativa responsabilizzazione, che l'art. 101 ha voluto istituire tra il giudice ed il caso, sarebbe pertanto spezzato.

Ma la normativa denunziata - secondo il giudice a quo - sembra confliggere soprattutto con il precetto della distinzione dei magistrati solo in rapporto alle funzioni, perché fa sì che tra magistrati, i quali esercitano tutti le stesse funzioni istituzionali, e cioè le funzioni di pretore, uno solo, e cioè il pretore titolare, abbia la pienezza delle attribuzioni pretorili e cioè possa - dato un affare - trattarlo compiutamente dalla fase preistruttoria a quella del giudizio e della esecuzione; mentre tutti gli altri magistrati-pretori esercitano, rispetto a ciascun affare, solo le limitate attribuzioni per l'espletamento delle quali l'affare stesso é stato loro assegnato. In sostanza, le attribuzioni istituzionali del pretore dirigente e quelle dei pretori in sottordine, rispetto ai singoli affari sarebbero diverse.

La "parcellizzazione" tra i pretori in sottordine del potere giurisdizionale, che dalla legge é previsto come una totalità, per effetto dei poteri di direzione e distribuzione del lavoro accordati al pretore dirigente, implicherebbe quindi la creazione di rapporti di tipo gerarchico.

Un ulteriore motivo di sospetto riguarda la compatibilità della normativa denunciata con l'art. 25, comma primo, della Costituzione, che verrebbe violato dalla vigente normativa, la quale consente, attraverso la discrezionale scelta del magistrato che dovrà svolgere le funzioni di pretore nel caso sub-iudice, che l'individuazione della concreta personificazione dell'organo in relazione alla regiudicanda avvenga dopo l'insorgenza del caso ed a seguito di una scelta assolutamente discrezionale ed insindacabile. In tal modo si vanificherebbero tutte le cautele che presidiano le fasi precedenti, perché si perverrebbe ad un risultato che in termini qualitativi non é dissimile da quello che si avrebbe con la Costituzione dell'organo giudicante, volta a volta, in vista del singolo processo.

Infatti, secondo il pretore di Pisa, ciò che il Costituente ha voluto assicurare attraverso l'art. 25 non é solo e tanto il "bene giuridico" della regolare Costituzione degli organi, ma un'esigenza politica ben precisa, e cioè che la persona (o le persone) chiamate a giudicare un caso non siano scelte (rectius, non possano essere scelte) in vista delle peculiarità del caso stesso, dei suoi connotati individuali (personalità del giudicabile; incidenza politica dell'affare; concreti interessi di potere in gioco).

Il sospetto di costituzionalità viene quindi verificato anche alla luce dei principi enunciati dalla stessa Corte costituzionale. In particolare, secondo il giudice a quo, il principio che la individuazione del giudice competente debba avvenire secondo rigorosi criteri obiettivi opportunamente sindacabili (Corte cost. 117 del 1968), importa che anche l'assegnazione del singolo procedimento all'uno anziché all'altro dei molteplici magistrati, che in un dato luogo impersonano l'organo giudiziario competente, avvenga secondo criteri obiettivi e sindacabili. Parimenti, il principio secondo cui "precostituzione del giudice e discrezionalità sono criteri tra i quali non si ravvisa possibile una conciliazione" (Corte cost. 88 del 1962), é valido non solo allorché la possibilità di scelta si presenta tra diversi giudici-organi ma anche, e nella stessa misura, allorché tale possibilità si presenta tra diversi soggetti fisici impersonanti lo stesso giudice-organo.

Si rileva poi che, nel caso della normativa in esame, si riproduce una situazione d'incerta precostituzione del giudice naturale simile, se non peggiore, a quella che derivava dal potere di avocazione del procuratore della Repubblica (art. 31, comma secondo, c.p.p.) e dalla competenza prorogata del pretore (art. 30, comma primo, u.p., e comma secondo, c.p.p.). E la saldatura tra il momento della scelta dell'ufficio competente ed il momento della scelta del magistrato che deve impersonarlo viene ad essere ulteriormente evidenziata osservando che - se il principio del giudice naturale dovesse giocare esclusivamente a livello di competenza, e cioè nella distribuzione dei processi solo tra organi e non anche tra magistrati dello stesso organo - il legislatore ordinario potrebbe agevolmente eluderlo, sul piano organizzatorio, sia mediante riforme di circoscrizioni giudiziarie sia mediante riforme processuali. Né il sospetto d'incostituzionalità dell'attuale potere di distribuzione degli affari, spettante ai dirigenti, potrebbe esser escluso in base alla considerazione che competente alla distribuzione é un organo imparziale, quale il pretore dirigente ovvero il presidente del tribunale. Crede infatti il giudice a quo sufficiente rilevare che, secondo gli stessi principi della Corte costituzionale, la qualità di organo giudiziario imparziale dell'ufficio cui sia attribuito il potere di designare il giudice per il caso concreto non vale ad escludere la violazione dell'art. 25, comma primo, Cost., tutte le volte in cui il potere non sia vincolato nel suo esercizio all'osservanza di rigorosi criteri obiettivi previamente ipotizzati dalla legge.

In subordine il giudice a quo osserva che, anche a voler ritenere che l'assegnazione discrezionale dei procedimenti da parte del dirigente non violi il principio del giudice naturale, tale violazione sembra tuttavia riscontrabile nel potere del dirigente di assegnare un procedimento solo per la istruzione o solo per il giudizio. Un tale sistema, invero, porterebbe alla precostituzione, per ogni procedimento di competenza pretorile, di "due giudici naturali", quello dell'istruttoria e quello (eventuale) del giudizio, senza che tale precostituzione di giudici naturali trovi titolo nella legge - che anzi la lunga tradizione dell'ufficio di pretore é nel senso di concentrare, per evidenti ragioni di rapidità e semplicità, nella stessa persona-organo le varie funzioni inquirenti e giudicanti (cfr. Corte cost. n. 61 del 1967 e n. 128 del 1970) - ma trova titolo soltanto nel provvedimento, per giunta discrezionale, del pretore dirigente, che decide la formazione di sezioni esclusivamente istruttorie e sezioni esclusivamente dibattimentali. Per tale via si perviene dunque alla precostituzione del giudice naturale non già per legge, ma per provvedimento amministrativo, con violazione pertanto del principio della riserva assoluta di legge in materia (arg. ex Corte cost. n. 56 del 1967).

Infine, il giudice a quo rileva come la normativa impugnata sembra illegittima anche nella parte in cui essa non pone limiti al potere del pretore dirigente, di assegnare ad un magistrato in sottordine il compimento di un singolo atto della fase istruttoria o del giudizio designando per il compimento degli atti successivi della stessa fase altri magistrati. Un siffatto potere del pretore dirigente urterebbe - invero - finanche contro una riduttiva concezione di giudice naturale, aprendo le porte non solo alla designazione del giudice in vista della concreta regiudicanda, ma addirittura alla continua sottrazione del giudicabile al giudice, pur innaturalmente assegnatogli e pur precostituito con atto amministrativo, in relazione al concreto contenuto che vengano ad assumere i singoli atti processuali da tale giudice posti in essere.

3. - Analoga questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 38 dell'Ordinamento giudiziario veniva sollevata dal pretore di Roma, in riferimento agli artt. 3, 25, 101, 107 Cost., con ordinanza emessa il 14 giugno 1971 nel corso del procedimento penale a carico di Giancarlo Parretti.

Il giudice a quo premette in fatto di aver disposto indagini di polizia giudiziaria e proceduto ad atti istruttori nei confronti del predetto imputato, in base a notitia criminis informale, e di aver dato comunicazione di tale iniziativa al pretore dirigente il quale gli aveva risposto che il processo in questione era stato assegnato ad altro collega di altra sezione. Il pretore veniva altresì invitato a trasmettere a quest'ultimo gli atti istruttori assunti.

Ritenendo che dalla "sentenza della Corte costituzionale n. 80 del 1970, risulti con chiarezza che il pretore dirigente non ha il potere di privare i magistrati addetti alla pretura dell'esercizio dell'azione penale iniziata da una notitia criminis appresa dalla stampa" e ritenendosi perciò legittimamente investito dell'azione penale, il pretore proseguiva l'attività istruttoria.

Nel contempo, anche per aderire all'invito in tal senso rivoltogli dal pretore dirigente, il giudice a quo chiedeva al Consiglio superiore della magistratura di esprimere un parere sulla questione.

Rilevava che, alla luce dei principi affermati da codesta Corte nella sentenza n. 80 del 1970, non si poteva riconoscere al pretore dirigente la facoltà di privare del potere di iniziare ed esercitare l'azione penale il singolo pretore, che di tal azione doveva ritenersi titolare in piena autonomia. Che se, invece, una tale facoltà avesse voluto ricavarsi dalle disposizioni degli artt. 34 e 38 dell'Ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), tali norme non potevano sottrarsi alle censure di legittimità costituzionale la cui fondatezza questa Corte aveva escluso nella citata sentenza, sulla considerazione che esse, correttamente interpretate, non incidevano in alcun modo sulla sfera di attribuzioni proprie dei singoli magistrati.

Sennonché il Consiglio superiore della magistratura ha espresso "l'avviso che i procedimenti penali iniziati ex officio dai singoli magistrati non si sottraggono alla regola generale stabilita dall'art. 38 dell'Ordinamento giudiziario".

Nonostante tale "avviso", il pretore é tuttora convinto che una corretta interpretazione delle citate norme dell'Ordinamento giudiziario gli consentirebbe di ritenersi legittimamente investito dell'esercizio dell'azione penale in relazione al caso de quo. Egli si trova, tuttavia, nella impossibilità di dare pratica attuazione a quella corretta interpretazione.

La rilevanza della questione nel caso concreto sarebbe quindi palese: la declaratoria di illegittimità costituzionale, restituendo al giudice a quo l'esercizio del potere giurisdizionale di cui é stato privato nel caso concreto, gli consentirebbe di proseguire nell'attività processuale interrotta, la quale non potrebbe essere svolta senza risolvere la questione sollevata, che si pone come pregiudiziale accertamento della validità di essa.

D'altra parte anche se il pretore volesse aderire all'invito del pretore dirigente, ciò dovrebbe fare in applicazione di norme che sospetta di illegittimità costituzionale e in ordine alle quali ha perciò l'obbligo di provocare il relativo accertamento da parte della Corte.

Quanto alla non manifesta infondatezza il giudice a quo, dopo essersi richiamato alle argomentazioni contenute nell'ordinanza 16 dicembre 1970 del pretore di Pisa, aggiunge che l'art. 34, comma primo, Ord. giud., a parte gli arcaismi linguistici, é ancora in vigore nella sua originaria portata ed individua nel pretore dirigente l'unico titolare del potere giurisdizionale nelle preture con più magistrati; "i magistrati in sottordine" non sarebbero perciò titolari di un potere proprio, ma agirebbero solo per delega del dirigente.

Tale soluzione sarebbe palesemente in contrasto con l'art. 101 Cost. che vuole i magistrati soggetti soltanto alla legge (e non pure al "superiore") e perciò singolarmente titolari, ciascuno in piena autonomia, del potere giurisdizionale, nell'ambito ovviamente della propria competenza; con l'art. 107, terzo comma, che non consentendo che i magistrati possano tra loro distinguersi altrimenti che per diversità di funzioni, esclude che tra essi possa stabilirsi un rapporto di subordinazione gerarchica (che quella soluzione, evidentemente, postula).

Nelle stesse censure incorrerebbe anche l'art. 38 Ord. giud., ove da esso, in quanto prevede che "il titolare... distribuisce il lavoro tra le sezioni", vuole farsi discendere la conseguenza che il singolo magistrato non é titolare dell'azione penale se non in relazione ai processi a lui assegnati; tale norma, così interpretata, nega infatti, in contrasto con i principi costituzionali sopra accennati, che il singolo magistrato é titolare in proprio dell'azione penale anche nelle preture con più magistrati.

Tale negazione apparirebbe in contrasto altresì col principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, in relazione al citato art. 107: magistrati aventi lo stesso status sarebbero o no titolari dell'azione penale, e quindi soggetti soltanto alla legge o invece anche al potere del dirigente, a seconda che esercitino le loro funzioni in preture con unico titolare o in preture con più magistrati.

Secondo il giudice a quo non sussisterebbero altre norme dell'Ordinamento giudiziario su cui possa fondarsi il potere del pretore dirigente e la correlativa menomazione della sfera di attribuzioni del singolo magistrato, in relazione all'esercizio dell'azione penale. Ma, ove esse esistessero, incorrendo nelle stesse censure sopra formulate, andrebbero egualmente valutate sotto il profilo della legittimità costituzionale, da parte della Corte che, in conclusione, é sollecitata a stabilire se é conforme alla Costituzione quella situazione legislativa per la quale nella prassi: a) si nega al singolo pretore addetto a preture con più magistrati il potere di esercitare l'azione penale in relazione a notitiae criminis a lui pervenute al di fuori dei normali meccanismi burocratici dei grandi uffici (per esempio, come nella specie, attraverso la stampa); b) si riconosce al pretore dirigente il potere di privare, com'é accaduto nella specie, il singolo magistrato del potere di esercitare e proseguire l'azione penale.

Si osserva, infine, che una dichiarazione di illegittimità costituzionale non importerebbe alcun inconveniente neanche a livello organizzativo: duplicazioni di iniziative potrebbero essere, infatti, da un lato prevenute con una informativa al dirigente da parte del singolo magistrato, dall'altro lato eliminate con i normali meccanismi processuali (art. 413 c.p.p.).

4. - Altra questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 38 dell'Ordinamento giudiziario veniva sollevata da un diverso pretore di Roma con ordinanza emessa il 5 giugno 1971, nel corso del procedimento penale a carico di Giocondo Mazzatosta, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 107 della Costituzione.

Premesso di essere stato investito del procedimento a seguito di provvedimento del pretore dirigente che gli aveva rimesso gli atti istruttori, iniziati da altro pretore in base a notitia criminis informale, e considerata la rilevanza dell'eccezione di legittimità costituzionale in quanto l'attività istruttoria ulteriore potrebbe essere viziata ex art. 185, n. 1, cod.proc.pen., il giudice a quo osserva che l'art. 38 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, unitamente all'altra norma contenuta nell'art. 34, secondo cui "i magistrati in sottordine coadiuvano il titolare nell'adempimento delle sue funzioni" conferisce, al dirigente nelle preture con più magi strati , il potere di privare il singolo magistrato del procedimento da questi iniziato, d'ufficio, e non pervenutogli attraverso le normali assegnazioni burocratiche, con ciò ledendo il dettame costituzionale (art. 101, secondo comma, Cost.) che vuole il giudice soggetto soltanto alla legge e che distingue i magistrati tra loro soltanto per diversità di funzioni (art. 107, comma terzo, Cost.).

Ciò comporterebbe l'assoluta indipendenza nell'espletamento delle funzioni da qualsiasi vincolo di subordinazione gerarchica sia all'interno che all'esterno dell'Ordine giudiziario, indipendenza che sarebbe completamente frustrata laddove si privi il singolo magistrato del potere di proseguire l'istruttoria intrapresa, lasciandogli semplicemente un potere di denunzia del tutto irrilevante se messo in rapporto con il ben preciso obbligo impostogli dall'art. 1 cod. proc. pen. rivolto al promovimento dell'azione penale e creando una differenziazione tra pretore dirigente - detentore dell'azione penale - e altri magistrati privi di tale funzione e quindi in contrasto con l'art. 107 della Costituzione.

Secondo il pretore l'art. 38 dell'Ordinamento giudiziario é quindi non semplicemente arcaico nelle forme linguistiche, ma attraverso le coloriture autoritarie che riceve dagli artt. 31 e 34 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, del tutto in contrasto con le invocate norme costituzionali, oltrechè é con quelle di cui agli artt. 25 e 3 della Costituzione.

Invero, giudice naturale finirebbe con l'essere non già quello che inizia l'azione penale, e che quindi per avere dimostrato più sensibilità sociale é anche quello voluto dalla collettività nel cui nome pronuncia sentenza, ma chi risulti delegato dal dirigente a proseguire l'azione con ciò rimanendo violato il principio costituzionale.

Inoltre la differenziazione imposta dall'art. 38 dell'Ordinamento giudiziario sarebbe incostituzionale sotto altro profilo (art. 3 Cost.) laddove si consideri che il pretore che svolge da solo la funzione in un mandamento é diverso da quello che si trovi in una pretura con più magistrati, potendo il primo e non quest'ultimo iniziare e proseguire, senza interferenze, l'azione penale intrapresa.

5. - Questione di legittimità costituzionale degli artt. 31, 34 e 38 dell'Ordinamento giudiziario veniva, infine, sollevata dal pretore di Pietrasanta con ordinanza emessa il 25 febbraio 1972, nel corso del procedimento penale a carico di Pietro Dini, in riferimento agli artt. 25, 101 e 107 della Costituzione.

Ritenuta rilevante la questione in relazione all'art. 185 c.p.p., il pretore, dopo aver premesso in fatto di essere stato investito del procedimento a seguito di provvedimento di sostituzione da parte del pretore dirigente e dopo aver fatto derivare, sia pure in termini dubitativi, tale potere dalla normativa impugnata, ritiene in contrasto con le norme costituzionali citate la circostanza che nel sistema vigente la norma che vieta la sostituzione di un giudice ad un altro sia sprovvista di qualsiasi sanzione, con la conseguenza che il magistrato, ad altri sostituito, deve soggiacere non già a quella norma di legge, ma al provvedimento illegittimo del collega pretore titolare.

I giudici infatti sarebbero soggetti alla legge (art. 101/2) non soltanto nell'esame del merito dei procedimenti loro assegnati, ma anche nei presupposti stessi del loro potere di esaminare, in modo che tale potere non sia dato e tolto arbitrariamente; senza di ciò l'indipendenza del magistrato sarebbe del tutto nominale e sottoposta, per così dire, alla condizione meramente potestativa dell'insindacabile e sempre revocabile consenso del titolare. I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni (art. 107/3): ma le funzioni del dirigente non potrebbero essere tanto late da determinare la soggezione degli altri magistrati anche ai loro provvedimenti illegittimi, perché un tale potere avrebbe natura propriamente gerarchica e non sarebbe più riconducibile al generico e anodino concetto di funzione.

Il vigente sistema sarebbe in contrasto anche con il principio dell'art. 25/1 Cost., considerando come solo in linea teorica giudice naturale é l'ufficio, quando praticamente lo é invece il dirigente, attraverso il quale deve passare, per una sommaria delibazione, tutto il lavoro giurisdizionale e che può disporne a sua discrezione. Questa configurazione quasi gerarchica dell'ufficio pretorile (che sarebbe in evidente contrasto con l'art. 107/3 Cost.) potrebbe essere eliminata soltanto predeterminando criteri generali ed automatici di distribuzione del lavoro, cioè dando un concreto contenuto precettivo al principio dell'art. 25/1 Cost. anche in relazione alle persone fisiche dei singoli giudicanti. Vi sarebbe dunque una stretta connessione, pratica se non teorica, tra i principi degli artt. 25/1 e 107/3 Cost., nel senso che solo l'integrale rispetto del primo può assicurare l'integrale rispetto del secondo; e viceversa.

6. - Le citate ordinanze sono state tutte regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, ma nessuno si é costituito dinanzi alla Corte costituzionale.

Considerato in diritto

1. - I cinque giudizi di cui alle ordinanze citate vanno riuniti e decisi con un'unica sentenza stante la parziale identità dell'oggetto delle questioni di legittimità costituzionale prospettate, pur con maggiore o minore ampiezza di motivazioni, in ordine ai predetti articoli del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12.

2. - Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle cinque ordinanze possono individuarsi e raggrupparsi nel seguente modo:

a) Contrasterebbero con gli artt. 101, comma secondo, e 107, comma terzo, della Costituzione in quanto esprimerebbero disposizioni e principi incompatibili con questi articoli, le sotto indicate parole che si riscontrano nel r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, e precisamente: "di ogni grado" contenute nell'art. 4; "la pretura é retta dal pretore titolare" e "possono essere addetti alle preture uno o più magistrati in sottordine" contenute nell'art. 31; "i magistrati in sottordine coadiuvano il titolare nell'adempimento delle sue funzioni" contenute nell'art. 34; "il titolare della pretura dirige l'ufficio e distribuisce il lavoro tra le sezioni. Sono di sua esclusiva competenza le attribuzioni di carattere amministrativo e la sorveglianza sull'andamento generale dei servizi" contenute nell'art. 38; "la prima sezione é presieduta dal titolare della pretura. Le altre sezioni sono presiedute dal più elevato in grado o dal più anziano dei magistrati... e possono anche essere presiedute dal titolare della pretura" contenute nell'art. 39.

Queste espressioni, secondo le ordinanze di rimessione, indicherebbero l'esistenza di un'organizzazione gerarchica delle preture con più magistrati in forza della quale il pretore dirigente sarebbe l'unico titolare del potere giurisdizionale, mentre tutti gli altri magistrati sarebbero a lui subordinati e non soggetti soltanto alla legge.

Il combinato disposto dei citati articoli consentirebbe che tra il giudice-pretore e la regiudicanda "possa inserirsi il diaframma del provvedimento d'assegnazione del pretore dirigente che fissa dei limiti alle attribuzioni istituzionali del pretore designato rispetto al singolo affare" nonché creerebbe una disparità costituzionalmente inammissibile fra i magistrati assegnati ad un medesimo ufficio di pretura in quanto il solo pretore dirigente avrebbe la pienezza delle attribuzioni che gli consentirebbero di trattare il singolo caso dall'inizio alla conclusione, mentre tutti gli altri, pur essendo investiti delle medesime funzioni, eserciterebbero, rispetto ai singoli affari, le proprie attribuzioni solo nei limiti del mandato di assegnazione.

b) Il combinato disposto degli articoli citati, sempre secondo le ordinanze di rimessione, sarebbe a contrasto con l'art. 25, comma primo, della Costituzione e violerebbe il principio che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge in quanto consentirebbe che la scelta della persona fisica chiamata ad impersonare l'ufficio di pretore in relazione al caso concreto avvenga a seguito di provvedimento discrezionale ed insindacabile del capo dell'ufficio e dopo l'insorgenza della regiudicanda, nonché consentirebbe, attraverso la designazione di alcuni pretori incaricati solo dell'istruttoria e di altri incaricati solo del giudizio, la precostituzione di giudici naturali per atto amministrativo, mentre la legge conoscerebbe invece solo un pretore che riunisce in sé le varie funzioni.

c) Le disposizioni dell'art. 38 del richiamato r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, secondo il pretore di Roma, violerebbero il principio di uguaglianza in quanto magistrati aventi il medesimo status sarebbero o no titolari dell'azione penale e quindi soggetti soltanto alla legge o invece anche al potere del dirigente a seconda che esercitino le loro funzioni in preture con unico titolare o in preture con più magistrati.

d) Il disposto dell'art. 38 contrasterebbe con l'art. 25 della Costituzione in quanto consentirebbe al magistrato dirigente la pretura di sostituire il magistrato a lui in sottordine anche nell'ambito della stessa fase processuale con la conseguenza della sottrazione del giudicabile al giudice che ha già iniziato a conoscere il caso e che ha già compiuto atti giudiziari.

3. - Le prime tre questioni di legittimità costituzionale sono infondate soprattutto in quanto gli inconvenienti denunziati attengono all'interpretazione ed applicazione delle norme impugnate e non comportano vizio intrinseco di costituzionalità delle norme medesime.

Va anzitutto precisato che la Corte con la sua sentenza n. 80 del 1970 ha affermato che la legge 24 maggio 1951, n. 392, ha sostanzialmente mutato la normativa anteriore quanto alla divisione dei magistrati per gradi, stabilendo, in conformità del dettato della Costituzione, che i magistrati ordinari "si distinguono secondo le funzioni". Di conseguenza da quella legge devono ritenersi modificati, anche nelle loro espressioni letterali, vari articoli del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, fra i quali anche gli artt. 31 e 34 là dove qualificano in sottordine i magistrati di pretura rispetto al titolare dell'ufficio e devono leggersi le disposizioni in detti atti contenute in rapporto alla nuova terminologia, abbandonando quella precedente che la Corte ritiene superata ed impropria, e soprattutto in rapporto allo spirito della legge del 1951 che, col distinguere i magistrati secondo le funzioni ha escluso fra loro una subordinazione gerarchica del tipo di quella che regola i rapporti tra i funzionari della pubblica amministrazione.

Le norme denunziate non sono in contrasto con la norma costituzionale in quanto, come ha già affermato la Corte nella sentenza n. 168 del 1963, la parificazione dei magistrati in relazione all'art. 101 della Costituzione esiste solo per quanto riguarda le funzioni istituzionali e gli atti ai quali esse si ricollegano.

In particolare l'art. 39, primo comma, del richiamato r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, prescrivendo che la prima sezione di una pretura con più magistrati é presieduta dal titolare della pretura o da chi lo sostituisce e che le altre sezioni sono di regola presiedute dal più elevato in grado o dal più anziano dei magistrati che vi sono addetti e possono anche essere presiedute dal titolare della pretura, pure usando una terminologia discordante con quella della Costituzione, non concreta un contenuto normativo contrastante con il principio di cui all'art. 101, primo comma, della Costituzione in quanto indica obbiettivamente a quali magistrati spettino le funzioni e i poteri, necessari per il funzionamento della pretura, di presiedere le singole sezioni.

Pertanto, come già affermato dalla citata sentenza n. 80 del 1970 le parole magistrato "più elevato in grado" dell'art. 39 vanno interpretate e lette come "magistrato più elevato nelle funzioni". Le "improprietà lessicali" in rapporto alle statuizioni costituzionali degli articoli denunziati del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, non influiscono sul loro contenuto normativo e in particolare in ordine ai rapporti fra dirigenti ed altri magistrati delle preture.

4. - Per quanto attiene all'art. 38 del citato r.d. del 1941 la Corte nella richiamata sentenza ha affermato che esso, determinando i poteri del titolare della pretura nei confronti degli altri magistrati appartenenti alla stessa, li elenca "in modo del tutto ortodosso in rapporto anche alla nuova concezione costituzionale dell'ordine giudiziario" rilevando che le disposizioni del predetto articolo, ancorché improprie nella loro terminologia, non menomano le attribuzioni medesime né ledono le relative tutele costituzionali.

Pertanto la corretta interpretazione delle norme denunziate esclude che esse pongano i magistrati nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali in un rapporto di subordinazione e tanto meno alla dipendenza gerarchica del pretore dirigente né attribuiscono esclusivamente a questo le funzioni inerenti alla attività giudiziaria della Pretura né tanto meno gli conferiscono i poteri di interferire nell'attività giudiziaria svolta dagli altri magistrati.

Le sue attribuzioni elencate nell'art. 38 sono esclusivamente quelle di dirigere l'Ufficio e di distribuire il lavoro tra le sezioni nonché quelle di carattere amministrativo e di sorveglianza sull'andamento generale dei servizi.

L'attribuzione di tali funzioni al dirigente deve necessariamente intendersi disposta nei limiti delle norme costituzionali e pertanto tali funzioni devono intendersi preordinate e devono essere svolte esclusivamente per obbiettive ed imprescindibili esigenze di servizio al solo scopo di rendere possibile il funzionamento della pretura ed agevolare l'efficienza di questa.

Qualsiasi applicazione delle norme denunziate diretta al raggiungimento di scopi diversi da quelli predetti, rispondenti alla ratio voluta dal legislatore, costituirebbe attività viziata per sviamento del fine o per eccesso di potere o per esercizio arbitrario e illegittimo di funzioni pubbliche con le conseguenze giuridiche inerenti.

5. - La Corte non ritiene fondata la questione di costituzionalità, in ordine all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 38 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, sotto il profilo che le disposizioni di questo violerebbero il principio di uguaglianza in quanto magistrati aventi il medesimo status sarebbero o no titolari dell'azione penale e quindi soggetti soltanto alla legge o invece anche al potere del dirigente a seconda che esercitino le loro funzioni in preture con unico titolare o in preture con più magistrati. É infatti evidente che il legislatore, nel formulare l'articolo denunziato, ha inteso disciplinare in modo disuguale situazioni che oggettivamente e necessariamente sono disuguali e ciò allo scopo di provvedere a regolamentare una situazione imprescindibile onde rendere possibile l'espletamento della funzione giudiziaria nelle preture aventi più titolari e pertanto con finalità costituzionalmente valide.

6. - Più approfondito esame richiede la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 38 sollevata in relazione: a) al potere del magistrato dirigente di assegnare ad un magistrato della pretura il compimento di singoli atti del giudizio e di designare, invece, altro magistrato per il compimento di successivi atti; b) al potere dello stesso dirigente di revocare la già disposta assegnazione.

Sul primo punto la Corte osserva che nel concetto di "direzione" dell'ufficio rientra indubbiamente il potere del pretore dirigente di predisporre una razionale organizzazione che può prevedere una ripartizione preventiva del lavoro fra i vari magistrati anche nel senso che nello stesso processo determinati atti siano compiuti da un magistrato ed altri atti siano compiuti da un magistrato diverso. Più generalmente é da affermarsi non illegittima la possibilità di escludere che ogni processo sia condotto, dal principio alla fine, dallo stesso giudice, purché, come é ovvio, i relativi poteri siano esercitati dal dirigente al solo fine di una efficiente organizzazione dell'ufficio e di una necessaria e razionale distribuzione del lavoro giudiziario.

Quanto al secondo punto, ritiene la Corte che di per sé non sia illegittimo il potere del dirigente di disporre la revoca della già disposta assegnazione di un determinato affare giudiziario: possono infatti determinarsi situazioni che giustifichino, in funzione del soddisfacimento di imprescindibili oggettive esigenze, un siffatto provvedimento. Tuttavia é da considerare che la normativa in esame non prevede la possibilità di richiedere che il dirigente esterni i motivi in base ai quali la revoca dell'assegnazione sia stata adottata: sicché l'impugnato art. 38, nella parte che qui viene in rilievo consente in astratto che un provvedimento di indubbia gravità possa tradursi in un indiretto sindacato sul modo in cui le funzioni giurisdizionali sono state esercitate in relazione ad un caso concreto e possa, perciò, realizzare una violazione del principio secondo il quale il giudice é soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.): pertanto a garanzia dell'indipendenza del giudicante é necessario, quanto meno, che a quest'ultimo venga riconosciuto il diritto, quando sia stato spogliato della cognizione di determinati affari giudiziari, di chiedere che il dirigente motivi per iscritto l'adottato provvedimento in guisa che il richiedente sia posto in grado di tutelare il rispetto dovuto alla posizione assicuratagli dalla Costituzione ed eventualmente di chiedere l'intervento del Consiglio superiore della magistratura, dell'organo, cioè, al quale é demandato il compito di assicurare che gli appartenenti all'ordine giudiziario non siano colpiti da atti che, sia pure mediatamente, portino attentato alla loro indipendenza. Queste ragioni giustificano la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della disposizione denunciata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 38 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, limitatamente alla parte in cui non prevede che, nel caso di revoca del provvedimento di assegnazione di attività giudiziarie, il magistrato interessato possa chiedere che il dirigente indichi per iscritto i motivi del relativo atto;

dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 107 della Costituzione, degli artt. 4, 31, 34, 39 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, e dell'art. 38 dello stesso r.d. nella parte in cui dispone l'attribuzione al magistrato dirigente la pretura delle funzioni di dirigere l'ufficio e di distribuire il lavoro fra le varie sezioni.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1973.

Francesco  PAOLO BONIFACIO – Giuseppe  VERZÌ – Giovanni  BATTISTA BENEDETTI – Luigi  OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo  ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio  GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino  SALUSTRI – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 18 luglio 1973.