SENTENZA N. 136
ANNO 1973
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 14 febbraio 1963, n. 156 (disposizioni relative alla previdenza del personale addetto alle gestioni delle imposte di consumo), promosso con ordinanza emessa il 15 gennaio 1971 dalla Corte d'appello di Roma nel procedimento civile vertente tra Vergara Pasquale, l'Istituto nazionale della previdenza sociale e l'Istituto nazionale delle assicurazioni, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 151 del 16 giugno 1971.
Visto l'atto di Costituzione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale;
udito nell'udienza pubblica del 13 giugno 1973 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi;
udito l'avv. Carlo Casalena, per l'INPS.
Ritenuto in fatto
1. - Pasquale Vergara, già dipendente della società Papi, impresa appaltatrice della riscossione di imposte di consumo, conveniva in giudizio davanti al tribunale di Roma l'Istituto nazionale della previdenza sociale e l'Istituto nazionale delle assicurazioni. Assumeva che la predetta società Papi, con effetto dal 13 marzo 1964, aveva unilateralmente risolto il rapporto di lavoro per non avere egli raggiunto la nuova residenza di Trani, alla quale era stato trasferito; che l'INA, gestore del fondo di previdenza per la liquidazione della indennità di anzianità al personale dipendente dalle imprese appaltatrici delle imposte di consumo, aveva liquidato l'indennità di anzianità, ma si era rifiutato di corrispondere il premio di fedeltà previsto dall'art. 2 della legge 14 febbraio 1963, n. 156, per il motivo che la risoluzione del rapporto era stata originata dal comportamento del dipendente; e che il comitato speciale del fondo presso l'INPS aveva respinto il ricorso presentato da esso interessato avverso la predetta decisione. Conseguentemente chiedeva che gli istituti convenuti fossero condannati a corrispondergli il premio di fedeltà nella misura dovutagli.
Essendo stata la sua domanda respinta dal tribunale, il Vergara proponeva appello, eccependo, tra l'altro, l'illegittimità costituzionale del citato art. 2, comma primo, della legge n. 156 del 1963, limitatamente alla parte in cui esclude la corresponsione del premio di fedeltà nel caso di recesso del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2119 del codice civile, per contrasto con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.
La Corte d'appello di Roma riteneva che l'eccezione proposta dall'appellante non fosse manifestamente infondata, ma della norma denunciata metteva in evidenza l'illegittimità costituzionale solo in riferimento agli artt. 36 e 3 della Costituzione.
Richiamando le argomentazioni svolte dall'appellante e basate sulla sentenza n. 75 del 1968 di questa Corte, precisava che il premio di fedeltà, al pari dell'indennità di anzianità, ha carattere retributivo, costituendo parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, ed é corrisposto al momento della cessazione del rapporto allo scopo di agevolare al lavoratore il superamento delle difficoltà economiche eventualmente insorgenti per il venir meno del salario. Riteneva, pertanto, che il diritto al premio di fedeltà, come quello all'indennità di anzianità, discendesse dai principi consacrati dall'art. 36 e dovesse ad essi informarsi.
Rilevato, inoltre, che il detto premio "per la sua intrinseca natura e per la sua specifica finalità e funzionalità nel meccanismo previdenziale predisposto a tutela del personale addetto alle gestioni delle imposte di consumo, costituisce parte integrante dell'indennità di anzianità", la Corte d'appello ravvisava un'evidente violazione del principio di eguaglianza nel fatto che "mentre agli altri impiegati pubblici e privati viene corrisposta la indennità di anzianità nella sua interezza, il personale addetto alle gestioni delle imposte di consumo, qualora la norma impugnata continuasse ad essere operante, riceverebbe la indennità di anzianità, decurtata del cosiddetto "premio di fedeltà".
2. - Procedutosi alla notificazione, alla comunicazione e alla pubblicazione (nella Gazzetta Ufficiale n. 151 del 16 giugno 1971) dell'ordinanza, davanti a questa Corte si costituiva soltanto l'INPS a mezzo degli avvocati prof. Giorgio Cannella, Pierino Pierini e Giovanni Belloni.
L'INPS ricordava che per la previdenza e la quiescenza degli agenti addetti alla riscossione delle imposte di consumo, nominati dall'appaltatore, con l'art. 316 del r.d. 30 aprile 1936, n. 1138, é stato istituito il fondo speciale di previdenza della categoria, il cui funzionamento ha trovato la sua disciplina nel r.d. n. 1863 del 1939, che detto fondo si é assunto l'onere sia per il trattamento di pensione che per quello di anzianità, che a quest'ultimo fine si é provveduto mediante un'assicurazione mista sulla vita accesa dal fondo presso l'INA e regolata da una particolare convenzione tra questo Istituto e l'INPS, gestore del fondo, tale da garantire "un capitale comprensivo della indennità per anzianità di servizio dovuta per effetto di legge, di contratti collettivi di lavoro o di regolamenti aziendali", e che a carico di altro fondo (istituito con l'art. 34 del r.d. 20 ottobre 1939, n. 1863) é stato posto l'onere dell'integrazione delle somme garantite con l'assicurazione mista risultanti inferiori alla detta indennità di anzianità, nonché quello della corresponsione di un premio di fedeltà (art. 2 della legge n. 156 del 1963).
Dato dunque che l'anzidetto personale ha diritto in caso di licenziamento alla prestazione assicurativa previdenziale di un capitale comprensivo dell'indennità di anzianità e alla prestazione previdenziale del premio di fedeltà, purché sussistano le condizioni stabilite nel citato art. 2, l'INPS rilevava che la prima prestazione si differenziava sul piano giuridico e sotto il profilo pratico dalla normale indennità di anzianità, e che la seconda, e cioè il premio di fedeltà, si differenziava ulteriormente "tanto dalla normale indennità di anzianità quanto dalla prestazione di capitale della quale si é detto, poiché l'onere é posto direttamente a carico del fondo, cui affluisce un apposito contributo; e l'INA provvede al pagamento del premio in connessione con l'erogazione della prestazione di capitale per evidenti ragioni di convenienza amministrativa". Ed al riguardo osservava che il giudice a quo, pur fondando il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma denunciata proprio sull'analogia delle prestazioni dovute dal fondo con la comune indennità di anzianità, aveva trascurato di accertare il fondamento di tale pretesa analogia; e che questa, in senso giuridico, non poteva riconoscersi, perché diversi erano i soggetti, l'oggetto e la sfera di applicazione dei vantaggi derivanti dall'ordinamento previdenziale, rispetto a quelli attribuiti dalla norma generale ed in particolare perché il premio di fedeltà era dovuto dall'ente previdenziale al lavoratore obbligatoriamente iscritto al fondo, che avesse compiuto un servizio "continuativo e non interrotto", ed il suo acquisto non era continuativo e progressivo, ma per scaglioni in corrispondenza del maturare dell'anzianità di venti o ventotto anni di servizio.
L'INPS, ancora, metteva in evidenza che la denuncia di incostituzionalità, per altro, riguardava l'esclusione dal beneficio del premio di fedeltà nel caso di licenziamento in applicazione dell'art. 2119 del codice civile, e che sotto questo profilo perdevano certamente di rilievo le analogie o le differenze con l'indennità di anzianità e c'era da vedere se fosse o meno legittima costituzionalmente la discriminazione o limitazione di cui all'art. 2 in relazione al diritto al premio di fedeltà, abbia questo carattere retributivo o semplicemente previdenziale. Considerava comunque non conferente o pertinente il richiamo agli artt. 38, 36 e 3 della Costituzione.
Ed infine osservava che sul piano costituzionale, in breve, la questione da decidere era se il premio di fedeltà, maturata la durata del servizio richiesta, fosse un necessario ed immediato acquisto per il patrimonio del lavoratore, oppure no. Ed a tale quesito riteneva che si dovesse dare risposta negativa.
Concludeva l'INPS rilevando che la questione lo interessava soprattutto per i riflessi di equilibrio finanziario del fondo, e rimettendosi, circa la soluzione del problema, non priva di incertezze e perplessità, alla decisione di questa Corte.
3. - All'udienza del 13 giugno 1973 l'avv. Carlo Casalena per l'INPS insisteva nelle precedenti conclusioni.
Considerato in diritto
1. - La Corte d'appello di Roma, con l'ordinanza indicata in epigrafe, solleva, in riferimento agli artt. 36 e 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma primo, della legge 14 febbraio 1963, n. 156 (disposizioni relative alla previdenza del personale addetto alle gestioni delle imposte di consumo), nella parte in cui esclude che il premio di fedeltà spetti all'iscritto al fondo di previdenza, qualora il rapporto di impiego venga meno per recesso del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2119 del codice civile.
2. - La questione é prospettata sotto due profili. Sarebbe, anzitutto, violato l'art. 36 della Costituzione, perché il premio di fedeltà avrebbe carattere retributivo e costituirebbe parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione sarebbe differita, a fini previdenziali, al momento della cessazione del rapporto, e perché il relativo diritto, come quello all'indennità di anzianità, discenderebbe dai principi consacrati dall'art. 36 e dovrebbe informarsi ad essi. Ed in secondo luogo, la norma denunciata andrebbe contro l'art. 3 della stessa Carta, perché tale premio, "per la sua intrinseca natura e per la sua specifica finalità e funzionalità nel meccanismo previdenziale predisposto a tutela del personale addetto alle gestioni delle imposte di consumo", costituirebbe parte integrante dell'indennità di anzianità, e mentre agli altri impiegati pubblici e privati viene corrisposta l'indennità di anzianità nella sua interezza, il personale ora indicato, qualora la norma impugnata continuasse ad essere operante, riceverebbe la indennità di anzianità decurtata del premio di fedeltà.
3. - Questa Corte non ritiene di poter condividere le tesi sulle quali, senza una adeguata motivazione circa le premesse, si basa il giudice a quo ed in particolare, quindi, di dovere ammettere che il premio di fedeltà sia retribuzione in senso stretto o comunque sia una parte della retribuzione che, a fini previdenziali, venga, ad integrazione dell'indennità di anzianità o al pari di questa, corrisposta all'atto della cessazione del rapporto di impiego.
Va tenuto presente che il premio di fedeltà é stato istituito, in aggiunta all'indennità di anzianità, con l'accordo collettivo del 19 novembre 1959 (reso efficace erga omnes con il d.P.R. 2 gennaio 1962, n. 917) ed é ora disciplinato nell'art. 2 della legge n. 156 del 1963. Esso non é dovuto dal datore di lavoro (che é tenuto solo al versamento dei contributi al fondo di previdenza di cui all'art. 316 del r.d. 30 aprile 1936, n. 1138) e quale corrispettivo per il lavoro prestato, e non si acquista dal lavoratore in modo continuo e man mano che si svolge il suo lavoro ed in misura proporzionata alla quantità e qualità del lavoro stesso. E corrisposto, invece, dall'INA (in forza della convenzione esistente con l'INPS) ed é a carico del fondo di integrazione istituito con l'art. 34 del r.d. 20 ottobre 1939, n. 1863, e successive modifiche. Spetta all'iscritto al fondo di previdenza (o agli aventi diritto), nei casi di risoluzione del rapporto di impiego ad iniziativa del datore di lavoro, escluso quello di suo recesso ai sensi dell'art. 2119 del codice civile (o nei casi di morte dell'iscritto) nelle misure di dieci o di quindici trentesimi della retribuzione in base alla quale viene calcolata la indennità di anzianità, per ogni anno di servizio, nel caso di licenziamento (o di morte) dopo venti o rispettivamente ventotto anni di servizio, continuativo ed ininterrotto, nel settore delle imposte di consumo.
Tale premio é dovuto quando la posizione (dell'iscritto al fondo di previdenza) di fedeltà al settore, resa evidente dalla prestazione per gli indicati periodi di un servizio continuativo e non interrotto, permanga in quanto tale fino alla cessazione del rapporto di impiego. Sono richiesti, in sostanza, perché sorga il diritto, vari elementi di fatto da cui é ragionevole dedurre l'esistenza di quella fedeltà al lavoro che si vuole premiare; fedeltà al lavoro che invece non ricorre quando sia l'impiegato a porre fine unilateralmente al rapporto o a dar causa, con il suo comportamento, al licenziamento.
É escluso quindi che il premio di fedeltà abbia carattere retributivo.
Ed é del pari da negare che esso costituisca parte dell'indennità di anzianità dovuta al personale operante nel detto settore. In aggiunta a quanto precede, va infatti rilevato che per i contributi assegnati alle assicurazioni miste sulla vita affidate all'INA, in base all'art. 11 del r.d. n. 1863 del 1939, in caso di cessazione dal servizio, l'iscritto al fondo di previdenza (o il superstite avente causa) ha diritto "ad un capitale comprensivo della indennità di anzianità di servizio dovuta per effetto di legge, di contratti collettivi di lavoro o di regolamenti aziendali" e qualora le somme garantite con quella assicurazione risultino inferiori a detta indennità di anzianità, esse vengono integrate, fino alla concorrenza dell'indennità stessa, con prelievo della differenza dal fondo di cui al citato art. 34 dello stesso r.d. n. 1863 del 1939. Si ha così una forma di previdenza equivalente, nella funzione, alla normale indennità di anzianità e tendente ad assicurare al prestatore di lavoro un trattamento, dal punto di vista economico, migliore o eguale.
Ed il premio di fedeltà, che nei casi sopra ricordati é dovuto, si aggiunge, quale componente eventuale, a codesto trattamento previdenziale.
4. - La questione, pertanto, non é fondata.
Non é ravvisabile la prospettata violazione dell'art. 36 della Costituzione, perché, come si é rilevato, il premio di fedeltà non ha natura e funzione retributiva e non può dirsi che sia una parte della retribuzione, la cui corresponsione sia differita all'atto della cessazione del rapporto di impiego, e perché nella tutela costituzionale apprestata con l'art. 36, siccome questa Corte ha di recente precisato (sentenza n. 82 del 1973), si é voluto e si può comprendere non il diritto ad ogni e qualsiasi controprestazione a fronte di ogni e qualsiasi prestazione di lavoro, "sibbene solo quelle controprestazioni che sinallagmaticamente collegate alle prestazioni servano nell'economia del rapporto, proporzionate alla quantità e qualità del lavoro prestato, ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa". L'art. 36 non copre, pertanto, tutto il terreno del trattamento economico del dipendente; e quindi al legislatore ordinario é rilasciato nella pratica configurazione dei vari rapporti di lavoro o di impiego, di prevedere al di fuori di quella normativa controprestazioni (e nella specie, un premio), che, pur essendo lato sensi retributive, in effetti ed a rigore non presentino tale carattere.
Non ricorre, d'altra parte, l'asserito contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
Basta al riguardo considerare che il premio di fedeltà, anche se dal punto di vista economico é qualcosa che rientra nel trattamento previdenziale previsto per il personale delle imprese appaltatrici della gestione delle imposte di consumo, si aggiunge all'indennità di anzianità (art. 1 del citato accordo collettivo nazionale del 1959), ma non può essere assimilato o confuso con il capitale (comprensivo di detta indennità) dovuto per l'assicurazione mista sulla vita. Perciò, nella norma denunciata in parte qua non é dato di rinvenire una ingiustificata disparità di trattamento: al personale addetto a quelle imprese é infatti assicurata sempre la disponibilità di una somma pari all'indennità di anzianità dovuta agli altri impiegati pubblici e privati ed é solo il diritto al premio di fedeltà (che - si ripete - é qualcosa di più e di diverso nei confronti dell'ordinaria indennità di anzianità) ad essere negato nel caso di risoluzione del rapporto di impiego per recesso del datore di lavoro a sensi dell'art. 2119 del codice civile.
Né infine potrebbe rinvenirsi il denunciato contrasto, considerando il fatto come fenomeno puramente previdenziale. E ciò perché, a parte che l'art. 36 é estraneo alle figure assicurative e previdenziali come quella in esame, sia pure rientranti nel campo del lavoro subordinato, appare, in riferimento all'art. 3, giustificato e ragionevole che il premio de quo, data la sua natura e funzione, sia collegato alla fedeltà del lavoratore verso il settore delle imposte di consumo e serva a premiare codesta fedeltà, e quindi possa prevedersene la non corresponsione quando, in occasione della risoluzione del rapporto, quella fedeltà risulti - come si é sopra rilevato - contraddetta o negata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma primo, della legge 14 febbraio 1963, n. 156 (disposizioni relative alla previdenza del personale addetto alle gestioni delle imposte di consumo), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1973.
Francesco PAOLO BONIFACIO – Giuseppe VERZÌ – Luigi OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 16 luglio 1973.