SENTENZA N. 158
ANNO 1970
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 99 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promosso con ordinanza emessa il 25 febbraio 1969 dal giudice istruttore del tribunale di Asti nei procedimenti civili riuniti vertenti fra il fallimento Pompe Anselmo - officine elettromeccaniche di Anselmo Alberto e f. - ed il fallimento società Esercizio officine Giuseppe Anselmo, iscritta al n. 160 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 128 del 21 maggio 1969.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 14 ottobre 1970 il Giudice relatore Michele Fragali;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Il 25 febbraio 1969, il giudice istruttore del tribunale di Asti, provvedendo sui procedimenti civili riuniti vertenti fra il fallimento Pompe Anselmo, officine elettromeccaniche di Anselmo Alberto e f. e il fallimento della società Esercizio officine Giuseppe Anselmo, emetteva ordinanza con la quale denunziava di illegittimità costituzionale l'art. 99 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) per violazione degli artt. 3, 101, 104 e 108 della Costituzione.
Il giudice pronunziava in un procedimento di opposizione allo stato passivo del fallimento Esercizio officine Giuseppe Anselmo e rilevava che egli era istruttore della causa e nel tempo stesso delegato al fallimento; che in questa seconda qualità aveva ampiamente discusso l'ammissione dei crediti anche in contraddittorio col curatore e con i creditori, ma non poteva astenersi dall'istruttoria della causa, perché l'articolo denunciato demanda il relativo compito al giudice delegato. Egli si trovava dunque in una ingiustificata posizione di disuguaglianza rispetto agli altri giudici e in una corrispondente posizione di disuguaglianza si trovano i cittadini, che sono costretti a sottoporre l'accertamento dei loro crediti verso il fallito ad un collegio di cui fa parte lo stesso giudice delegato; che perciò stesso non si può ritenere giudice imparziale.
Interveniva, nel processo così instaurato, il Presidente del Consiglio dei ministri il quale obiettava che non era leso nella specie il principio di eguaglianza perché le diversità denunziate dipendevano dalla necessità di dettare differenti regole processuali per giudizi diversamente organizzati catione materiae; é regola generale che partecipi al collegio anche il giudice dell'istruzione, competente a prendere provvedimenti provvisori e quindi a conoscere e a decidere sui vari punti della causa; perché il sospetto che il giudice, il quale si é già espresso in un senso determinato, difficilmente sarà indotto a mutare opinione muove da eventualità che non impingono sul trattamento che la legge riserva ai cittadini; perché la presenza nel collegio del giudice istruttore presenta il vantaggio di poter disporre di un magistrato particolarmente informato sulla vicenda del processo. Sul punto dell'imparzialità del giudice il Presidente del Consiglio osserva che essa va intesa non in senso reale ma in senso virtuale, e, per affermarla esistente, si deve tener conto, non delle qualità personali del singolo magistrato e della sua naturale tendenza a difendere ad oltranza le proprie opinioni, ma di ogni circostanza obiettiva attinente alla alterità dell'affare, intesa come assenza di qualsiasi interesse, diretto o indiretto, del giudice nel processo. Gli artt. 101, 104 e 108 si riferiscono poi all'indipendenza del giudice dagli altri poteri dello Stato; non cioè ad un fatto della coscienza, ma all'esigenza obiettiva di sottrarre il giudice ad ogni vincolo nei confronti di altri poteri.
All'udienza del 14 ottobre 1970 l'Avvocatura dello Stato ha confermato le proprie tesi e conclusioni.
Considerato in diritto
1. - Sostanzialmente l'ordinanza afferma che l'art. 99, primo comma, della legge fallimentare, affidando allo stesso giudice che ha approvato lo stato passivo l'istruttoria della causa di opposizione, gli impedisce di adempiere all'obbligo di astensione di cui all'art. 51, n. 4, del codice di procedura civile e crea una sua diseguaglianza con gli altri giudici che hanno conosciuto della causa in altro grado del processo.
Sennonché l'obbligo di astensione fatto al giudice nell'ipotesi predetta si riferisce al caso in cui egli debba conoscere della stessa causa in una sede di gravame, non ad una ipotesi, come quella di cui si tratta, in cui il giudice é chiamato ad un riesame della sua pronuncia in una fase ulteriore dello stesso grado di giudizio, a motivo di opposizioni.
D'altro canto, con la norma impugnata, é la legge stessa che ha escluso discrezionalmente l'esistenza di ragioni di convenienza tali da impedire al giudice delegato di esplicare la funzione istruttoria: lo ha escluso sul fondamento di criteri di evidente razionalità. Il processo fallimentare é ispirato à principio della concentrazione presso i suoi organi di ogni controversia che ne deriva; e ciò determina collegamenti e interferenze processuali inevitabili, perciò non rilevabili agli effetti della legittimazione del giudice, per la prevalente apprezzabile esigenza di portare allo stesso organo giurisdizionale tutto il procedimento e di ridurlo ad unità.
L'attività istruttoria relativa alla causa di opposizione allo stato passivo non é, del resto, incompatibile con quella svolta in precedenza dal giudice delegato, perché si rivolge al fine di raccogliere elementi utili alla decisione del collegio con riguardo ai motivi dell'opposizione, i quali possono portare nuovi elementi decisivi per la pronunzia finale e nuovi profili: il giudice delegato é il più idoneo a preparare il materiale probatorio necessario alla pronuncia del tribunale, proprio perché ha diretto le operazioni fallimentari ed é meglio in grado di acquisire conoscenze non falsate circa i rapporti fra creditori e fallito. Non deve trascurarsi inoltre il rilievo che talora l'attività del giudice istruttore si limita a presiedere alle varie fasi di impulso del processo di opposizione e ad indirizzarlo verso il più sollecito e leale svolgimento (art. 175, primo comma, c.p.c.); e ciò non é certo incompatibile con l'attività che egli ha precedentemente svolto per la formazione dello stato passivo.
Il giudice delegato é competente ad apportare modificazioni allo stato passivo da lui predisposto, a seguito delle contestazioni e delle controversie dell'udienza di verificazione (art. 961. fall.); cosicché, nella fase istruttoria della causa di opposizione, non fa che continuare a ricercare ogni dato di controllo della situazione creditoria. Ed é nella stessa condizione in cui si trova quando, nell'udienza di verificazione, procede all'istruzione delle contestazioni sullo stato provvisorio che egli aveva predisposto; con la sola differenza che, in questo secondo caso, egli prepara una sua pronuncia, mentre ex art. 99 avvia il processo verso la pronuncia del tribunale.
2. - Quanto si é detto é rilevante anche ai fini dell'altro profilo, prospettato dal giudice a quo, secondo il quale l'articolo 99 della legge fallimentare dà alla controversia un giudice non imparziale.
Le ordinanze che il giudice delegato avrà occasione di emettere nella sede istruttoria, anche se motivate, non possono pregiudicare mai la pronuncia del tribunale (art. 177, primo comma, cod. proc. civ.). Il giudice istruttore deve cioè partecipare alla formazione del giudizio finale staccandosi dalla premessa delle sue pronunce anteriori e dei suoi anteriori atteggiamenti. É su questa linea che la sentenza di questa Corte del 20 maggio 1970, n. 73, ha ritenuto che non viene meno l'imparzialità del giudice quando egli decide in un procedimento nel quale ha svolto funzioni amministrative, perché la sua appartenenza all'ordine giudiziario e le garanzie costituzionali che ne assistono lo stato giuridico lo pongono in grado di operare sempre con assoluta obiettività. Nella successiva sentenza del 24 giugno 1970, n. 123, a proposito della posizione del pretore, il quale in sede penale ha compiti che sarebbero altrimenti del pubblico ministero, la Corte ha rilevato che ciò non incide sulla libertà del giudizio conclusivo, né rende il giudice, in alcun modo, interessato all'esito dl esso. Ha soggiunto la Corte, nella prima sentenza, che l'esigenza di imparzialità, la quale trova la sua manifestazione processuale nell'istituzione stessa del giudice, non é di attesa dai particolari modi di essere della disciplina legislativa dell'astensione o della ricusazione; nella seconda sentenza poi ribaditi codesti principi, ha considerato che il giudice non persegue costituzionalmente altro interesse fuori di quello, oggettivo, dell'accertamento della verità (v. anche, già prima, sentenza 18 maggio 1967, n. 61).
Uno dei principi fondamentali del processo civile é, d'altronde, quello della concentrazione, che vuole garantire, per ogni grado del processo, la partecipazione dello stesso giudice alle varie fasi del medesimo: e non soltanto si consegue in tal modo un rapido svolgimento dell'attività giurisdizionale che sarebbe ritardata ove il mutamento del giudice costringesse ogni volta a remore per permettere un nuovo studio della causa, ma si ottiene il migliore rendimento dell'attività stessa, la quale é condizionata dalla conoscenza integrale della causa, conseguibile, fino al limite della possibilità, unicamente se é sempre lo stesso giudice che partecipa al processo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 99, primo comma, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 (legge fallimentare), proposta dal giudice istruttore dei tribunale di Asti, con ordinanza 25 febbraio 1969, in riferimento agli artt. 3, 101, 104 e 108 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 novembre 1970.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 18 novembre 1970.