SENTENZA N. 131
ANNO 1970
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZI'
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 116 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 (recante disposizioni sull'assegno bancario e circolare), promosso con ordinanza emessa il 22 gennaio 1969 dal pretore di Bologna nel procedimento penale a carico di Amadei Paolo, iscritta al n. 79 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 2 aprile 1969.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 17 giugno 1970 il Giudice relatore Enzo Capalozza;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un procedimento penale a carico di Paolo Amadei, imputato del delitto di cui all'art. 116 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, per avere emesso tre assegni a vuoto, il pretore di Bologna, rilevato che nel decreto di citazione a giudizio, in conformità alla giurisprudenza della Cassazione, i fatti incriminati erano stati raffigurati come una "ipotesi grave", senz'altra specificazione, con ordinanza del 22 gennaio 1969, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'inciso "e nei casi più gravi anche con la reclusione sino a sei mesi", contenuto nel primo comma del citato art. 116, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione.
Il pretore osserva che l'accennato indirizzo giurisprudenziale, rimasto immutato anche dopo il contrario avviso di alcuni giudici di merito, non solo consentirebbe di contestare la detta aggravante con la semplice ed equivoca ripetizione della formula legislativa, ritenuta, di per sé, idonea a rappresentare, come causa di aggravamento, le più varie situazioni (recidiva, cospicuo ammontare dell'assegno, numero e frequenza delle infrazioni,. ecc.), ma avrebbe anche considerato sufficiente una contestazione implicita dell'aggravante stessa, la quale verrebbe ad essere concretamente specificata e circostanziata solo dopo, cioé soltanto nella motivazione della sentenza.
Da ciò deriverebbe, ad avviso del pretore, sia la violazione del diritto di difesa, per quanto attiene al momento della preventiva contestazione dei fatti che integrano la circostanza aggravante; sia la violazione del principio della riserva assoluta di legge in materia penale, in quanto la disposizione denunziata consente, caso per caso, al potere discrezionale del giudice di inserire, ai fini della sussistenza dell'aggravante, elementi non contestati e non validi per tutti i casi.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 85 del 2 aprile 1969.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte non si é costituita la parte privata.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto con atto depositato il 10 aprile 1969, nel quale chiede che la questione sia dichiarata infondata.
Deduce l'Avvocatura che anche l'aggravante prevista dalla norma denunziata, secondo la giurisprudenza, deve essere contestata all'imputato e che la così detta contestazione implicita delle molteplici circostanze nelle quali siano ravvisabili le cause di aggravamento, deve pur sempre consistere nell'indicazione degli elementi di fatto che costituiscono l'aggravante stessa, ai fini di consentire all'imputato la piena possibilità di difesa.
Nell'escludere la violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, l'Avvocatura richiama, poi, la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, ai fini dell'osservanza del principio di riserva della legge penale, é ritenuta sufficiente una descrizione sommaria, anche con indicazioni meramente estensive ed esemplificative; e fa presente, infine, che la locuzione "nei casi più gravi", contenuta nella disposizione denunziata, come in altre leggi penali, lungi dall'essere addebitabile ad un difetto di tecnicismo, risponde all'esigenza di evidenziare le condotte tipiche fondamentali, e troverebbe il suo riscontro nei criteri elencati nell'art. 133 del codice penale.
Considerato in diritto
1. - L'ordinanza del pretore di Bologna denuncia l'incostituzionalità dell'inciso, contenuto nella prima parte del primo comma dell'art. 116 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 ("e nei casi più gravi anche con la reclusione sino a sei mesi"), prospettando la violazione del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, della Costituzione) e del principio della riserva assoluta di legge in materia penale (art. 25, secondo comma).
I vari fatti illeciti descritti nei nn. 1, 2, 3 e 4 del citato art. 116 sono puniti "con la multa da lire 50 a lire 5.000 (ora, da lire 2.000 a lire 200.000, alla stregua dell'art. 1 della legge 12 luglio 1961, n. 603) e nei casi più gravi anche con la reclusione sino a sei mesi, salvo che il fatto costituisca reato punibile con pena maggiore".
2. - La censura da esaminare per prima, in ordine logico, é quella che attiene all'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
É ben vero che questo precetto costituzionale, affermando che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non stabilisce soltanto la irretroattività della norma penale, ma dà, altresì, fondamento legale alla potestà punitiva del giudice; epperò é altrettanto vero che il principio di legalità della pena non può prescindere dalla individualizzazione di questa, ossia dal suo adeguamento alle singole fattispecie. É, così, perfettamente conforme al disposto costituzionale che la norma penale sia prefissata dalla legge in modo da consentire che la sanzione corrisponda alla specifica violazione concreta (sentenza n. 15 del 1962); e che la legge rimetta, con una certa ampiezza, al giudice la valutazione di situazioni e circostanze, lasciandogli un congruo ambito di discrezionalità per l'applicazione della pena (sentenza n. 26 del 1966).
A tali criteri si ispira la norma denunziata che non solo fissa i limiti minimi e massimi della sanzione, ma richiede che, per potersi addivenire all 'applicazione del la pena detentiva in aggiunta alla pena pecuniaria, ricorrano "i casi più gravi": il che implica un più vincolato governo del potere discrezionale del giudice.
La formula "nei casi più gravi" é stata usata più volte in leggi speciali (es.: art. 2, primo comma, del D.Lg.Lgt. 27 luglio 1944, n. 159; art. 1 del D.Lg.Lgt. 10 maggio 1945, n. 234; art. 2 della legge 23 febbraio 1950, n. 66; artt. 77, lett. a, 78, lett. a, e 79, lett. a, del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164; artt. 53, lett. a, 54, lett. a, 55, lett. a, 56, lett. a, e 57, lett. a, del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 302; art. 12, secondo comma, della legge 23 dicembre 1956, n. 1526; adde, artt. 1 e 2 del D.L. 11 febbraio 1948, n. 50, che, per altro, consentono al giudice di aggiungere la pena dell'ammenda a quella dell'arresto, sia pure senza fare espressa menzione della gravità del caso).
L'art. 116 sottintende che deve tenersi particolarmente conto, nelle varie fattispecie ivi elencate, degli elementi - di importanza causale o di valore sintomatico del reato - previsti in via generale dall'art. 133, primo e secondo comma, cod. pen. ai fini della eventuale applicazione della sanzione detentiva in aggiunta a quella pecuniaria; che deve considerarsi, cioé, se le modalità del fatto, la gravità del danno, i precedenti del reo, il suo comportamento antecedente, contemporaneo o susseguente al reato, i motivi a delinquere, ecc., consigliano di infliggere entrambe le pene.
La questione, dunque, non ha fondamento, sotto il profilo dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
3. - Parimenti infondata é la censura sollevata in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, perché resta ben ferma, in ogni caso, l'esigenza di una rituale contestazione esplicita e dettagliata nei suoi aspetti tipicizzanti. Ché in questo senso é da intendere la " enunciazione del fatto" di cui agli artt. 384, n. 2, 396, n. 2 (riguardante anche il procedimento dinanzi al pretore per i reati di sua competenza: art. 389) e 477, secondo comma, del codice di procedura penale.
Com'é noto, fatto contestato é il complesso degli elementi portati a conoscenza dell'imputato, sì da porlo in grado di difendersi su tutti e su ciascuno di essi, di guisa che nessun elemento che compone l'accusa sfugga alla difesa.
Detta esigenza non sarebbe assolta da un generico richiamo alla maggiore gravità, del tutto inadeguato rispetto all'effettiva salvaguardia del diritto di difesa, cui é preordinato l'obbligo giuridico-processuale della contestazione e quello della correlazione dell'accusa contestata con la sentenza.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata - nei sensi di cui in motivazione - la questione di legittimità costituzionale dell'inciso "e nei casi più gravi con la reclusione sino a sei mesi", contenuto nell'art. 116 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 ("disposizioni sull'assegno bancario, sull'assegno circolare e su alcuni titoli speciali dell'Istituto di emissione, del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia"), sollevata con ordinanza 22 gennaio 1969 del pretore di Bologna, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1970.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 13 luglio 1970