SENTENZA N. 72
ANNO 1969
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Aldo SANDULLI, Presidente
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale delle disposizioni nella determinazione delle tariffe telefoniche contenute nell'art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, nell'art. 135 del regio decreto 19 luglio 1941, n. 1198, nell'art. 49 dei DD.PP.RR. 14 dicembre 1957, nn. 1405, 1406, 1407 e 1409, e 28 dicembre 1957, n. 1408, e nel decreto del Ministro per le poste e telecomunicazioni 24 aprile 1964, promosso con ordinanza emessa il 26 ottobre 1967 dal giudice conciliatore di Genova nel procedimento civile vertente tra De Luca Luigi, la Società Italiana per l'esercizio telefonico (S.I.P.) ed il Ministero delle poste e telecomunicazioni, iscritta al n. 260 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 321 del 23 dicembre 1967.
Visti gli atti di costituzione di De Luca Luigi, della S.I.P. e del Ministero delle poste e telecomunicazioni, e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 12 marzo 1969 la relazione del Giudice Francesco Paolo Bonifacio;
uditi l'avvocato Egidio Tosato, per la S.I.P., ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministero delle poste e telecomunicazioni.
Ritenuto in fatto
1. - Con atto di citazione del 3 maggio 1966 l'avvocato Luigi De Luca convenne la Società italiana per l'esercizio telefonico (S.I.P.) innanzi al conciliatore di Genova, deducendo la illegittimità parziale di alcune fatture di utenza telefonica: illegittimità derivante, secondo il suo assunto, dalla circostanza che le relative tariffe erano state imposte sulla base dell'art. 232 della legge postale e di altre disposizioni tutte contrastanti col principio enunciato nell'art. 23 della Costituzione.
A seguito della sentenza 12 giugno 1967 con la quale le sezioni unite della Corte di cassazione - pronunziandosi su un ricorso preventivo proposto dalla S.I.P. - avevano dichiarato la sussistenza della giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, la causa venne riassunta e la S.I.P. chiese che, a seguito della proposizione di una sua domanda riconvenzionale per lire 228.518, la causa venisse rimessa al pretore, giudice competente per valore. Nel giudizio intervenne, ai sensi dell'art. 105 del codice di procedura civile, anche l'Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni.
2. - Con ordinanza 26 ottobre 1967 il giudice conciliatore, dopo un'ampia disamina dell'eccezione di incompetenza per valore sollevata dalla S.I.P. in riferimento alla domanda riconvenzionale, ha trattenuto presso di sé la causa introdotta con la citazione del De Luca, ha rimesso al pretore di Genova la decisione sulla riconvenzionale ed ha proposto, in riferimento all'art. 23 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale concernente l'art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, l'art. 135 del regio decreto 19 luglio 1941, n. 1198, l'art. 49 dei decreti del Presidente della Repubblica nn. 1405, 1406, 1407 e 1409 del 14 dicembre 1957 e 1408 del 28 dicembre 1957, nonché del decreto ministeriale 24 aprile 1964.
Nel motivare in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, l'ordinanza osserva che le tariffe telefoniche sono determinate con atto di autorità e che pertanto ci si trova di fronte ad una imposizione di prestazioni che, per essere legittima, dovrebbe essere effettuata, come dispone l'art. 23 della Costituzione, in base alla legge; ed invece - a suo avviso - la riserva di legge non é rispettata, perché nessuna delle norme che vengono in discussione - a parte la questione sulla loro natura di legge formale - contiene limiti e controlli idonei a garantire gli utenti: l'art. 232 del regio decreto n. 645 del 1936 si limita a stabilire che le tariffe per abbonamenti, compensi ed impianti interni sono approvate con decreto del Ministro per le poste e telecomunicazioni di concerto col Ministro per il tesoro e col Ministro per l'industria e commercio; l'art. 135 del regio decreto n. 1198 del 1941 precisa che le tariffe sono comprensive di ogni onere e spesa per impianto e manutenzione; nessuno dei vari decreti ministeriali che riguardano la materia ha il carattere di legge formale e, comunque, non potrebbe mai dirsi che le norme in essi contenute rispondono all'esigenza di una preventiva precisazione di elementi che valgano a limitare i poteri dell'autorità; lo stesso vale per il decreto ministeriale 24 aprile 1964, perché le sue norme non consentono di stabilire se la determinazione dei costi, da una parte, e dei canoni, dall'altra, garantiscano l'obbligato. In definitiva, secondo il giudice a quo, in base all'art. 232 del Codice postale il Ministro si limita ad approvare le tariffe predisposte dall'ente concessionario.
Contro la tesi dell'illegittimità costituzionale - così conclude l'ordinanza - non si può opporre che il contratto telefonico ha natura privatistica, con prestazioni liberamente assunte dagli utenti: non vi é libertà nella scelta delle clausole e condizioni, e non pare quindi esatto parlare di contratto privato là dove nessuna libertà spetta all'utente di fronte a prestazioni che la parte più forte ha provveduto, essa solo, a sottoporre agli organi del potere esecutivo per un mero atto di approvazione.
3. - L'ordinanza ritualmente notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 321 del 23 dicembre 1967.
Nel presente giudizio si sono costituiti l'avvocato Luigi De Luca (atto del 21 novembre 1967), la Società italiana per l'esercizio telefonico (atto del 9 gennaio 1967) e l'Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio e del Ministro per le poste e per le telecomunicazioni (atti del 12 gennaio 1967).
4. - L'avvocato De Luca, nel chiedere l'accoglimento della questione, sostiene che nella materia de qua ci si trova di fronte ad una vera e propria prestazione imposta e che non é stata rispettata la riserva legislativa di cui all'art. 23 della Costituzione. Sul primo punto il deducente, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali di questa Corte, osserva che la tutela insita in quella norma costituzionale non deve farsi valere solo nei confronti dei soggetti pubblici, ma deve riguardare tutte le ipotesi in cui si realizzi un regime di monopolio, perché di fronte a questo il cittadino ha diritto a che limiti ad ogni strapotere siano fissati da quegli organi legislativi che lo rappresentano. Posto che, perciò, alla fattispecie deve applicarsi la garanzia assicurata dall'art. 23 della Costituzione, l'illegittimità delle disposizioni impugnate deriva, a suo avviso, dalla circostanza che queste demandano all'arbitrio dell'ente impositore la determinazione delle prestazioni: gli artt. 232 del regio decreto n. 645 e 135 del regio decreto n. 1198 parlano di abbonamenti e tariffe, ma nulla stabiliscono in ordine ai minimi ed ai massimi, agli indici, ai controlli, ecc.; i decreti del dicembre 1957, che hanno indubbia forza di legge, sono diretta conseguenza del decreto legge 6 giugno 1957, n. 374, convertito in legge 26 luglio 1957, n. 615, ma questa legislazione delegante nulla sancisce in ordine alle tariffe, e perciò i suddetti decreti non avevano alcuna potestà in proposito; il decreto ministeriale 24 aprile 1964, che proviene non da un singolo Ministro ma da una collegialità che sostituisce il Consiglio dei Ministri, ha quel carattere innovativo che é caratteristico degli atti legislativi, ma le sue statuizioni - che danno luogo ad arbitrarie differenziazioni fra categorie di utenti - creano una compiuta ed eterogenea materia di imposizioni che non trova alcuna base nella legge. Queste conseguenze - così conclude la memoria - costituiscono indice della denunziata illegittimità.
5. - La difesa della S.I.P. ritiene che la questione sollevata dal giudice conciliatore é ammissibile solo nella parte che riguarda l'art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, che é atto avente forza di legge perché emanato in seguito a delegazione legislativa. Nel merito la S.I.P. contesta l'esattezza del presupposto dal quale muove l'ordinanza di rimessione: nella fattispecie non ci si trova di fronte a quelle prestazioni di cui tratta l'art. 23 della Costituzione, perché le obbligazioni a carico dell'utente non sorgono in connessione ad un atto amministrativo, ma derivano dal contratto, come risulta da tutta la disciplina vigente ed in particolare da numerose norme del regolamento del 1941 e come é confermato dalla giurisprudenza e dalla dottrina concordi. Il decreto ministeriale previsto dall'art. 232 é, certamente, un atto unilaterale dell'autorità amministrativa, ma esso non dà vita a quelle obbligazioni che trovano la loro fonte esclusivamente nell'atto col quale l'utente accetta le condizioni del contratto; il fatto che queste ultime siano unilateralmente predeterminate non esclude la natura contrattuale del rapporto che l'utente stringe con la concessionaria, sicché non si può parlare di prestazione imposta: se si ritenesse altrimenti, si giungerebbe all'assurdo di mettere in dubbio perfino la costituzionalità dei contratti per adesione. La difesa della S.I.P. conclude mettendo in evidenza che le esposte ragioni rendono inutile attardarsi nel dimostrare che l'impugnato art. 232, valutato nel quadro della legislazione sul Comitato interministeriale dei prezzi, risponderebbe comunque ai requisiti stabiliti dall'art. 23 della Costituzione.
6. - Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato il giudice conciliatore, a seguito della proposizione di una riconvenzionale eccedente la sua competenza per valore, avrebbe avuto il potere di decidere la causa principale solo se la domanda fosse stata fondata, come l'art. 35 del Codice di procedura civile richiede, su titolo non controverso o facilmente accertabile: nella specie il giudice nulla ha deciso, ma si é avvalso del potere di rimettere gli atti alla Corte in un caso nel quale, non ricorrendo l'ipotesi prevista dalla legge processuale, egli non disponeva di alcun potere decisorio.
Dopo aver rilevato che ad eccezione dell'art. 232 del decreto del 1936 tutte le altre disposizioni impugnate non hanno forza di legge, anche l'Avvocatura sostiene che il rapporto fra utente e concessionario - come risulta dalla disciplina in materia e dalla stessa pronunzia emessa dalle sezioni unite della Cassazione in sede di regolamento di giurisdizione - trova la sua fonte in un contratto di adesione, sicché le relative obbligazioni non sono imposte da un atto dell'autorità. Dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte sull'oggetto al quale l'art. 23 della Costituzione si riferisce, l'Avvocatura assume che, ad ogni modo, la riserva di legge sarebbe soddisfatta perché le tariffe telefoniche sono formate da organi della pubblica amministrazione, in base a disposizioni legislative: precisamente dal Comitato interministeriale dei prezzi, sulla base dei poteri ad esso attribuiti dall'art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 347. Questa considerazione deve indurre, secondo la difesa dello Stato, a valutare il denunziato art. 232 nel quadro della legislazione relativa ai prezzi e delle garanzie di sostanza (ad esempio, il Comitato deve tener conto del costo dei servizi) e di procedimento che tale legislazione ha apprestato.
7. - Nell'udienza pubblica l'Avvocatura dello Stato e la difesa della S.I.P. hanno illustrato le rispettive tesi e conclusioni.
Considerato in diritto
1. - L'Avvocatura dello Stato sollecita l'esame preliminare di questa Corte su quella parte dell'ordinanza nella quale il giudice conciliatore di Genova, pur rimettendo al pretore la decisione sulla domanda riconvenzionale proposta dalla società convenuta, ha ritenuto di poter trattenere alla propria cognizione la domanda dell'attore. In proposito é sufficiente osservare che il controllo sull'esatta applicazione del combinato disposto degli artt. 36 e 35 del Codice di procedura civile si risolverebbe in un sindacato sulla competenza del giudice a quo a decidere la controversia di merito: ma tale sindacato, secondo la costante giurisprudenza, esula dai poteri di questa Corte.
2. - Il regio decreto 19 luglio 1941, n. 1198, avente ad oggetto l'approvazione del regolamento di esecuzione dei titoli I, Il e III del libro II della legge postale e delle telecomunicazioni, non ha forza di legge. Altrettanto deve dirsi dei decreti del Presidente della Repubblica 14 dicembre 1957, nn. 1405, 1406, 1407 e 1409 e 28 dicembre 1957, n. 1408, che approvarono e resero esecutive le convenzioni per il rinnovo delle concessioni stipulate fra il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e le società telefoniche, nonché del decreto ministeriale 24 aprile 1964 col quale furono approvate le tariffe di abbonamento. Di conseguenza la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice conciliatore di Genova é ammissibile solo nella parte in cui essa ha ad oggetto l'art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, contenente il "Codice postale e delle telecomunicazioni" ed emanato in base a delegazione legislativa.
3. - Il citato art. 232 stabilisce che le tariffe telefoniche ivi specificate sono approvate con decreto del Ministro per le poste e le telecomunicazioni, emanato di concerto col Ministro per il tesoro e col Ministro per l'industria ed il commercio. Ad avviso del giudice a quo, questa disposizione, in quanto demanda all'autorità governativa un potere non soggetto né a limiti né a controlli, contrasterebbe con l'art. 23 della Costituzione, in forza del quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Per decidere la questione di legittimità costituzionale così proposta é necessario, in primo luogo, accertare se nella materia concernente le tariffe telefoniche ci si trova di fronte a vere e proprie "prestazioni imposte", per le quali si possa invocare la riserva di legge contemplata nella norma costituzionale di raffronto. Secondo l'Avvocatura dello Stato e la difesa della S.I.P. una conclusione negativa in proposito sarebbe inevitabile, atteso che l'obbligo del pagamento secondo le tariffe non nasce dal provvedimento dell'autorità governativa, ma dal contratto che l'utente stipula col concessionario del servizio: il necessario concorso della volontà dell'interessato, che si estrinseca in un attività negoziale di diritto privato riconducibile al paradigma del contratto di adesione, escluderebbe la possibilità di configurare i relativi obblighi come oggetto di una vera e propria imposizione.
Gli argomenti esposti dalle due parti, fondati su una esatta qualificazione della fattispecie giuridica presa in considerazione, sono certamente idonei a dimostrare che le obbligazioni degli utenti trovano la loro fonte immediata in un contratto, ed é del pari certo che sulla natura del conseguente rapporto non incidono né il carattere pubblicistico della concessione né i poteri che in proposito la legge attribuisce al Governo. Queste conclusioni, tuttavia, non appaiono di per sé sufficienti a giustificare la tesi dell'inapplicabilità dell'art. 23 della Costituzione al caso in esame. Va anzitutto rilevato che l'intercorrere del rapporto fra due soggetti privati - utente e concessionario - e l'assoggettamento di esso alla disciplina privatistica non fa certo venir meno il carattere pubblico del servizio telefonico, che la legge riserva allo Stato (art. 1 R.D. 27 febbraio 1936, n. 645). Ciò premesso, e sviluppando spunti già contenuti nella precedente giurisprudenza (cfr. sent. n. 55 del 1963), si deve affermare che il carattere impositorio della prestazione non é escluso per il solo fatto che la richiesta del servizio dipenda dalla volontà del privato: ed invero tutte le volte in cui un servizio, in considerazione di una sua particolare rilevanza, venga riservato alla mano pubblica e l'uso di esso sia da considerare essenziale ai bisogni della vita, é d'uopo riconoscere che la determinazione autoritaria delle tariffe deve assimilarsi, nella realtà effettuale, ad una vera e propria imposizione di prestazioni patrimoniali. Quando ricorrano entrambi gli indicati presupposti, il fatto che l'obbligazione al pagamento del corrispettivo del servizio presupponga la volontà dell'utente di avvalersi dello stesso non giuoca, sotto il profilo che qui viene in considerazione, un ruolo determinante. Se é vero, infatti, che il cittadino é libero di stipulare o non stipulare il contratto, é altrettanto vero che questa libertà si riduce alla possibilità di scegliere fra la rinunzia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritariamente prefissati: si tratta, insomma, di una libertà meramente formale, perché la scelta nel primo senso comporta il sacrificio di un interesse assai rilevante. Si deve ritenere, perciò, che quando si tratti di un servizio essenziale - e non c'é dubbio che tale sia da considerare, nella odierna società, quello relativo alle comunicazioni telefoniche -, esercitato in regime di monopolio pubblico, la determinazione delle tariffe non possa essere rimessa all'arbitrio dell'autorità, ma debba essere assistita da quelle garanzie che la Costituzione ha voluto assicurare attraverso la riserva di legge.
4. - Pienamente fondata, invece, risulta la tesi subordinata, sostenuta sia dall'Avvocatura dello Stato che dalla difesa della S.I.P., secondo la quale la determinazione delle tariffe telefoniche avviene, nell'ordinamento ora in vigore, in base alla legge. L'impugnato art. 232, infatti, non può essere considerato come avulso dal sistema giuridico nel quale la disposizione oggi si inserisce, ed il potere conferito all'autorità governativa deve necessariamente essere valutato nel quadro del regime giuridico che in generale disciplina le competenze, il procedimento ed i criteri concernenti la fissazione dei prezzi dei servizi.
A tal proposito deve essere posto in rilievo che il potere di determinare tali prezzi é devoluto al Comitato interministeriale istituito con decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 347, secondo le modalità prescritte da tale provvedimento legislativo e dalle successive disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale 23 aprile 1946, n. 363, e del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 15 settembre 1947, n. 896, e bisogna ritenere - come risulta dal primo comma dell'art. 4 della citata legge istitutiva del nuovo organo, che non consente se non a quest'ultimo la modificazione di preesistenti tariffe autoritative - che si tratta di una competenza esclusiva, la quale é rimasta tale anche dopo l'emanazione del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1968, n. 626, il cui art. 2 é da intendersi nel senso che le direttive del Comitato interministeriale per la programmazione economica in ordine alla determinazione delle categorie di servizi per i quali il C.I.P. può esercitare le sue attribuzioni non riguardi le ipotesi nelle quali la fissazione delle tariffe sia prevista da una legge.
Una volta accertato che il Governo non può esercitare - ed in effetti non esercita - il potere conferitogli dall'art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, se non uniformandosi alle deliberazioni adottate dal C.I.P., il problema in esame trova la sua soluzione nelle considerazioni che la Corte, sia pure con riferimento ad altra norma costituzionale, pose a fondamento della decisione adottata con sentenza n. 103 del 1957. In quella occasione, infatti, sulla base di quanto risulta dalle disposizioni concernenti la composizione del C.I.P. e le modalità del suo funzionamento, venne accertato che la legge attribuisce a quel Comitato un potere che "lungi dall'essere illimitato sì da sconfinare in una valutazione di fattori riservata al legislatore, é collegato ad elementi di natura tecnica che ne circoscrivono l'ambito". Le stesse ragioni giustificano la conclusione che il denunziato art. 232, interpretato in collegamento con la vigente legislazione sulla determinazione dei prezzi dei servizi, non viola la riserva di legge prevista nell'art. 23 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale concernente l'art. 135 del regio decreto 19 luglio 1941, n. 1198, l'art. 49 dei decreti del Presidente della Repubblica 14 dicembre 1957, nn. 1405, 1406, 1407 e 1409, e del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1957, n. 1408, ed il decreto ministeriale 24 aprile 1964 (Gazzetta Ufficiale n. 104 del 28 aprile 1964), sollevata dall'ordinanza 26 ottobre 1967 del giudice conciliatore di Genova in riferimento all'art. 23 della Costituzione;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 232 del regio decreto 27 febbraio 1936, n. 645, contenente il "codice postale e delle telecomunicazioni", sollevata dalla stessa ordinanza in riferimento all'art. 23 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 marzo 1969.
Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE
Depositata in cancelleria il 9 aprile 1969.