Sentenza n. 10 del 1969

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SENTENZA N. 10

 

ANNO 1969

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

 

Prof. Giuseppe BRANCA

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI

 

Prof. Giuseppe CHIARELLI

 

Dott. Giuseppe VERZÌ

 

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

 

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

 

Dott. Luigi OGGIONI

 

Dott. Angelo DE MARCO

 

Avv. Ercole ROCCHETTI

 

Prof. Enzo CAPALOZZA

 

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

 

Prof. Vezio CRISAFULLI

 

Dott. Nicola REALE

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D.L. 19 agosto 1943, n. 737, recante nuovi provvedimenti in materia di imposte di registro, in relazione all'art. 50 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di registro), promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 19 novembre 1965 dalla Commissione provinciale delle imposte di Milano sul ricorso di Villa Angelo contro l'Ufficio del registro, iscritta al n. 105 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 dell'8 luglio 1967;

 

2) ordinanza emessa il 21 ottobre 1966 dalla Commissione distrettuale delle imposte di Santa Maria Capua Vetere sul ricorso di Ardolino Antonio contro l'Ufficio del registro, iscritta al n. 138 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 208 del 19 agosto 1967;

 

3) ordinanze emesse il 9 ottobre 1967 dalla Commissione provinciale delle imposte di Roma sui ricorsi di Garzia Zevio contro l'Ufficio del registro, iscritte ai nn. 269 e 270 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del 27 gennaio 1968;

 

4) ordinanza emessa il 30 gennaio 1968 dalla Commissione provinciale delle imposte di Napoli sul ricorso di Castellano Vincenzo, iscritta al n. 56 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 127 del 18 maggio 1968.

 

Visti gli atti di costituzione dell'Amministrazione delle finanze dello Stato;

 

udita nell'udienza pubblica del 20 novembre 1968 la relazione del Giudice Ercole Rocchetti;

 

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per l'Amministrazione delle finanze.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

1. - Con ricorso 18 dicembre 1963 Villa Angelo proponeva opposizione all'avviso di accertamento dell'Ufficio del registro di Milano con cui veniva determinato in lire 441 milioni il valore venale dei beni di cui egli, a seguito di pubblico incanto, era risultato aggiudicatario (con decreto 29 novembre 1962 del giudice della esecuzione presso il tribunale di Milano) per la somma di lire 257.000.000.

 

La Commissione provinciale delle imposte di Milano, investita della questione relativa alla ammissibilità del giudizio di congruità, con ordinanza 19 novembre 1965 ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 R.D.L. 19 agosto 1943, n. 737 (in relazione all'art. 50 R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269), per contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione.

 

La Commissione provinciale delle imposte di Milano ha rilevato che, mentre l'art. 50 della legge di registro (la cui questione di legittimità costituzionale é stata dichiarata non fondata con sentenza n. 62 del 1965) vieta alla Amministrazione finanziaria di procedere al giudizio di valutazione degli immobili venduti all'asta pubblica, l'art. 4 citato, ove l'acquisto all'asta pubblica riguarda una vendita promossa in dipendenza di mutuo in danaro, consente alla finanza di procedere al giudizio di valutazione.

 

Questa situazione, secondo la Commissione, pone in essere una manifesta disparità di trattamento e una ingiusta sperequazione fra coloro che siano aggiudicatari di beni nei pubblici incanti promossi in dipendenza dei mutui in danaro, e coloro che invece si rendano aggiudicatari dei beni in tutti gli altri casi, del tutto identici, di vendite al pubblico incanto.

 

"Una identica procedura di vendita", prosegue l'ordinanza in esame, "dovrebbe importare un identico trattamento fiscale", tanto più che colui che partecipa ad un pubblico incanto per l'acquisto di un immobile, non é di regola nella possibilità e non ha nessun interesse di accertare la causa che ha dato luogo alla vendita coatta del bene stesso, in quanto gli avvisi di asta non danno nessuna indicazione in proposito.

 

Dopo aver affermato che in ogni tipo di vendita ai pubblici incanti il prezzo di aggiudicazione é il più vicino possibile al valore venale dei beni in comune commercio, per l'esistenza di rigorose norme e cautele dirette a garantire il regolare svolgimento dell'asta, la Commissione provinciale delle imposte di Milano ravvisa nella situazione normativa di cui ai citati artt. 4 e 50 un diverso trattamento fiscale nei confronti di cittadini (acquirenti ai pubblici incanti) che si trovano nelle stesse condizioni giuridiche.

 

La suddetta ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 dell'8 luglio 1967.

 

Si é costituita, avanti alla Corte, soltanto l'Amministrazione delle finanze, in persona del Ministro pro-tempore e a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni del 20 luglio 1967.

 

Secondo l'Avvocatura, l'art. 4 del R.D.L. n. 737 del 1943 vulnera solo apparentemente il principio fissato in via generale in materia di pubblici incanti dall'art. 50 della legge di registro. Difatti, la norma impugnata, che venne emanata durante il periodo bellico, fu dettata dalla necessità di evitare le frodi fiscali che si perpetravano attraverso aggiudicazioni di comodo: essa aveva lo scopo di impedire i trasferimenti di immobili effettuati mediante apparenti processi di esecuzione immobiliare per crediti che non erano crediti, bensì il prezzo pagato per gli stessi immobili, i quali, attraverso la espropriazione forzata, finivano col raggiungere il vero acquirente che assumeva la figura di aggiudicatario.

 

Ad avviso dell'Avvocatura sussistono innegabili differenze tra le vendite coatte dipendenti da mutui in danaro e quelle ai pubblici incanti in genere, poiché nelle prime spesso prendono il sopravvento interessi individuali che turbano la regolarità della contrattazione; difatti per accordi intercorsi in precedenza tra gli interessati i prezzi offerti sono spesso notevolmente inferiori al valore del bene in comune commercio, con la conseguenza che "quasi sempre l'offerta maggiore viene fatta dallo stesso mutuante il quale diventa aggiudicatario dell'immobile, frodando il fisco e concludendo un affare".

 

In altre parole, nelle vendite coatte dipendenti da mutui, non sussisterebbero le stesse garanzie che circondano le vendite ai pubblici incanti e non si realizzerebbe la necessaria coincidenza tra valore venale del bene e prezzo di aggiudicazione.

 

La disposizione derogativa contenuta nella norma impugnata avrebbe quindi una precisa ragione politico-giuridica dettata dalla necessità di impedire le frodi fiscali.

 

Pertanto, secondo l'Amministrazione finanziaria, nessun contrasto sussiste tra l'art. 4 del R.D.L. n. 737 e il principio fissato nell'art. 3 della Costituzione perché non può essere ravvisata una posizione di eguaglianza in relazione a situazioni obbiettivamente differenti, come tali valutate dal legislatore; neppure può essere ravvisato alcun contrasto tra la norma impugnata e l'art. 53 della Costituzione, in quanto l'art. 4 rappresenta una concreta applicazione del principio costituzionale della percezione del giusto tributo in relazione alla concreta capacità contributiva.

 

Con memoria depositata il 7 novembre 1968 l'Avvocatura, dopo aver ribadito le precedenti osservazioni, mette in rilievo che l'unica differenza ipotizzabile tra la norma impugnata e l'art. 50 della legge del registro attiene esclusivamente a un "momento procedurale" di determinazione del valore venale del bene trasferito, che nel primo caso é ancorato all'asta, e nel secondo, come in via generale, al giudizio di stima e di congruità.

 

2. - Nel corso di analogo procedimento tributario promosso da Ardolino Antonio nei confronti dell'Ufficio del registro, la Commissione distrettuale delle imposte di Santa Maria Capua Vetere ha proposto, con ordinanza emessa il 21 ottobre 1966, identica questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D.L. sopra citato, con argomentazioni analoghe a quelle già prospettate dalla Commissione provinciale delle imposte di Milano.

 

La suddetta ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 208 del 19 agosto 1967.

 

L'Amministrazione delle finanze, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, si é costituita dinanzi alla Corte costituzionale con deduzioni del 1 settembre 1967 di contenuto identico a quelle prospettate nel giudizio proposto dalla Commissione provinciale delle imposte di Milano.

 

3. - La Commissione provinciale delle imposte di Roma, con due ordinanze di identico contenuto, emesse il 9 ottobre 1967, sui ricorsi di Garzia Zevio contro l'Ufficio del registro di Roma ha sollevato le stesse questioni di legittimità costituzionale della norma sopra indicata per motivi sostanzialmente identici a quelli dedotti dalla Commissione distrettuale di Milano.

 

Le ordinanze, regolarmente notificate e comunicate sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del 27 gennaio 1968.

 

In questa sede non vi é costituzione di parti.

 

4. - Con ordinanza emessa il 30 gennaio 1968 sul ricorso di Castellano Vincenzo nei confronti del locale Ufficio del registro, anche la Commissione provinciale delle imposte di Napoli ha proposto la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D.L. 19 agosto 1943, n. 737 (in relazione all'art. 50 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269), per contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle già indicate.

 

La suddetta ordinanza é stata regolarmente notificata e comunicata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 127 del 18 maggio 1968.

 

Non vi é costituzione di parti in questa sede.

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

1. - Le cinque ordinanze indicate in epigrafe propongono la stessa questione di legittimità costituzionale, e pertanto i relativi giudizi, congiuntamente discussi nella pubblica udienza, possono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

 

2. - Le Commissioni provinciali delle imposte di Milano, di Roma e di Napoli e la Commissione distrettuale delle imposte di Santa Maria Capua Vetere hanno promosso giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D.L. 19 agosto 1943, n. 737, in relazione all'art. 50 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, con riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nel presupposto, accolto dalla giurisprudenza di questa Corte, di essere qualificate a proporre questioni di legittimità costituzionale.

 

Con sentenza 18 gennaio 1957, n. 12, e con le successive

nn. 41

 e 42 del 1957, n. 132 del 1963 e n. 103 del 1964, la Corte costituzionale ebbe infatti a riconoscere alle Commissioni, previste dal R.D.L. 7 agosto 1936, n. 1639, e dal R.D. 8 luglio 1937, n. 1516, per la risoluzione delle controversie in materia di imposte dirette ed indirette sugli affari, carattere di organi giurisdizionali, legittimati, perciò, a sollevare, avanti la stessa Corte, ai sensi degli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, le questioni di costituzionalità insorte "nel corso del giudizio" da essi ritenute rilevanti ai fini della decisione e non manifestamente infondate.

 

Essendo stato però recentemente proposto il problema della natura giurisdizionale o amministrativa delle competenze attribuite alle Commissioni comunali per i tributi locali, la Corte costituzionale, con sentenza 29 gennaio 1969, n. 6, ha ritenuto che "dall'esame complessivo degli indici di valutazione offerti dalla disciplina relativa alla composizione, ai poteri e al funzionamento di quelle Commissioni risulta che tutti gli argomenti deducibili dalle norme positive concorrono a convalidare la qualifica amministrativa con la quale la stessa legge definisce quegli organi".

 

Alla luce di questo più recente orientamento anche quello della natura giurisdizionale o amministrativa delle Commissioni per la decisione delle controversie in materia di imposte dirette o indirette sugli affari merita di essere riesaminato integralmente. E tale riesame é preliminare a ogni altra indagine, poiché il risultato di esso condiziona l'ammissibilità dei giudizi ora proposti alla Corte.

 

3. - É noto che la tesi della natura giurisdizionale delle Commissioni per i tributi erariali, ripetutamente affermata dalla Corte di cassazione e da una parte della dottrina, e finora seguita pure da questa Corte (la quale ebbe ad occuparsi in passato anche di alcuni problemi relativi alla indipendenza delle Commissioni stesse), é stata sempre contrastata dalla dottrina prevalente.

 

É opportuno innanzi tutto osservare che nessuno degli elementi testuali, cui i sostenitori dell'una o dell'altra tesi fanno riferimento, appare da solo decisivo.

 

Da un lato, infatti, il legislatore, per designare tali organismi, parla di "commissioni amministrative" (intitolazione del R.D. 8 luglio 1937, n. 1516, e artt. 29, 31, 35, 46 del R.D.L. 7 agosto 1936, n. 1639) e, a proposito della risoluzione delle controversie tributarie da parte delle Commissioni, più volte ripete che essa avviene "in via amministrativa" (artt. 22 e 28 del R.D.L. n. 1639 del 1936).

 

Per altro, gli artt. 40 e 44 del R.D. n. 1516 del 1937, ammettono contro le decisioni delle Commissioni provinciali l'appello incidentale e il ricorso in revocazione "secondo il diritto processuale comune". Ma nemmeno a tali espressioni può darsi un valore determinante, perché mezzi di impugnazione di tale genere possono riscontrarsi e si riscontrano anche nei procedimenti contenziosi amministrativi.

 

La natura giuridica delle Commissioni in esame va desunta perciò dalla ricostruzione sistematica di tutta la disciplina positiva, relativa alla composizione, ai poteri e al funzionamento di esse.

 

Quanto alle Commissioni distrettuali, é vero che - come questa Corte ebbe a sottolineare nella sentenza n. 103 del 1964 - la nomina dei componenti é effettuata, meno che per il presidente e vice presidente, entro una serie di nominativi forniti in numero triplo dalle autorità comunali del distretto (art. 2 R.D.L. 13 marzo 1944, n. 88) e che la misura della decadenza dei componenti é limitata a casi tassativamente indicati a priori: incapacità, indegnità, incompatibilità, ripetute assenze ingiustificate (artt. 7 e 22 del R.D. 8 luglio 1937, n. 1516).

 

Nondimeno non può negarsi che scarsamente si conciliano col carattere proprio degli organi giurisdizionali le norme le quali dispongono che tutti i componenti sono nominati dall'intendente di finanza - organo locale proposto all'amministrazione finanziaria parte in causa - che la carica é di durata breve (quattro anni) ed é rinnovabile (v. sentenza n. 49 del 1968); che all'intendente compete pure il potere di ordinare lo scioglimento della Commissione distrettuale, in caso di mancato funzionamento o "per qualsiasi altro grave motivo" (art. 20 R.D. 8 luglio 1937, n. 1516) e con un margine quindi assai notevole di discrezionalità.

 

Altrettali incongruenze sono rilevabili nelle analoghe disposizioni relative alle Commissioni provinciali, la nomina dei cui componenti viene operata dal Ministro per le finanze - sia pure tra magistrati e funzionari statali (in servizio o a riposo) - e per l'altra metà fra i cittadini designati in numero triplo dal prefetto, autorità amministrativa della provincia (artt. 25 del R.D.L. 7 agosto 1936, n. 1639, e 6 del D.L.8 aprile 1948, n. 514), con la esclusione di ogni designazione da parte di organi elettivi.

 

Al Ministro competono anche, per quanto riguarda le Commissioni provinciali, i poteri di ordinare lo scioglimento di esse e dichiarare la decadenza dei componenti (artt. 21 e 7 citati).

 

Analoghe osservazioni possono farsi a proposito della Commissione centrale, nominata dal Governo su proposta del Ministro per le finanze (artt. 2 e 4 D.L. 18 ottobre 1944, n. 334).

 

Ma ulteriori elementi poco conciliabili in via di principio col carattere degli organi di giurisdizione si riscontrano in altre disposizioni. Così é a dirsi per la mancanza della predeterminazione di un numero fisso di componenti per la decisione delle controversie (art. 18 R. D. 8 luglio 1937, n. 1516), mancanza che, come questa Corte ha osservato nella sentenza n. 6 del corrente anno, é una regola propria dei collegi amministrativi.

 

Ed altrettanto, e ancor più, é a dire per la facoltà - che é stata abolita per le imposte dirette dall'art. 5 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, ma é tuttora riconosciuta alle commissioni distrettuali e provinciali dall'art. 2 del R.D. 5 marzo 1942, n. 186, per quanto concerne le imposte sui trasferimenti della ricchezza - di aumentare d'ufficio i valori attribuiti dalla amministrazione finanziaria ai beni (v. la citata sentenza n. 6 del corrente anno), nonché per l'altra facoltà concessa dagli artt. 36 e 122 del D. P. R. 29 gennaio 1958, n. 645, alle Commissioni distrettuali di sospendere il giudizio e rimettere gli atti all'ufficio allorché, nel corso di questo, esse vengano a conoscenza di elementi che rendano opportuno una integrazione dell'accertamento. E così pure per la facoltà concessa alla Commissione distrettuale dell'art. 32 del R.D. 8 luglio 1937, n. 1516, di confermare l'accertamento, ma in base a un titolo diverso; ponendo in tal modo in essere un nuovo accertamento, che la legge stessa ritiene tale, perché la qualifica come nuova proposta e lo rende perciò suscettibile di un nuovo gravame avanti la medesima commissione.

 

Ma un ancor più decisivo argomento in favore della tesi della natura amministrativa e non giurisdizionale degli organi in questione può trarsi dal modo come la loro attività si articola e si raccorda con quella dell'autorità giudiziaria, cui, in materia d'imposta é, dall'art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, affidata (benché con qualche limitazione, della quale nel presente giudizio la Corte non é chiamata ad occuparsi) la tutela giurisdizionale del cittadino.

 

Qualora gli organi in questione dovessero essere considerati giurisdizionali, dovrebbe ritenersi che l'ordinamento avrebbe apprestato in materia - in contrasto con tutto il tradizionale sistema - ben sei gradi di giurisdizione. Al che sarebbe da aggiungere l'anomalia della facoltà, consentita al contribuente, di saltare taluni gradi di giurisdizione, passando, dalla prima istanza avanti le Commissioni, direttamente al tribunale (art. 22, primo comma, del D.L. 7 agosto 1936, n. 1639) o consumando l'intera fase giudiziale avanti l'autorità giudiziaria ordinaria col ricorrere per violazione di legge - come ammette la giurisprudenza - contro la decisione della Commissione centrale direttamente in Cassazione in forza del disposto dell'art. 111 della Costituzione.

 

4. - Il concorso di tante circostanze, mal conciliabili col carattere giurisdizionale degli organi di cui trattasi - soprattutto alla stregua del modello che per gli organi di tale natura fissa la vigente Costituzione - e perfettamente conciliabili, invece, con la natura amministrativa degli stessi, deve far propendere per quest'ultima tesi; e consiglia alla Corte di uniformarsi, anche a proposito degli anzidetti organi, all'indirizzo adottato con la recente sentenza n. 6 del corrente anno.

 

Solo in tal modo può avere spiegazione e giustificazione la duplice fase contenziosa: volta, la prima, amministrativa, allo accertamento in contraddittorio dell'imposta e la seconda al giudizio, ordinato ad assicurare al cittadino la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi inerenti al rapporto d'mposta.

 

5. - Dalla mancanza, negli organi proponenti, della natura giurisdizionale, deriva che le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D.L. 19 agosto 1943, n. 737, proposte dalle Commissioni provinciali di Milano, di Roma e di Napoli e dalla Commissione distrettuale delle imposte di Santa Maria Capua Vetere devono essere dichiarate inammissibili.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D.L.19 agosto 1943, n. 737, recante nuovi provvedimenti in materia di imposte di registro, in relazione all'art. 50 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di registro), sollevata dalle Commissioni provinciali di Milano, di Roma e di Napoli e dalla Commissione distrettuale di Santa Maria Capua Vetere in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

 

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 gennaio 1969.

 

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -   Costantino MORTATI  -   Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE

 

 

Depositata in cancelleria il 10 febbraio 1969.