Sentenza n. 3 del 1969
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SENTENZA N. 3

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 163, primo comma, n. 4, e secondo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 12 maggio 1967 dal tribunale di Cassino nel procedimento di concordato preventivo chiesto dalla società "Molino-pastificio e lanificio in S. Domenico", iscritta al n. 102 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 dell'8 luglio 1967;

2) ordinanza emessa il 13 gennaio 1968 dal tribunale di Cagliari nel procedimento di concordato preventivo chiesto dalla società "Sardespa manifattura di Venafiorita", iscritta al n. 21 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 del 9 marzo 1968.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione della società Sardespa;

udita nell'udienza pubblica del 6 novembre 1968 la relazione del Giudice Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - La sezione fallimentare del tribunale di Cassino con decreto del 28 aprile 1967, ammetteva la società "Molino-pastificio e lanificio in S. Domenico", con sede in Isola Liri, alla procedura di concordato preventivo, con cessione di beni, ordinando alla ricorrente, ai sensi dell'art. 163, primo comma, n. 4, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), di depositare la somma di lire 15 milioni, ritenuta presumibilmente necessaria per le spese dell'intera procedura, ivi comprese quelle di registro.

Con ricorso depositato il 9 maggio successivo, la società chiedeva la revoca dell'ordine di deposito, deducendo che nella determinazione del suo ammontare, non doveva essere computata la tassa di registro sul concordato - non ancora stipulato - prevista dall'art. 32 della tariffa allegato A, Parte I, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di registro); in subordine, proponeva eccezione di illegittimità costituzionale di quest'ultima disposizione, in relazione alla citata norma della legge fallimentare, per assunta disparità di trattamento tra il debitore possidente e quello impossidente nella richiesta di ammissione al concordato preventivo, con cessione dei beni.

Deduceva al riguardo la ricorrente l'incongruità della situazione in cui verrebbe a trovarsi chi propone la cessione di tutti i suoi beni e deve, poi, versare altre somme, di cui non é in possesso, per ottenere l'ulteriore corso della sua domanda; prospettava l'analogia di tale situazione normativa con quella del solve et repete, già ritenuta costituzionalmente illegittima dalla giurisprudenza di questa Corte; e denunziava, infine, il carattere punitivo della dichiarazione di fallimento, per il fatto di dovere essere pronunziata d'ufficio, qualora non sia stato eseguito il prescritto deposito.

Il tribunale non accoglieva il ricorso. Peraltro, con ordinanza del 12 maggio 1967, sulla base di argomenti diversi da quelli prospettati dalla ricorrente, sollevava questione di legittimità costituzionale del citato art. 163, primo comma, n. 4, della legge fallimentare, in riferimento all'art. 24 della Costituzione.

Osservava il tribunale, nel respingere l'istanza di revoca del decreto, che l'ordine di deposito della somma era stato adottato in conformità alla legge e con determinazione prudenziale della presumibile spesa della procedura, tenuto anche conto dell'aliquota (due per cento) della tassa di registrazione del concordato da applicare, alla stregua della legge tributaria, sul valore dei beni, oggetto della cessione, ammontante nella specie a circa 550 milioni. Sulla eccezione di illegittimità costituzionale di questa ultima disposizione, nei termini in cui era stata proposta, faceva, poi, presente che l'osservanza della norma, in quella fase, assumeva rilievo esclusivamente per determinare l'importo delle spese dell'intera procedura, tra le quali, appunto, rientra la tassa di registro, e non anche, invece, ai fini dell'assolvimento immediato di questo tributo.

Nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione sollevata d'ufficio - nella quale dichiarava assorbita ogni altra questione proposta dalla ricorrente - il tribunale deduceva, infine, essere innegabile, prima facie, che, in violazione del precetto contenuto nell'art. 24 della Costituzione, che garantisce di poter adire comunque l'autorità giudiziaria, questa facoltà é in taluni casi compromessa dalla norma denunziata. La quale, mentre, da un lato, presuppone l'insolvenza del debitore per l'ingresso alla procedura di concordata preventivo, dall'altro lato, in antitesi con tale presupposto. impone l'obbligo del preventivo versamento delle spese dell'intera procedura, e ne fa una condizione per l'ulteriore corso della domanda: e, così, attribuisce al debitore insolvente una disponibilità economica che talvolta é considerevole, come nel caso in cui si tratti di cessione di beni di entità rilevante.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 170 dell'8 luglio 1967.

Dinanzi a questa Corte non vi é stata costituzione di alcuna delle parti del giudizio ordinario. Invece, con atto depositato in data 16 giugno 1967, é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale chiede che la questione sia dichiarata non fondata.

Deduce l'Avvocatura che il concordato preventivo, nelle due forme previste dall'art. 160 della legge fallimentare, costituisce un mezzo consentito all'imprenditore commerciale in stato di insolvenza per evitare il fallimento; e, secondo la prevalente dottrina, consiste in un contratto riconducibile alla figura generale della transazione, "accompagnata da una promessa di garanzia a favore dei creditori". Sebbene esso si perfezioni con l'omologazione del tribunale, la relativa sentenza é "estrinseca al concordato", di cui costituisce una semplice condizione di efficacia. Stante tale natura di negozio a contenuto transattivo, la relativa procedura non rivestirebbe il carattere e la funzione di un'azione a protezione giurisdizionale di diritti soggettivi.

Ad avviso dell'Avvocatura, farebbe parte del contenuto della proposta del debitore in istato di insolvenza l'offerta di garanzie idonee, per quanto riguarda il pagamento, sia della percentuale dei debiti, sia delle spese dell'intero negozio, che dovrebbero essere sopportate dalla massa attiva, anche per quanto riguarda i tributi attinenti al concordato, i quali rischierebbero altrimenti di rimanere a carico dei creditori, senza possibilità di recupero nei confronti del debitore insolvente.

Con successiva memoria depositata il 24 ottobre 1968, l'Avvocatura generale dello Stato, insistendo nelle sue conclusioni, sottolinea la mancanza di una qualsiasi analogia fra l'istituto del solve et repete e l'onere previsto dalla norma denunziata. Nel ribadire che tale onere non costituirebbe una condizione per l'esperimento di un'azione giudiziaria intesa alla protezione di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo, ma riguarderebbe esclusivamente il negozio del concordato, rispetto al quale l'intero procedimento di omologazione sarebbe estrinseco, l'Avvocatura afferma che, nell'ambito dei rapporti tra il negozio e tale procedimento, posto come condizione legale della sua efficacia, l'onere suddetto apparirebbe pienamente giustificato dalla particolare struttura del negozio stesso. E ciò in quanto il debitore, nell'incapacità di pagare integralmente i suoi debiti, farebbe una proposta di carattere transattivo, che dovrebbe, però, essere confortata da concrete garanzie, tra le quali, appunto, é da collocarsi il versamento anticipato di spese e tributi.

L'obbligo di depositare preventivamente la somma relativa sarebbe più che giustificato dal fatto che trattasi di somma incontestabilmente dovuta dal debitore, in quanto questi, con sua proposta di concordato, intesa ad ottenere il beneficio del pagamento parziale dei suoi debiti, riconosce la sua situazione debitoria. Sotto questo profilo l'Avvocatura deduce che, pur se fosse possibile considerare l'intero iter del concordato preventivo quale un istituto unitario di carattere processuale, la concessione del beneficio sarebbe sempre da ritenere condizionata alla prova concreta, data dal debitore, di essere in rado di pagare sia i creditori sia le spese concernenti la procedura.

2. - Una questione analoga di legittimità costituzionale del citato art. 163, primo comma, n. 4, della legge fallimentare, oltre che del secondo comma dello stesso articolo, relativo all'ipotesi di non eseguito deposito della somma, é stata sollevata dal tribunale di Cagliari, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24 della Costituzione, nella procedura di concordato preventivo, aperta, nei confronti della società per azioni Sardespa-manifattura di Venafiorita, con decreto del 28 novembre 1967.

Con tale decreto, veniva, fra l'altro, fissata in lire 50 milioni, la somma che si presumeva necessaria per l'intera procedura.

In data 11 dicembre 1967, la società proponeva la suddetta questione di legittimità costituzionale, che veniva, poi, ampiamente illustrata con successiva memoria e, subordinatamente, per l'ipotesi di mancato accoglimento, chiedeva, ai sensi dell'art. 167 della citata legge fallimentare, di essere autorizzata a contrarre un mutuo o a vendere merci fino alla concorrenza di 40 milioni per reperire la somma necessaria ad eseguire il prescritto deposito. E, frattanto, versava il giorno successivo lire 10 milioni, in parziale esecuzione del decreto di ammissione alla procedura.

Con ordinanza del 13 gennaio 1968, il tribunale, al quale il commissario giudiziale aveva chiesto i provvedimenti conseguenziali al mancato deposito nei termini dell'intera somma, riteneva pregiudiziale l'esame della proposta questione di legittimità costituzionale, in ordine alla quale osservava che la precedente rimessione della stessa questione a questa Corte da parte del tribunale di Cassino influiva negativamente sul potere di altri giudici di dichiarare la non manifesta infondatezza.

Nel merito deduceva, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, che il fatto stesso di imporre il deposito di una somma, quale condizione per l'esperimento di una procedura, sembrerebbe contrastare con il principio di eguaglianza, dato che, in tal modo, il beneficio del concordato preventivo viene concesso solo a chi ha disponibilità di danaro liquido e negato ingiustificatamente a chi difetta di liquidità all'inizio della procedura. Sotto il profilo della violazione dell'art. 24 della Costituzione, il tribunale osservava poi che il "deposito", prescritto sotto comminatoria della dichiarazione di fallimento, sarebbe un onere di carattere meramente processuale, non sorretto da adeguata giustificazione, sia perché non previsto tra le condizioni di ammissione alla procedura, sia perché in contrasto con il fine dell'istituto del concordato preventivo, che mira a salvare, più che il debitore, l'impresa nell'interesse della comunità.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 9 marzo 1968.

Nel giudizio dinanzi a questa Corte si é costituita la società con deduzioni depositate il 28 febbraio 1968, nelle quali si chiede che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme denunziate. Dopo ampi riferimenti dottrinali sull'ammissibilità della questione, in relazione anche all'affermata natura giudiziale della procedura di concordato preventivo, nonché sulla funzione economica e giuridica del prescritto deposito della somma per le spese dell'intero giudizio, la difesa della società richiama, fra l'altro, le precedenti decisioni nelle quali questa Corte ha ritenuto violato il precetto dell'art. 24 della Costituzione, e, quanto alla violazione del principio di eguaglianza, fa presente la disparità di trattamento cui dà luogo, in ordine alla disponibilità della somma occorrente per il prescritto deposito, la situazione dell'impresa finanziaria, caratterizzata dalla mobilità di investimenti, rispetto a quella dell'imprenditore esercente un'attività industriale, che presuppone, invece, fortissimi immobilizzi tecnici, caratterizzati dal difetto di mobilità.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due cause sono strettamente connesse e vengono riunite per essere decise con unica sentenza.

2. - Sono state denunziate a questa Corte le norme contenute nell'art. 163, primo comma, n. 4, e secondo comma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare). Con la prima si pone, a carico dell'imprenditore insolvente ammesso alla procedura del concordato preventivo, l'onere di depositare, nella cancelleria del tribunale, nel termine non superiore ad otto giorni, la somma che si presume necessaria per l'intera procedura, nella misura stabilita dallo stesso provvedimento di ammissione al beneficio del concordato preventivo; con l'altra, si statuisce che, nel caso di mancato versamento del deposito, il tribunale, in applicazione del secondo comma del precedente art. 162 della stessa legge, dichiari d'ufficio il fallimento del debitore. Se ne deduce l'illegittimità costituzionale per violazione sia del principio di eguaglianza, sia della garanzia del diritto di difesa, assumendosi, circa la prima violazione, che, a motivo dell'onere anzidetto - in quanto comprensivo dall'anticipazione delle spese del tributo per la registrazione del concordato - il beneficio verrebbe in pratica concesso solo a chi abbia disponibilità di denaro liquido; e, circa la seconda, che tratterebbesi di un adempimento processuale, contrastante con le finalità precipue del concordato, e tale da compromettere la tutela giurisdizionale.

3. - É da osservare, in via preliminare, che ogni questione che possa insorgere sulla congruità della somma occorrente per le spese della procedura del concordato e sulla inclusione, in essa, dell'approssimativo importo del tributo di registro, va risolta dal giudice di merito, implicando un mero calcolo e, rispettivamente, la interpretazione della portata della somma, irrilevante sul piano della legittimità costituzionale.

Ciò premesso, é da tenere presente che la disciplina dettata dalle disposizioni denunziate é del tutto diversa da quelle esaminate in precedenti sentenze di questa Corte.

Nel caso del solve et repete, infatti, la somma da pagare anticipatamente riguardava la stessa obbligazione controversa nel giudizio, di cui costituiva l'oggetto, sicché ne derivava una posizione di privilegio per una delle parti in causa, oltreché una posizione di svantaggio per i soggetti meno abbienti.

La cautio pro expensis (art. 98 del Cod. di proc. civ.), poi, concerneva il pagamento di somme a garanzia dell'esito del giudizio, determinando in tal modo, anch'essa, una posizione di sfavore alla parte non abbiente rispetto a quella abbiente.

Del tutto diversa e, anzi, addirittura antitetica é l'ipotesi considerata dalle norme denunziate, le quali si conformano al criterio generale dell'anticipazione delle spese degli atti necessari al processo, onde renderne possibile lo svolgimento (art. 90 Cod. proc. civ., artt. 38-42 Dispos. att. Cod. proc. civ.).

Tale onere, in applicazione del richiamato principio generale, é posto, qui, a carico dell'imprenditore istante, cioè di chi, con la sua domanda di ammissione al concordato preventivo, ha dato, appunto, inizio alla procedura.

D'altronde, vertendosi in materia di giurisdizione non contenziosa, dalla quale esula la soccombenza, le spese della procedura gravano su chi l'ha instaurata. Senza la loro anticipazione non potrebbero essere svolti gli atti necessari al procedimento; e, al termine di questo, non sempre se ne otterrebbe il pagamento dall'imprenditore istante, dato il suo stato di insolvenza.

Le varie procedure concorsuali non sono stabilite nell'interesse del dissestato, che é, in sostanza, un inadempiente, bensì, primieramente, nell'interesse dei creditori. Per soddisfare tale interesse, occorre che le spese - che, una volta dichiarato il fallimento, gravano sulla massa - siano anticipate. Se non lo fossero, i creditori che hanno già subito una falcidia, potrebbero essere, essi, tenuti al pagamento di somme solidalmente dovute.

Anche a voler considerare l'ottemperanza al disposto dell'art. 163, primo comma, n. 4, della citata legge fallimentare come una condizione di procedibilità, non sorge, per tale istituto - presente in varie branche del nostro ordinamento giuridico - un problema generale ed indiscriminato di incostituzionalità. Né varrebbe il rilievo che la conseguenza del mancato deposito, prevista dall'art. 162, secondo comma, e richiamata dall'art. 163, secondo comma - cioè la dichiarazione di fallimento - é assai diversa e più grave di quella del mancato deposito previsto dal citato art. 90 Cod. proc. civ., perché, nella procedura in esame, sussistono ragioni di particolare urgenza e momento, che ottengono, da un lato, alla tutela dei creditori, già sacrificati a motivo del soddisfacimento soltanto parziale delle loro spettanze, dall'altro, alla crisi di impresa ed al conseguente turbamento economico che, di regola, fa seguito alla situazione di insolvenza: é logico che il beneficio accordato al commerciante dissestato di conseguire il concordato preventivo sia sottoposto a un regime assai rigoroso.

Stante la diversa disciplina delle aziende esercenti il credito, contenuta nel R.D.L. 8 febbraio 1924, n. 136, va, poi, esclusa la violazione del principio di eguaglianza, prospettata con riferimento a tale categoria di imprese, in quanto tale principio deve ritenersi - ed é stato ritenuto da questa Corte - rispettato ogni qualvolta la legge disciplini adeguatamente, in modo diverso, situazioni diverse.

É da escludersi, infine, la violazione del diritto sancito dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dappoiché resta fermo l'ingresso alla difesa giudiziaria, che é sempre ammessa quando sia in corso una procedura dinanzi al giudice.

La questione deve essere, pertanto, dichiarata infondata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 163, primo comma, n. 4, e secondo comma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 gennaio 1969.

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -   Costantino MORTATI  -   Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE

 

Depositata in cancelleria il 24 gennaio 1969.