SENTENZA N. 102
ANNO 1968
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Aldo SANDULLI, Presidente
Dott. Antonio MANCA
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 12 ottobre 1964, n. 1081, concernente l'istituzione dell'albo dei consulenti del lavoro, promosso con ordinanza emessa l'8 novembre 1966 dal pretore di Vittorio Veneto nel procedimento penale a carico di Manzoni Michele Carlo, iscritta al n. 235 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica dell'11 giugno 1968 la relazione del Giudice Giovanni Battista Benedetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza 8 novembre 1966 emessa nel corso del procedimento penale instaurato a carico di Manzoni Michele Carlo, imputato della contravvenzione prevista e punita dagli artt. 4 e 7 della legge 23 novembre 1939, n. 1815, per avere esercitato, senza essere munito della prescritta autorizzazione, l'attività di tenuta e regolarizzazione dei documenti di lavoro, il pretore di Vittorio Veneto ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 12 ottobre 1964, n. 1081, concernente l'"Istituzione dell'albo dei consulenti del lavoro" in riferimento agli artt. 4 e 3 della Costituzione.
Osserva il pretore che la norma impugnata, ai sensi della quale la tenuta e la regolarizzazione dei documenti dell'azienda riguardanti materia di lavoro, previdenza ed assistenza, che non sia curata dal datore di lavoro direttamente o a mezzo di propri dipendenti, non può essere assunta se non dai professionisti di cui all'art. 5 della legge n. 1815 del 1939 (avvocati, procuratori, commercialisti e ragionieri) o dai consulenti del lavoro, pone dei limiti discriminatori alla libertà di lavoro e al principio di eguaglianza sanciti dalla Costituzione, non consentendo l'esercizio dell'attività in questione a coloro che si trovano al di fuori dell'alternativa prevista dalla norma.
La legge subordina l'esercizio dell'attività di consulenza del lavoro da parte degli operatori estranei all'organizzazione dell'azienda al possesso di particolari requisiti di capacità che non sono affatto prescritti per il datore di lavoro e i suoi dipendenti i quali, nell'ambito dell'azienda, svolgono attività di tenuta e regolarizzazione dei documenti riguardanti materia di lavoro. L'identità della materia oggetto dell'attività lavorativa non può creare, secondo l'ordinanza, situazione di diversità sostanziale per la circostanza che detta attività si svolga nell'ambito dell'impresa o al di fuori di essa. Il dettato normativo appalesa la sua assurdità sol che si pensi al fatto di una stessa persona che per tutta una vita abbia svolto l'attività di cui trattasi nell'interno dell'azienda e che, tutto ad un tratto, diventi inidonea allo svolgimento della medesima attività (é passibile di sanzione penale perché privo della prescritta autorizzazione) per il sol fatto di esercitarla non alle dipendenze di un qualunque datore di lavoro.
Nega, infine, il pretore che la contemplata attività richieda una specifica preparazione e competenza tant'é che nessun accertamento viene operato in ordine alla sussistenza di tali requisiti in colui che si trovi in rapporto di dipendenza con il datore di lavoro (e del resto la giurisprudenza ha affermato che le mansioni in questione non fanno competere all'impiegato una qualifica diversa da quella di impiegato d'ordine).
L'ordinanza, ritualmente comunicata e notificata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967.
Nel giudizio dinanzi alla Corte la parte privata non si é costituita. Ha spiegato, invece, intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato in cancelleria il 7 febbraio 1967.
Nell'atto di intervento l'Avvocatura contesta che la norma impugnata sia in contrasto con l'art. 4 della Costituzione, affermando che la disciplina della professione di consulente del lavoro, posta dalla legge, trova giustificazione nell'attinenza di tale attività con l'interesse pubblico a che l'ordinamento giuridico del lavoro e la tutela dei lavoratori vengano garantiti. Questo pubblico interesse, costituzionalmente protetto, giustifica i limiti posti dal legislatore all'esercizio dell'attività di consulenza.
Infondato, secondo l'Avvocatura, é il rilievo che per l'esercizio dell'attività di consulente del lavoro non sia necessaria una specifica capacità, dato che la nostra legislazione sociale, attuata con l'emanazione di numerosissime disposizioni non sempre tra loro coordinate, ha reso estremamente complessa l'amministrazione del personale. E le imprese che, per ragione di costi, non vi provvedono direttamente si avvalgono da tempo di persone che autonomamente e professionalmente sono dedite all'amministrazione del personale di più imprese.
Afferma, infine, l'Avvocatura che ancor più evidente appare l'inesistenza del contrasto tra la norma impugnata e l'art. 3 della Costituzione. Il motivo per cui la legge non richiede una particolare capacità per le persone che provvedono alla tenuta e regolarizzazione dei documenti di lavoro all'interno dell'impresa dipende dal fatto che detta attività costituisce parte integrante della gestione dell'impresa, si ché ogni apprezzamento circa l'idoneità delle persone proposte non può che essere rimessa al suo titolare il quale, peraltro, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato può esercitare un controllo ben più continuo ed efficiente di quello esercitabile nel quadro di un rapporto di lavoro autonomo.
Conclude, quindi, l'Avvocatura chiedendo che la Corte voglia dichiarare non fondata la proposta questione.
Considerato in diritto
1. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 12 ottobre 1964, n. 1081, concernente l'"Istituzione dell'albo dei consulenti del lavoro", sollevata con l'ordinanza indicata in epigrafe, non é fondata.
2. - Lamenta in primo luogo il pretore che la norma impugnata avrebbe posto limiti discriminatori alla libertà di lavoro sancita dall'art. 4 della Costituzione, perché, riservando l'esercizio dell'attività di tenuta e regolarizzazione dei documenti di lavoro, non curata dal datore di lavoro, direttamente o a mezzo di propri dipendenti, a determinati professionisti - avvocati, procuratori, commercialisti e ragionieri - ed ai consulenti del lavoro, muniti della prescritta autorizzazione ed iscritti nell'apposito albo di categoria, avrebbe precluso l'esercizio della medesima attività a coloro che si trovano al di fuori dell'alternativa prevista dalla norma. Tale censura si basa su una inesatta concezione del diritto al lavoro sancito dal richiamato precetto costituzionale, la cui portata é stata ripetutamente chiarita da questa Corte. Dal riconoscimento al cittadino del diritto al lavoro e della libertà di scegliere un'attività lavorativa discende per lo Stato il dovere di non porre norme che tale diritto escludano o tale libertà direttamente o indirettamente rinneghino, ma non consegue l'impossibilità, per il legislatore ordinario, di dettare disposizioni che specifichino limiti e condizioni inerenti all'esercizio del diritto o che attribuiscano all'autorità amministrativa poteri di controllo a tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali ugualmente fatti oggetto di protezione costituzionale.
Ora l'esame della norma censurata, nonché della legge della quale fa parte, portano ad escludere che il diritto del cittadino di svolgere l'attività di consulente del lavoro sia stato dal legislatore notevolmente ristretto. La legge ha inteso semplicemente disciplinare l'attività in questione subordinandone l'esercizio al rilascio di un'autorizzazione e alla conseguente iscrizione nell'albo di categoria, che possono ottenere indistintamente tutti coloro che siano in possesso dei requisiti indicati dall'art. 3, e cioè siano cittadini italiani, abbiano compiuto il ventunesimo anno di età, abbiano tenuto buona condotta morale e civile, abbiano conseguito il diploma di istituto di istruzione secondaria di 2 grado e superato una prova teorico-pratica di idoneità sostenuta presso il competente Ispettorato del lavoro avanti una apposita commissione.
Le ragioni di tale disciplina normativa sono evidenti. Nella moderna società la legislazione sociale e del lavoro é in continuo sviluppo ed evoluzione ed i copiosi adempimenti da essa derivanti in ordine al trattamento economico e normativo, assistenziale e previdenziale dei lavoratori subordinati hanno dato origine alla nuova attività di consulenza. Di essa si avvalgono moltissime imprese, specie di modeste dimensioni, che non hanno la possibilità o non ravvisano la convenienza di istituire appositi uffici per l'esecuzione dei numerosi e complessi adempimenti imposti dalla legislazione del lavoro per il perseguimento più efficace ed immediato della tutela della classe lavoratrice. L'importanza e la delicatezza dei compiti assunti da tali consulenti, il fenomeno della rapida estensione di tale categoria e l'elevato numero delle aziende assistite hanno pertanto indotto il legislatore a regolamentare l'attività in questione in un primo tempo con la legge 23 novembre 1939, n. 1815, e relativo regolamento di cui al D.P.R. 26 agosto 1959, n. 921, e da ultimo con la legge 12 ottobre 1964, n. 1081, ora in esame. L'aver, quindi, nel contesto di tale disciplina stabilito che l'esercizio dell'attività di consulenza é condizionato al possesso degli indicati requisiti, ed in particolare a quelli di moralità e capacità, non può considerarsi ingiustificata limitazione del diritto al lavoro garantito dalla Costituzione, per il rilievo che l'attività dei consulenti ha per il pubblico interesse a che le leggi concernenti la materia del lavoro, della previdenza e assistenza, siano rettamente applicate.
3. - Priva di fondatezza é altresì la denunciata violazione dell'art. 3 della Costituzione in ordine alla quale si deduce che la norma impugnata avrebbe dato origine ad ingiuste sperequazioni di trattamento non esigendo - diversamente da quanto stabilito per i consulenti del lavoro - alcun controllo preventivo da parte dell'Amministrazione, inteso ad accertare la sussistenza del requisito della capacità per i datori di lavoro e loro dipendenti.
L'obbligo costituzionale di disciplinare uniformemente una determinata materia sussiste quando le situazioni siano identiche e non può per contro disconoscersi al legislatore la possibilità di emanare norme differenziate per regolare situazioni diverse.
Ora é evidente che non sussiste identità di situazione tra l'attività svolta dal datore di lavoro direttamente o a mezzo dei propri dipendenti e l'attività di consulenza svolta da esperti non legati da rapporti d'impiego con l'azienda. Per il datore di lavoro l'art. 1 della legge si limita a riaffermare la facoltà di curare, direttamente o tramite propri impiegati, la tenuta e regolarizzazione dei documenti dell'azienda riguardanti materia di lavoro. E ciò in quanto l'attività di cui trattasi é attività essenziale per l'azienda e innegabilmente rientra tra i doveri dell'imprenditore, posto che la stessa legge (art. 7) pone a di lui carico la responsabilità di eventuali trasgressioni agli obblighi imposti dalla legislazione in materia di lavoro, previdenza o assistenza. Profonda e sostanziale differenza quindi tra il datore di lavoro che cura i propri interessi in seno all'impresa e consulenti che, estranei all'impresa, curano interessi altrui.
Per i dipendenti dell'imprenditore é inoltre da osservare che non sono presi in considerazione dal legislatore a titolo personale, così come la loro attività non é autonomamente considerata. Essi infatti vengono in rilievo solo nella qualità di persone vincolate all'azienda da rapporti di subordinazione, delle quali l'imprenditore si avvale per gli adempimenti prescritti dalle leggi in materia di lavoro. Pertanto l'apprezzamento della loro capacità non può non essere rimesso all'imprenditore medesimo al quale risale la responsabilità del loro operato.
Diverso é il caso del dipendente, che, cessato il rapporto d'impiego che lo legava all'azienda, intenda continuare a svolgere la medesima attività di consulenza del lavoro a titolo di autonoma attività. In tal caso evidente é la necessità dell'autorizzazione e dell'iscrizione all'albo perché si ricade in quella differente situazione di esercizio di consulenza da parte di esperti estranei all'organizzazione dell'azienda che il legislatore ha diversamente disciplinato.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, in riferimento agli artt. 4 e 3 della Costituzione, la questione proposta con l'ordinanza 8 novembre 1966 del pretore di Vittorio Veneto relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 12 ottobre 1964, n. 1081, recante "Istituzione dell'albo dei consulenti del lavoro".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1968.
Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI
Depositata in cancelleria il 16 luglio 1968.