Sentenza n. 38 del 1968
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SENTENZA N. 38

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 48, secondo comma, del testo unico per la finanza locale, approvato con R.D. 14 settembre 1931, n. 1175, modificato dall'art. 1, lett. h, del D.L. 25 febbraio 1939, n.. 338, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 23 marzo 1966 dal Tribunale di Lucera nel procedimento civile vertente tra la società cooperativa Daunia Latte e la società a.r.l. Guglielmo Nicolai, iscritta al n. 128 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 213 del 27 agosto 1966;

2) ordinanza emessa il 10 ottobre 1966 dalla Corte di cassazione - sezione I civile - nel procedimento civile vertente tra l'Ufficio delle imposte di consumo di Grottolella e l'Amministrazione provinciale di Avellino, iscritta al n. 237 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione dell'Ufficio delle imposte di consumo di Grottolella;

udita nell'udienza pubblica del 21 marzo 1968 la relazione del Giudice Enzo Capalozza;

uditi l'avv. Carlo Jossa, per l'Ufficio delle imposte di consumo di Grottolella, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

La società cooperativa Daunia Latte di Foggia inoltrò ricorso al Commissario prefettizio del Comune di Lucera e, in secondo grado, al Prefetto di Foggia contro un verbale di accertamento e di liquidazione dell'imposta di consumo sui materiali da essa impiegati nella costruzione di un fabbricato, deducendo che, trattandosi di un opificio industriale, aveva diritto all'esenzione dall'imposta. In data 18 ottobre 1964, ricorreva, per gli stessi motivi, al Ministro per le finanze.

In pendenza di quest'ultimo grado del procedimento amministrativo, la S.r.l. Guglielmo Nicolai, appaltatrice delle imposte di consumo del Comune di Lucera, reclamava dalla cooperativa il pagamento del tributo, notificandole un'ingiunzione fiscale. Avverso questa, l'interessata con atto di citazione notificato il 23 febbraio 1965, proponeva opposizione dinanzi al Tribunale di Lucera e chiedeva, altresì, la sospensione del pagamento. Resisteva la società appaltatrice sia sul punto di merito, sia sul punto della sospensione per cui negava, allo stato, la competenza dell'autorità giudiziaria.

Nel corso del giudizio, l'opponente sollevava, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 1, lett. b, del D.L. 25 febbraio 1939, n. 338, ed aggiunta, da tale D.L., come secondo comma dell'art. 48 del testo unico per la finanza locale, approvato con R.D. 14 settembre 1931, n. 1175. Secondo la citata disposizione, l'Amministrazione non può essere condannata al rimborso delle spese di lite, neanche nel caso di soccombenza, se non siano stati prima esauriti tutti i gravami amministrativi previsti dal successivo art. 90.

Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale di Lucera, con ordinanza del 23 marzo 1966, rimetteva a questa Corte la suindicata questione, osservando, quanto alla sua non manifesta infondatezza, che il diritto alla ripetizione delle spese nei confronti della parte soccombente, regolato in via di principio dall'art. 91, primo comma, del Codice di procedura civile, costituisce un diritto soggettivo che é leso dalla norma denunziata, la quale può anche stimolare la Pubblica Amministrazione ad emettere ingiunzioni infondate.

Nel confutare gli argomenti addotti dalla società opposta, al fine di sostenere la non fondatezza della questione, afferma il Tribunale che il principio dell'autotutela é inammissibile nello stato di diritto, almeno sotto il profilo della denunziata norma, e non può concretarsi nella violazione di diritti, come quelli alla ripetizione delle spese nei confronti della parte soccombente, che competono indiscriminatamente ad ogni cittadino; che, infine, le analoghe disposizioni della legislazione finanziaria statuenti un pari privilegio per la Pubblica Amministrazione non giustificano la violazione della Costituzione, ma potranno formare anch'esse, a tempo debito, oggetto di denunzia a questa Corte per la dichiarazione della loro incostituzionalità.

In questa sede, si é costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che, con deduzioni depositate il 6 luglio 1966, conclude chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Deduce l'Avvocatura generale che la norma denunziata, pur derogando alla norma generale stabilita nel Codice di procedura civile circa la condanna alle spese, é a sua volta espressione di un principio generale adottato per tutti i tributi per i quali siano previsti ricorsi o reclami in via amministrativa, ed ha lo scopo di dare all'Amministrazione la possibilità di riesaminare il suo operato, senza spesa per la stessa Amministrazione e per il contribuente. A questi é infatti data facoltà di scelta fra la via amministrativa e quella giudiziaria, la quale ultima implicherebbe una consapevole rinunzia al rimborso delle spese di giustizia in caso di vittoria.

Ciò posto, si contesta che alla Pubblica Amministrazione sia data una posizione di privilegio rispetto al cittadino, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. La norma risponderebbe, invece, ad un interesse pubblico, qual é quello di evitare che sia invocata la tutela giurisdizionale con i conseguenti oneri di spese, quando la pretesa possa essere pienamente soddisfatta da un provvedimento della stessa Pubblica Amministrazione; e corrisponderebbe, altresì, ad obiettive ragioni di giustizia, perché lascia l'onere a carico di chi abbia costretto l'Amministrazione a sopportare spese di giustizia altrimenti evitabili. Poiché si tratta di spese che non scaturiscono da situazioni indipendenti dalla volontà del cittadino, non vi sarebbe l'asserita lesione al patrimonio privato; trattandosi, poi, di un onere in dipendenza di situazioni e di esigenze di natura oggettiva, non sussisterebbe la lesione del principio di parità di trattamento che, peraltro, segna un limite invalicabile per il legislatore ordinario solo quando concerne le posizioni giuridiche del cittadini, ma non può riguardare la Pubblica Amministrazione.

Si deduce ancora dall'Avvocatura generale che il principio di eguaglianza non esclude che il legislatore possa, con specifiche e concrete norme, regolare speciali situazioni giuridiche, qual é quella in esame.

Si contestano infine le affermazioni contenute nell'ordinanza sul pericolo che la Pubblica Amministrazione, non temendo una sua eventuale condanna alle spese nel caso di soccombenza, possa essere indotta ad emettere ingiunzioni infondate, e, in via generale, si esclude che il principio dell'"autotutela" sia in contrasto con i principi dello stato di diritto. Al riguardo rispettivamente si deduce che l'esenzione dalle spese non può aver luogo quando il privato abbia sperimentato i rimedi amministrativi previsti dalla legge, e che pretendere che la Pubblica Amministrazione, pur quando agisce nell'esercizio delle sue funzioni, si ponga su un piano di assoluta parità col privato, significa prescindere totalmente dalla struttura e dalle funzioni della Pubblica Amministrazione e anche dello Stato nel suo complesso.

L'Avvocatura generale conclude che la norma denunziata non contrasta con l'art. 3 della Costituzione, ma se mai con un'altra norma ordinaria, qual é l'art. 91 del Codice di procedura civile sulla condanna alle spese nel caso di soccombenza, senza alcun rilievo sul piano della legittimità costituzionale.

La medesima questione di legittimità costituzionale della norma sopra riportata, anch'essa in riferimento all'art. 3 della Costituzione, é stata sollevata con ordinanza del 10 ottobre 1966 della Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra l'Ufficio delle imposte di consumo di Grottolella, gestito dall'I.N.G.I.C., e l'Amministrazione provinciale di Avellino, per un'ingiunzione di pagamento dell'imposta di consumo sui materiali impiegati nella costruzione di una strada provinciale. L'ingiunzione, notificata il 5 ottobre 1960, era stata preceduta da un avviso di accertamento di valore, avverso il quale l'Amministrazione provinciale di Avellino aveva inoltrato, con esito negativo, ricorso al sindaco.

L'opposizione giudiziale all'ingiunzione, avanzata anche sotto il profilo della prescrizione del diritto, era stata poi respinta in primo grado ed accolta in sede di gravame. Ricorreva per cassazione l'Ufficio delle imposte di consumo; e l'Amministrazione provinciale di Avellino, nel resistere al ricorso, chiedeva che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale. La Corte di cassazione, nel ritenere non manifestamente infondata la questione, osserva essere attendibile che la norma denunziata alteri l'equilibrio fra gli interessi delle parti e istituisca una sperequazione arbitraria nei confronti del contribuente. Si afferma nell'ordinanza che l'opposizione al decreto ingiuntivo non consente dilazioni, data la brevità del termini perentori, e che, pertanto, dinanzi alle pretese, anche se infondate, dell'Ufficio delle imposte di consumo, che molto spesso é gestito da un appaltatore, il contribuente, se non vuole perdere il diritto al rimborso delle spese giudiziali, é costretto a proporre contemporaneamente, con un onere non lieve, sia l'opposizione al decreto ingiuntivo sia i gravami amministrativi.

Secondo la Cassazione, la norma denunciata non può neppure trovare giustificazione nell'esigenza di evitare all'Amministrazione di dover subire l'onere delle spese senza essere stata prima posta in grado di rivedere direttamente il suo operato, giacché, a tal fine, sarebbe sufficiente l'atto di opposizione al decreto ingiuntivo. L'accennata sperequazione tra contribuente ed Ufficio delle imposte di consumo contrasterebbe, pertanto, con il precetto costituzionale che vieta al legislatore di dare un diverso trattamento normativo a situazioni obiettivamente eguali.

Nel giudizio in questa sede si é costituito l'Ufficio delle imposte di consumo di Grottolella, il quale insiste sull'interesse pubblico che giustifica la norma denunziata, sull'implicita rinunzia al rimborso delle spese da parte del contribuente che preferisca alla via amministrativa - intesa come sede naturale di impugnazione dell'atto amministrativo - quella giudiziaria, e precisa, infine, a rettifica di quanto é affermato nell'ordinanza, che non é fissato alcun termine perentorio per impugnare l'ingiunzione fiscale davanti all'autorità giudiziaria.

All'udienza del 21 marzo 1968 le parti costituite hanno insistito nelle loro tesi e conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due cause, riguardando la stessa questione, possono essere riunite e decise con unica sentenza.

2. - Nel vigente sistema di riscossione coattiva dell'imposta di consumo, non si richiede l'osservanza di un termine perentorio per proporre l'opposizione in via giudiziaria contro l'ingiunzione fiscale.

Avverso l'ingiunzione per il pagamento del tributo, il contribuente può, dunque, senza alcun termine, proporre l'opposizione in via giudiziaria, ovvero inoltrare, nei termini stabiliti, ricorso all'autorità amministrativa, quando non lo abbia già proposto in precedenza avverso l'accertamento del quale abbia avuto notizia.

L'art. 48 del T.U. per la finanza locale fa, però, divieto al giudice, che accolga l'opposizione, di condannare alle spese di lite l'amministrazione comunale o l'appaltatore, quando il contribuente non abbia esaurito la procedura amministrativa.

L'ordinanza di rimessione denuncia quest'ultima norma per violazione del principio di eguaglianza, in quanto collocherebbe il soggetto creditore del tributo in una posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri titolari di diritti di credito, e in genere agli altri cittadini, convenuti in giudizio.

Deduce in contrario l'Avvocatura generale dello Stato che la suddetta disposizione, pur derogando alla norma del Codice di procedura civile sulle spese giudiziali (art. 91), risponderebbe ad un principio di ragione, accolto anche per le imposte indirette statali e inteso a soddisfare l'interesse pubblico di dare all'Amministrazione la possibilità di rivedere il suo operato attraverso i propri organi, prima di esser chiamata in giudizio, col vantaggio, inoltre, per il contribuente, di non dover sostenere alcuna spesa per far valere le sue ragioni nella sede amministrativa.

In proposito, va osservato, in primo luogo, che la norma denunciata non s'informa ad un principio vigente anche per i tributi erTimes New Romani. Per questi, infatti, le singole leggi (art. 148 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, sull'imposta di registro; art. 96 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, sulle imposte di successione; art. 31 del D.P.R. 25 giugno 1953, n. 492, sull'imposta di bollo) richiedono semplicemente, perché l'Amministrazione possa esser condannata alle spese, che la domanda giudiziale sia proposta dopo il decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione del ricorso in via amministrativa. E, anche a tale riguardo, non é senza significato che al suddetto criterio, molto meno rigoroso di quello cui s'ispira la norma denunziata, la giurisprudenza abbia apportato un temperamento, nel senso che neppure l'anticipata proposizione della domanda giudiziale impedisca la statuizione sulle spese di lite a carico dell'Amministrazione soccombente, se la causa sia portata in discussione dopo il suddetto termine, e sia fallito lo scopo cui la norma é preordinata, per non avere l'Amministrazione adottato, entro il termine stesso, una determinazione conforme a giustizia.

Ma ciò che appare decisivo é che nel caso in esame la esenzione del soggetto impositore della condanna alle spese del giudizio civile, quando non sia stata percorsa la via dei ricorsi amministrativi, si risolve in un trattamento di favore sproporzionato e privo di una ragionevole giustificazione. A consentire all'Amministrazione la possibilità di correggere nel proprio ambito gli errori verificatisi nell'imposizione, sarebbero sufficienti, infatti - come la legislazione testé ricordata, relativa ai tributi statali, conferma - disposizioni meno rigorose, nei confronti del contribuente, di quella impugnata.

É vero che con la sentenza n. 87 del 1962 questa Corte ha escluso che contrastino in via di principio con la Costituzione talune disposizioni che non consentono di adire l'autorità giudiziaria prima che sia stata percorsa la via dei reclami amministrativi; ma ben altra cosa é la comminazione, come nella specie, di una conseguenza che, in ultima analisi, viene ad assumere il carattere di una sanzione patrimoniale nei confronti di chi, pur avendo ragione, non abbia percorso la via dei ricorsi amministrativi.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 48 del testo unico per la finanza locale, approvato con R.D. 14 settembre 1931, n. 1175, secondo il testo risultante dall'art. 1, lett. b, del D.L. 25 febbraio 1939, n. 338.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1968.

 

 

Aldo SANDULLI - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI

 

 

Depositata in cancelleria il 26 aprile 1968.