Sentenza n. 32 del 1968
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SENTENZA N. 32

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo TRIMARCHI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 252 del testo unico delle leggi sulle imposte dirette, approvato con D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1966 dalla Corte d'appello di Milano nel procedimento penale a carico di Granata Angola e De Lorenzi Antonio, iscritta al n. 131 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 213 del 27 agosto 1966.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione del Ministero delle finanze;

udita nell'udienza pubblica dell'11 marzo 1968 la relazione del Giudice Luigi Oggioni;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministero delle finanze.

 

Ritenuto in fatto

 

Con la legge 7 gennaio 1929, n. 4, sulla repressione delle violazioni delle leggi finanziarie si stabiliva (art. 21, ultimo comma) che "per i reati previsti dalle leggi sui tributi diretti l'azione penale ha corso dopo che l'accertamento dell'imposta é divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti la materia". L'azione penale veniva, quindi, subordinata all'accertamento della violazione in sede fiscale.

Con la legge 5 gennaio 1956, n. 1, contenente norme integrative sulla perequazione tributaria, veniva stabilito (art. 35, ultimo comma) che la predetta disposizione della legge del 1929 non si applica nei casi in cui in sede di dichiarazione dei redditi non si sia provveduto alla rettifica di dati contabili omessi, mascherati o alterati o, in genere, si siano commessi fatti fraudolenti per sottrarre redditi alle imposte dirette. Con ciò, in deroga a quanto precedentemente stabilito, l'azione penale veniva invece svincolata dalla subordinazione all'accertamento in sede fiscale.

Con l'art. 63 della stessa legge n. 1 del 1956 il Governo veniva autorizzato ad emanare testi unici concernenti le diverse imposte dirette, le disposizioni generali, le norme sulle riscossioni, apportando, oltre alle modifiche utili per un miglior coordinamento, quelle necessarie per adattare le disposizioni alle esigenze di semplificazione nell'applicazione dei tributi, a quelle di una razionale organizzazione dei servizi e a quella di un perfezionamento delle norme concernenti l'attività dell'Amministrazione ai fini dell'accertamento dei redditi.

In conseguenza di questa delega é intervenuto il T.U. sulle imposte dirette 29 gennaio 1958, n. 645. Con l'art. 252 di questo T.U. si sono fissate le pene per i reati di frode fiscale ma non si é più riprodotta la norma che aveva svincolato la azione penale dalla subordinazione all'accertamento in sede fiscale, tornandosi, pertanto, alla subordinazione disposta dalla legge del 1929.

Con ordinanza emessa il 13 maggio 1966 nel procedimento penale a carico di Granata Angela e De Lorenzi Antonio, imputati del reato di frode fiscale continuata per false dichiarazioni rilevanti nella determinazione del redditi imponibili, la Corte d'appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 252 del T.U. con riferimento all'art. 76 della Costituzione concernente la delega al Governo per l'esercizio della funzione legislativa. Ciò in quanto l'ambito della delega parrebbe qui superato essendosi emanata una norma non di coordinamento ma innovatrice, rispetto al sistema vigente al momento della delega; ciò pel ritorno alla norma del 1929 che subordina l'azione penale all'accertamento fiscale.

Ciò posto, la Corte d'appello ritenuta rilevante la questione sollevata, ordinava la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per l'ulteriore corso.

L'ordinanza, notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio il 25 maggio 1966 e comunicata ai Presidenti del due rami del Parlamento, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 213 del 27 agosto 1966.

Avanti alla Corte costituzionale si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministero delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, entrambi rappresentati e difesi dalla Avvocatura generale dello Stato che ha depositato le proprie deduzioni, di identico tenore, il 16 settembre 1966.

L'Avvocatura osserva che, in un primo tempo, la deroga al principio della subordinazione dell'azione penale all'accertamento della violazione in sede fiscale, fu introdotta dalla legge n. 1 del 1956 allo scopo di svincolare l'azione penale dall'accertamento in sede fiscale, onde accentuare il rigore della sanzione penale arrivando alla punizione del reo indipendentemente dalla procedura amministrativa.

Questo intento, tuttavia, secondo l'Avvocatura, si palesava difficilmente raggiungibile attraverso la disposizione in esame, in vista della priorità che, in molti casi, l'accertamento del tributo diretto conservava, ai fini della verifica degli elementi costitutivi del reato di frode fiscale, in virtù dell'esclusione della competenza del giudice ordinario nell'accertamento del tributo diretto, sancita dall'art. 60 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (applicabile pur dopo l'emanazione dell'art. 35 della legge n. 1 del 1956, in mancanza della esplicita abrogazione richiesta dall'art. 1 della legge n. 4 del 1929). Per cui il giudice stesso non poteva che sospendere il processo a norma dell'art. 20 del Codice di procedura penale in attesa della definizione dell'accertamento del tributo.

D'altra parte, per effetto dell'art. 35, ultimo comma suddetto, si verificava altresì uno spostamento della data iniziale di decorrenza della prescrizione dal momento dell'accertamento definitivo del tributo al momento della commissione del reato, cioè in pratica, dato il lungo tempo normalmente richiesto dalla complessità del procedimento amministrativo, si rendeva difficoltoso l'esperimento dell'azione penale, e ciò in contrasto con gli scopi della norma.

Di qui sarebbe sorta, secondo l'Avvocatura, la necessità di coordinare l'art. 35 della legge n. 1 del 1956 con la contrastante disposizione dell'art. 60 della legge n. 4 del 1929, coordinamento che il legislatore delegato avrebbe ritenuto di attuare appunto mediante l'abrogazione dell'ultimo comma dell'art. 35 stesso, non ravvisando possibile giungere ad introdurre una deroga all'art. 60.

Con ciò non si sarebbe andati oltre i limiti della delega di cui all'art. 63 della legge n. 1 del 1956, limiti già riconosciuti dalla giurisprudenza di questa Corte come comprendenti anche la facoltà di modifiche utili al fine di un migliore coordinamento. Appunto entro tale ambito si sarebbe posto il legislatore delegato, in attuazione dei fini, espressamente dettati nella delega, di semplificazione nell'applicazione dei tributi e di perfezionamento dell'attività dell'amministrazione.

Né potrebbe ritenersi che il denunziato contrasto fra la norma impugnata e l'art. 35 ultimo comma della legge n. 1 del 1956 integri di per sé un eccesso di delega, perché il legislatore delegato era vincolato al rispetto dei principi sanciti nella legge delega. Ed i principi in materia di sanzioni penali, erano essenzialmente quelli intesi ad adattare il sistema punitivo alla migliore tutela contro le evasioni, mentre tale tutela per le ragioni anzidette non era fornita dalla legge del 1956 inadeguata e addirittura controproducente nell'intento per lo più inattuale, di svincolare l'azione penale dall'accertamento tributario.

L'Avvocatura conclude chiedendo dichiararsi infondata la questione sollevata con l'ordinanza sopra indicata.

 

Considerato in diritto

 

1. - É stato denunciato l'art. 252 del T.U. 29 gennaio 1958, n. 645 sulle imposte dirette, legge delegata, in relazione agli artt. 35 e 63 della legge di delegazione 11 gennaio 1956, n. 1, e in riferimento all'art. 76 della Costituzione: la norma ha soppresso l'ultimo comma dell'art. 35 con cui la stessa legge di delegazione, in deroga all'art. 21 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, consentiva che per certi reati fiscali l'azione avesse corso senza il preventivo accertamento dell'imposta. Nell'ordinanza di rinvio si sostiene che al legislatore delegato non s'era conferito il potere di derogare a precetti contenuti nella legge di delegazione e che pertanto la norma impugnata sarebbe sospetta di "eccesso di delega".

La questione é infondata.

Il Governo, nel compilare il titolo XI del testo unico delle imposte dirette, si é trovato dinanzi alcune norme, la cui coesistenza suscitava sfasature o inconvenienti e che dovevano esser coordinate nella prospettiva delle più ampie finalità da perseguire.

Innanzi tutto era in vigore l'art. 21 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, che per i reati previsti dalla legislazione sui tributi diretti dava corso all'azione penale solo dopo l'accertamento dell'imposta: con ciò impediva il decorso immediato della prescrizione ed evitava la possibilità di conflitto tra sentenza penale e accertamento, in altra sede, del rapporto tributario. Questo era il principio generale.

Ma ad esso l'art. 35, ultimo comma, della legge 1956 n.1, la stessa che delegava il Governo alla formazione del T.U., aveva apportato una deroga limitatamente ad alcuni reati, c.d. frodi fiscali, che si ritenevano perseguibili indipendentemente dall'accertamento dell'imposta: mancata rettifica di dati di bilancio o di documenti alterati, falsi o reticenti; dichiarazioni di passività immaginarie; altre frodi destinate a sottrarre redditi alle imposte dirette. Scopo della norma, nel quadro d'una disciplina tutta tesa a severità verso le evasioni, era quello di colpire rapidamente i responsabili: essa infatti consentiva al giudice penale di perseguire il reato senza attendere l'accertamento degli uffici amministrativi o del giudice civile. Ma la disposizione apparve ed era, da un lato, parzialmente contraddittoria rispetto al fine che l'aveva ispirata, e, dall'altro, praticamente inidonea, nella sua pienezza, a trovare larga applicazione.

Infatti consentiva il decorso immediato della prescrizione penale (piuttosto breve), col pericolo che questa, per lungaggini inerenti all'accertamento del rapporto tributario, maturasse avanti la sentenza di condanna (mentre l'art. 21 della legge 1929, n. 4, a cui s'era derogato, impediva alla prescrizione di decorrere prima di quell'accertamento): cosicché il mezzo scelto per perseguire immediatamente il colpevole rischiava spesso di mandarlo impunito. Nel contempo la disposizione rispettava sia l'art. 60 della legge 1929, n. 4, secondo cui il giudice penale sul terreno dell'imposizione diretta non era tenuto ad accertare in via definitiva il rapporto tributario, sia l'art. 20 del Codice di procedura penale, che anzi gli consentiva di sospendere il processo (e la prescrizione) per sottoporre ad altro giudice le questioni pregiudiziali relative a quel rapporto. In tali casi il risultato della decisione giudiziale finiva per essere simile a quello che intendeva raggiungere, con un diverso mezzo tecnico, proprio la norma (citato art. 21 legge 1929, n. 4) a cui s'era derogato: casi che dovevano prevedersi come assai frequenti perché, consistendo il reato ("frode fiscale") in fatti od omissioni "rilevanti per la determinazione del redditi imponibili", l'indagine sul reddito e sull'entrata dell'imposta era necessaria, anche per la graduazione della pena, e, di regola, non facile per un giudice penale.

2. - Il legislatore delegato poteva anche limitarsi a riunire le tre norme lasciandole intatte; ma con ciò non avrebbe aderito ai principi dominanti nell'intero sistema tributario e alle finalità della stessa legge di delegazione. Quei principi sottoponevano e s'oppongono ad eventuali conflitti tra pronunce penali e altre decisioni, tanto che, a parte l'art. 34 del R.D. 17 settembre 1931, n. 1608, obbligano il giudice penale a decidere anche la "controversia relativa al tributo" (art. 22 legge 1929, n. 4) e, per le imposte dirette, ad attendere la definizione amministrativa o civile del contrasto (art. 21 legge citata). Da essi l'art. 35, ultimo comma, della legge contenente la "delega" aveva deviato con un precetto eccezionale che trovava giustificazione solo al fine d'una esemplare severità verso gli evasori. Ma, accertato che di fatto questa giustificazione veniva meno perché l'immediato decorso della prescrizione poteva favorire, invece che colpire, l'evasore mentre l'efficacia del precetto era indebolita dal potere giudiziale di sospendere il processo (art. 20 del Codice di procedura penale), l'opportunità di sopprimerlo finiva per imporsi: in questo senso s'é detto che la sua conservazione avrebbe urtato alla lunga con la finalità della legge di cui esso era parte.

Non si nega che il legislatore delegato, nella soppressione di precetti della legge che contiene anche la norma delegante, debba procedere con particolare cautela; ma la Corte ha già osservato che tale soppressione può essere legittima se "si adagia su meccanismi meglio rispondenti" ai fini della legge delegante (sentenza n. 30 del 1961): ché tanto le norme preesistenti quanto le disposizioni facenti parte di quest'ultima, se non assurgono a principi o a limiti naturali della delega, si collocano su un unico piano ed hanno analogo vigore, divenendo perciò suscettibili, le une al pari delle altre, di correzioni o adattamenti; beninteso, se lo richiedono gli scopi da raggiungere con la legge delegata. Dato ciò, i rilievi esposti più sopra dimostrano che, con l'art. 252 del T.U., il Governo si é tenuto nei limiti del potere attribuitogli dal Parlamento, non essendo dubbio che la norma soppressa, eccezionale e di scarsa applicabilità, urtasse coi "principi contenuti nella legge 11 gennaio 1951, n. 25 e nella presente legge", cioè nella legge di delegazione n. 1 del 1956 (v. art. 63): principi che, confluendo in tali leggi anche quelli dell'antica normazione repressiva (legge 1929 n. 4), esigevano accanto alla sicurezza della repressione la non contraddittorietà fra i giudicati e che valevano bene il sacrificio di singoli precetti, dovunque essi si trovassero. Non a caso si era data al Governo una somma di poteri la cui ampiezza é stata colta in precedenti sentenze della Corte.

Il legislatore delegato, invece di inserire a fatica la norma eccezionale nelle altre, ha preferito sopprimerla ritenendo così di attuare quel "migliore" coordinamento di norme e principi che gli era stato espressamente richiesto (art. 63 legge 1956 n. l).

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 252 del T.U.29 gennaio 1958, n. 645 (sulle imposte dirette) proposta con l'ordinanza della Corte di appello di Milano 13 maggio 1966, in relazione agli artt. 35 e 63 della legge di delegazione 11 gennaio 1956, n. 1, e in riferimento all'art. 76 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile 1968.

 

 

Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo TRIMARCHI

 

 

Depositata in cancelleria il 20 aprile 1968.