Sentenza n. 105 del 1967
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SENTENZA N. 105

ANNO 1967

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9 del D.P.R. 19 marzo 1955, n. 520, recante "Riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro e della previdenza sociale", promosso con ordinanza emessa il 25 gennaio 1966 dal pretore di Reggio Calabria nel procedimento penale a carico di Quattrone Francesco, iscritta al n. 45 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 del 30 aprile 1966.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 10 maggio 1967 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale davanti al pretore di Reggio Calabria contro il signor Francesco Quattrone, imputato del reato previsto dall'art. 42 del T.U. 30 marzo 1955, n. 797, per aver omesso di inviare all'I.N.P.S. i rendiconti dei contributi dovuti e delle prestazioni anticipate ai lavoratori per il mese di giugno 1964, é stata sollevata dalla difesa dell'imputato, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9 del D.P.R. 19 marzo 1955, n. 520, giusta il quale "in caso di constatata inosservanza delle norme di legge, la cui applicazione é affidata alla vigilanza dell'Ispettorato del lavoro, questo ha la facoltà, ove lo ritenga opportuno, valutate le circostanze del caso, di diffidare con apposita prescrizione il datore di lavoro, fissando un termine per la regolarizzazione".

Il pretore ha ritenuto la questione rilevante e non manifestamente infondata, affermando che, a suo avviso, la norma impugnata concede all'Ispettorato del lavoro una discrezionalità senza limitazioni e un'assoluta libertà, insindacabili da parte del giudice ordinario. Tale insindacabilità, che si congiunge ed é insieme conseguenza della mancanza di norme che stabiliscano preventivamente i casi nei quali la diffida sia consentita, o di una norma che imponga la diffida in ogni caso, comporterebbe una violazione del principio di certezza, astrattezza e generalità della norma penale che si risolve, in sostanza, nella violazione dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Il pretore ha sollevato, poi, d'ufficio la questione di costituzionalità della norma impugnata nei confronti dell'art. 112 della Costituzione, che impone al P.M. l'obbligo di esercitare l'azione penale. Appare singolare, osserva l'ordinanza, che gli Ispettori del lavoro, che ai sensi dell'art. 8 del D.P.R. n. 520 del 1955 "nei limiti del servizio a cui sono destinati e secondo le attribuzioni ad essi conferite ... sono ufficiali di polizia giudiziaria", dipendenti, perciò, in base all'art. 220 del codice di procedura penale, dal P.M., godano di un potere più ampio di quello spettante all'organo superiore, cioè il potere di non porre in essere il presupposto per l'azione penale. Se poi, prosegue il pretore, l'inosservanza della prescrizione con la quale l'Ispettorato diffida i datori di lavoro é punibile, come di solito si ritiene, come inosservanza della norma e non già della prescrizione, ne deriva che la non ottemperanza alla diffida non costituisce elemento del reato, che si sarebbe, invece, già perfezionato: sarebbe anzi questo a porsi quale presupposto della diffida. Né si potrebbe configurare l'inosservanza della prescrizione impartita dall'Ispettorato come condizione di punibilità, data la mancanza, nel caso in esame, di tutte le caratteristiche proprie di questa figura giuridica. Ad avviso del pretore, si tratterebbe perciò di un'anomala condizione di procedibilità rimessa, in una materia che riguarda insieme interessi dello Stato e interessi particolari dei lavoratori, al medesimo organo che ne deve accertare le violazioni.

Il pretore conclude affermando che non sussisterebbe contrasto né con l'art. 3, né con l'art. 112 della Costituzione soltanto se la legge predeterminasse i casi in cui l'Ispettorato fosse tenuto a diffidare i datori di lavoro o se l'obbligo della diffida fosse stato imposto in ogni caso, perché, così, l'obbligo di effettuare la diffida, integrando un elemento del reato, vincolerebbe sia l'organo di polizia giudiziaria in sede di rapporto, sia l'autorità giudiziaria in sede di promovimento dell'azione penale e di accertamento dell'ipotesi punitiva. Il contrasto non sussisterebbe nemmeno, ovviamente, nell'ipotesi di soppressione della conferita facoltà all'Ispettorato del lavoro.

L'ordinanza, emessa il 25 gennaio 1966, é stata ritualmente notificata e comunicata, nonché pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105 del 30 aprile 1966.

2. - Secondo l'Avvocatura dello Stato, che é intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, depositando le sue deduzioni il 7 aprile 1966, la facoltà riconosciuta all'Ispettorato del lavoro si traduce in una specie di richiesta a promuovere l'azione penale, che si avvicina alla "richiesta" dell'art. 8 del Codice penale, dato che l'iniziativa dell'Ispettorato del lavoro deve precedere l'inizio, e non già interferire sulla prosecuzione dell'azione penale. Vero é che, prosegue l'Avvocatura, l'incostituzionalità di queste condizioni di promovibilità potrebbe essere fondata sull'ingerenza che così si eserciterebbe sul promovimento o sullo svolgimento del processo penale; pur tuttavia sarebbe necessario riconoscere che la norma impugnata soddisfa l'esigenza di consentire valutazioni di opportunità; il che, non diversamente da quello che la Corte ha affermato nei confronti dell'art. 313, terzo comma, del Codice penale, che prescrive l'autorizzazione a procedere per i delitti di vilipendio alle istituzioni costituzionali, non provoca nessuna discriminazione fra i cittadini, in quanto costoro, se si trovano nella situazione prevista da tali disposizioni, ricevono tutti indistintamente il medesimo trattamento. L'Avvocatura insiste sulla sostanziale identità delle due previsioni legislative che non sarebbe limitata né dal fatto che, nel caso in esame, le valutazioni di opportunità sono da riconnettere all'esigenza della tutela del lavoro intesa in senso ampio e all'altra della composizione di certi conflitti tra datori di lavoro e lavoratori a livello amministrativo, né dal fatto che quelle valutazioni siano riservate, anziché al capo di una branca dell'Amministrazione dello Stato (Ministro della Giustizia), ad organi periferici dell'Amministrazione dello Stato.

3. - L'infondatezza della questione di costituzionalità proposta si avrebbe altresì, anche se la situazione si presenta meno valida dal punto di vista pratico, qualora l'intervento dell'Ispettorato del lavoro si considerasse non già come condizione a promuovere l'azione penale, ma come qualificante il dovere di denuncia di certi reati. In altri termini, la denuncia per i reati ricompresi nella sfera di efficacia della norma impugnata si differirebbe da quella dell'art. 2 del Codice di procedura penale, nel senso che, in questa ipotesi, il dovere sorgerebbe sulla semplice considerazione del reato commesso, nell'altra tenendo conto, invece, degli interessi della collettività secondo l'espressione della formula "valutate le circostanze del caso, ove lo ritenga opportuno".

4. - La questione di legittimità della norma nei confronti dell'art. 112 della Costituzione sarebbe, ad avviso dell'Avvocatura, non rilevante e comunque infondata nel merito. L'Avvocatura sottolinea che la questione é proposta dal pretore soltanto nel senso che se il P.M. é tenuto all'esercizio dell'azione penale, non si giustificherebbe il riconoscimento ad un altro organo della facoltà di impedire quell'esercizio: riconoscimento che violerebbe l'art. 112 della Costituzione. Sennonché non sarebbe in contrasto con questa norma la previsione di determinate condizioni ai fini del promovimento o della prosecuzione dell'azione penale, non potendosi ravvisare in questa previsione un'interferenza nei doveri del P. M.

Questa tesi, conclude l'Avvocatura, avrebbe il conforto della sentenza n. 22 del 1959 di questa Corte.

5. - All'udienza pubblica del 10 maggio 1967 l'Avvocatura dello Stato ha insistito nelle conclusioni già prese.

 

Considerato in diritto

 

1. - La Corte é chiamata a decidere se la facoltà che l'art. 9 del D.P.R. 19 marzo 1955, n. 520, riconosce all'Ispettorato del lavoro di diffidare, con apposita prescrizione, il datore di lavoro, che non si sia comportato in conformità con le norme di legge, fissando un termine per la regolarizzazione, sia in contrasto con gli art. 3 e 112 della Costituzione.

La questione non é fondata.

La Corte ha gia escluso in due casi analoghi - relativo, il primo, all'autorizzazione a procedere prevista dall'art. 313, terzo comma, del Codice penale (sent. n. 22 del 1959); il secondo al cosiddetto "promuovimento" dell'azione penale da parte del Prefetto ai sensi dell'art. 378, terzo comma, della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F (sent. n. 154 del 1963)-, che sussistesse un contrasto con gli stessi articoli della Costituzione, invocati nel presente giudizio, e che si dovesse dichiarare perciò l'illegittimità costituzionale di quelle norme. Ma poiché le tre fattispecie non sono assolutamente identiche e l'obbligo della motivazione non può ritenersi assolto col semplice richiamo dei precedenti, occorre un particolare esame delle ragioni che nel caso ora sottoposto alla Corte conducono a una dichiarazione di non fondatezza della questione sollevata.

2. - In primo luogo é da dire che la facoltà riconosciuta all'Ispettore del lavoro di ordinare al datore di lavoro che non ottemperi agli obblighi che la legge gli impone, di procedere, entro un termine stabilito, alla "regolarizzazione", non viola il principio dell'officiosità e dell'obbligatorietà dell'azione penale. Questa facoltà dell'Ispettore e l'obbligo del P.M. di esercitare l'azione penale si muovono, infatti, in campi diversi, sicché l'esercizio di quella facoltà non scalfisce quest'obbligo, quale é posto dal precetto costituzionale. Del resto, la riaffermazione del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale espressa nell'art. 112 della Costituzione non esclude che, indipendentemente dall'obbligo del P.M., l'ordinamento stabilisca determinate condizioni per il promovimento o la prosecuzione dell'azione penale, anche in considerazione degli interessi pubblici perseguiti dalla pubblica amministrazione.

L'ordinanza di rinvio ha fatto gran caso della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria che l'art. 8 del P.D.R. 19 marzo 1955, n. 520, attribuisce all'Ispettore del lavoro, traendone la conseguenza che la norma impugnata riconosce, così, a un organo posto dalla legge alle dipendenze del P.M. (art. 220 del Codice di procedura penale) poteri più ampi di quelli assegnati all'organo superiore. Sennonché, l'Ispettore del lavoro non é soltanto un ufficiale di polizia giudiziaria. Esso é in primo luogo un organo di vigilanza sull'esecuzione della legislazione sociale. L'art. 7 del decreto legislativo sopra ricordato attribuisce all'Ispettorato del lavoro il compito a) di vigilare sull'esecuzione di tutte le leggi sul lavoro e la previdenza sociale in ogni tipo di azienda "ovunque é prestato un lavoro salariato o stipendiato"; 17) di vigilare sull'esecuzione dei contratti collettivi; c) di fornire tutti i chiarimenti che vengano richiesti intorno alle leggi sull'applicazione delle quali esso deve vigilare; d) di vigilare sul funzionamento delle attività previdenziali, assistenziali e igienico-sanitarie a favore dei prestatori d'opera; e) di esercitare le funzioni di tutela e di vigilanza sugli enti dipendenti dal Ministero; f) di rilevare le condizioni tecniche ed igieniche delle singole industrie; l'ordinamento e la rimunerazione del lavoro, il numero e le condizioni degli operai, gli scioperi, le loro cause e i loro risultati, il numero, le cause e le conseguenze degli infortuni degli operai e via numerando. Attività tutte che si svolgono nell'ambito amministrativo con ampi poteri discrezionali, fino all'emanazione di disposizioni esecutive in materia di infortuni, tutte le volte che le leggi attribuiscano un apprezzamento discrezionale all'Ispettorato, non regolino, cioé, fin nei dettagli la materia previdenziale. In quest'ambito così vasto va anche inquadrata la facoltà dell'art. 9 col connesso potere-dovere di valutare, a tutela dell'interesse del lavoro dipendente, inteso in tutti i suoi aspetti, l'opportunità di una regolarizzazione della situazione aziendale con la conseguente eliminazione immediata o entro breve termine del danno o del pericolo di danno. Tutto ciò comporta valutazioni di opportunità che devono essere rimesse agli organi amministrativi, i soli in grado di valutare, nella complessità della legislazione sociale, i mezzi più idonei per conseguire i fini voluti dall'ordinamento. Quando opera in questo campo l'Ispettore del lavoro non é un organo di polizia giudiziaria.

3. - La questione é infondata anche in relazione all'art. 3 della Costituzione. Occorre appena osservare che la facoltà riconosciuta all'Ispettore del lavoro é esercitabile nei confronti di tutti coloro che si trovino nelle condizioni previste dalla legge, e non é riferibile a gruppi o categorie di persone o di aziende arbitrariamente configurate. La circostanza che, nell'esercizio di tale facoltà, il comportamento dell'Ispettorato possa provocare di fatto una disparità di trattamento comporta non già l'illegittimità della norma, ma inconvenienti che non sono sufficienti ex se a indurre una incostituzionalità del precetto. Del resto, codesti inconvenienti si ripropongono tutte le volte in cui la norma riconosce un potere discrezionale a un organo dello Stato e non potrebbero essere rimossi, al limite, se non espungendo dall'ordinamento tutti i casi in cui l'esercizio di un potere (quale esso sia) comporti un margine di discrezionalità. D'altra parte non pare che l'esercizio di quella facoltà sia affatto senza limiti, sottoposto, invece, com'é, a limiti soggettivi e oggettivi. Soggettivi perché l'Ispettorato del lavoro é inserito in un ordinamento gerarchico, costituendo esso un "ufficio periferico del Ministero del lavoro e della previdenza sociale" (art. 2 del D.P.R. 19 marzo 1955, n. 520) articolato in ispettorati regionali e provinciali, integrato da un Ispettorato medico centrale con sede in Roma (art. 4 decreto legisl. citato), con all'apice un "Consiglio di Amministrazione dell'Ispettorato del lavoro", presieduto dal Ministro o dal Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale e composto di otto membri (art. 13); soggetto a controlli ispettivi (art. 3) e tenuto a seguire istruzioni e direttive nell'esercizio del potere discrezionale che la legge gli affida. Oggettivi, che si ricavano dalla stessa natura delle cose, che non consente, ad esempio, il ricorso alla "regolarizzazione" tutte le volte in cui il comportamento del destinatario della norma di tutela sociale sia un comportamento commissivo, e non omissivo, che ha già spiegati tutti i suoi effetti e non possa essere considerato, quindi, eliminabile mediante il pronto adempimento dell'obbligo di legge e il conseguente rapido raggiungimento dello scopo che la norma si prefigge. Le medesime espressioni della disposizione dell'art. 9 - "ove lo ritenga opportuno, valutate le circostanze del caso", che sembrano accentuare con la loro apparente genericità, la facoltà discrezionale dell'Ispettorato - stanno invece a provare la complessità e delicatezza dei rapporti ai quali quella facoltà si riferisce e la cautela con la quale essa deve essere esercitata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione sollevata con ordinanza 25 gennaio 1966 del pretore di Reggio Calabria, sulla legittimità costituzionale dell'art. 9 del D.P.R. 19 marzo 1955, n. 520, "Riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro e della previdenza sociale" in riferimento agli artt. 3 a 112 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.

 

Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI

 

 

Depositata in cancelleria il 12 luglio 1967.