SENTENZA N. 25
ANNO 1967
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 30 settembre 1920, n. 1349, nel testo modificato dall'art. 5 del R.D. L. 11 gennaio 1923, n. 138 (conciliazione amministrativa per le contravvenzioni in materia di pubblicità dei prezzi), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa l'8 settembre 1965 dal Pretore di Cortina d'Ampezzo nel procedimento penale a carico di Rezzadore Leonzio, iscritta al n. 195 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 297 del 27 novembre 1965;
2) ordinanza emessa il 23 febbraio 1966 dal Pretore di Fermo nel procedimento penale a carico di D'Aprile Vittoria, iscritta al n. 68 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 118 del 14 maggio 1966.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 14 dicembre 1966 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso del procedimento penale contro Rezzadore Leonzio, imputato del reato previsto dall'art. 9 della legge 30 settembre 1920, n. 1349 (modificato dall'art. 4 del R.D. L. 11 gennaio 1923, n. 138), per aver esposto in vendita generi alimentari senza indicarne il prezzo, il Pretore di Cortina d'Ampezzo, con ordinanza dell'8 settembre 1965, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 di detta legge, nel testo modificato dall'art. 5 del suddetto R.D. L., in riferimento agli artt. 112, 25, secondo comma, 3 e 102 della Costituzione.
Nell'ordinanza si manifesta il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma impugnata. Questa (secondo la interpretazione che il Pretore assume essere data generalmente dalla prassi) attribuirebbe al Prefetto il potere di accogliere o respingere la domanda di conciliazione amministrativa. Ne conseguirebbe:
1) una disparità di trattamento tra i casi come quello in esame e quelli in cui ai contravventori é senz'altro consentito di estinguere il reato mediante il pagamento di una somma fissa (art. 162 del Codice penale ecc.);
2) la possibilità che in situazioni identiche la conciliazione possa essere accordata o no;
3) il potere al Prefetto di disporre discrezionalmente dell'azione penale, ovvero di concorrere discrezionalmente alla formazione della fattispecie sostanziale da cui dipendono l'inizio o il proseguimento dell'azione, in modo che l'esserci o non esserci reato dipenderebbe da una determinazione discrezionale di organi amministrativi, con la conseguente violazione del principio della riserva assoluta di legge in materia penale e del principio della obbligatorietà dell'azione penale.
Si assume inoltre che, secondo la norma impugnata, il Prefetto potrebbe stabilire discrezionalmente la somma da pagare senza alcun limite né minimo né massimo.
E infine l'amplissimo potere discrezionale concesso al Prefetto importerebbe che la conciliazione sia accordata, nei vari casi, a condizioni diverse, ovvero di fatto impedita, allorché le condizioni economiche del richiedente siano tali da rendere impossibile il pagamento di una somma troppo gravosa.
Analoga questione é stata promossa, con ordinanza del 23 febbraio 1966 dal Pretore di Fermo, nel procedimento penale a carico di D'Aprile Vittoria, circa la legittimità costituzionale dell'art. 5 del R.D. L. 1923 n. 138, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, in quanto "la conciliazione amministrativa, per i reati similari e di pari gravità", é resa possibile col pagamento di somme diverse ed entro limiti discrezionali. L'ordinanza fa riferimento anche all'art. 25 della Costituzione nella parte in cui stabilisce che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
In rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri si é costituita, nel primo giudizio, l'Avvocatura generale dello Stato con atto di intervento e deduzioni del 20 ottobre 1965.
L'Avvocatura esclude la fondatezza della questione in base alle argomentazioni seguenti. Se é vero che in determinati casi la conciliazione amministrativa é affidata alla valutazione della pubblica Amministrazione, che può ammettere oppure no il contravventore alla conciliazione, non é esatto che questo sia un principio generale. La prassi cui accenna il Pretore non é dimostrata, e sarebbe in ogni caso illegittima. Né può aver valore il fatto che nel decreto di conciliazione il Prefetto abbia usata la formula "considerato che non esistono motivi per respingere l'istanza". Nemmeno é esatto che il Prefetto, nel determinare la somma per la conciliazione, non sia legato da alcun limite, né minimo né massimo. La norma tace su questo punto, ma, nel silenzio, vale la disciplina prevista dal Codice penale per l'oblazione. Inoltre, se l'azione penale non é promossa a seguito di conciliazione amministrativa, ciò non lede l'art. 112 della Costituzione. Infine si rileva che l'attività del Prefetto non configura esercizio di giurisdizione, né offende la riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
Considerato in diritto
I due giudizi, data l'identità dell'oggetto, possono definirsi con unica sentenza.
La questione non ha fondamento. Non sussiste il primo dei presupposti da cui muove l'ordinanza del Pretore di Cortina d'Ampezzo, cioè che la norma impugnata attribuirebbe al prefetto il potere discrezionale di accogliere o respingere la domanda di conciliazione amministrativa. La interpretazione che il Pretore assume essere data in tal senso dalla prassi non trova riscontro alcuno nel testo della norma; né può aver valore il fatto che il decreto prefettizio abbia adoperato la formula: "considerato che non sussistono motivi per respingere l'istanza". D'altra parte la potestà che si vorrebbe attribuita al Prefetto nemmeno é deducibile, come si assume, da un preteso "collegamento sistematico" fra la norma impugnata e quelle altre norme dell'ordinamento (art. 14 legge 7 gennaio 1929, n. 4; art. 41 T.U. delle leggi sulla pesca, ecc.) dalle quali, per i casi in esse regolati, una potestà siffatta é esplicitamente preveduta. E ciò perché non sussiste alcun elemento che valga a costituire un legame idoneo, dal punto di vista logico e giuridico, a far estendere ad altre norme, come principio generale valido per tutte, una disposizione che si presenta invece, per speciali esigenze, come propria e particolare di qualcuna, e sulla cui legittimità questa Corte non é attualmente chiamata a giudicare. Riconosciuta la inesistenza del preteso potere discrezionale del Prefetto di accogliere o respingere la domanda, rimane assorbita ogni considerazione circa gli effetti, di diritto sostanziale e processuale, che secondo l'ordinanza ne sarebbero seguiti (esistenza o inesistenza del reato subordinata alla decisione amministrativa di accoglimento o di rigetto; disuguaglianza nell'assoggettamento o meno dei cittadini alla giurisdizione penale; disparità di trattamento fra i casi regolati dalla norma in questione e quelli che rientrano nella disciplina dell'art. 162 del Codice penale, ecc.), e circa i principi costituzionali di cui si é denunziata la violazione (artt. 112, 25, 3, 102 della Costituzione).
Egualmente infondato si ravvisa l'altro presupposto da cui muove l'ordinanza, cioè che al Prefetto spetterebbe il potere di stabilire discrezionalmente la somma da pagare "senza alcun limite, né minimo né massimo". Nella norma impugnata il primo e il secondo comma, l'uno che determina il minimo e il massimo della pena pecuniaria, l'altro che, immediatamente dopo, stabilisce la possibilità della conciliazione amministrativa in base al pagamento della somma che, "a titolo di pena pecuniaria", sarà fissata dal Prefetto, si presentano uniti in una correlazione testuale e logica così evidente da escludere che il secondo comma assuma tale funzione autonoma da autorizzare il Prefetto a prescindere dai limiti di penalità fissati dal primo. Un tal potere, d'altra parte, non soltanto si presenterebbe senza alcuna ragionevole spiegazione, ma l'ammetterlo importerebbe accogliere l'assurdo di una legge che all'autorità giurisdizionale, la quale dichiara l'illecito e le sue conseguenze con tutte le garanzie e le forme di un regolare procedimento, avrebbe imposto il limite minimo e massimo della pena da irrogare, mentre al Prefetto, a conclusione della sua sommaria delibazione amministrativa, avrebbe lasciata piena libertà di fissare la pena pecuniaria senza alcun limite né minimo né massimo.
Nemmeno infine ha fondamento il terzo punto della questione, cioè che il potere discrezionale del Prefetto di determinare la somma per la conciliazione importa che questa venga di fatto accordata a condizioni diverse in situazioni identiche (ordinanza del Pretore di Cortina d'Ampezzo), ovvero che il pagamento di somme diverse entro limiti discrezionali si traduce di fatto in trattamenti differenziali dei contravventori (ordinanza del Pretore di Fermo): e ciò con la violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. In tal modo la censura scende dalla norma al particolare della sua applicazione concreta, con le valutazioni e decisioni singole che essa necessariamente comporta, e che non possono riguardare il giudizio di legittimità costituzionale. Questo inderogabile processo di individuazione trova la sua peculiare manifestazione nel diritto penale, dove l'ordinamento, tranne casi eccezionali di penalità fisse, non può realizzare una adeguata corrispondenza della sanzione al fatto illecito se non mediante la concreta valutazione del singolo caso, e con quella determinazione di pena che volta per volta, con regolata discrezionalità, ne viene fatta dal giudice. Si assume che con ciò, in definitiva, casi in certo modo identici vengono a subire un trattamento diverso. Ma, anche a non voler obbiettare che nessuna situazione concreta può dirsi propriamente identica ad un'altra, bisogna riconoscere che trattasi di inconvenienti che si può e si deve tendere a ridurre al minimo, ma che non possono essere eliminati, per la natura stessa del procedimento di applicazione delle norme.
Non é il caso di soffermarsi, da ultimo, sul fugace accenno del Pretore di Fermo all'art. 25 della Costituzione e al divieto di sottrarre il cittadino al giudice naturale precostituito per legge, in quanto, a giudizio della Corte, un tale profilo non presenta alcuna possibilità di essere riferito al caso in esame.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 30 settembre 1920, n. 1349, nel testo modificato dall'art. 5 del R.D.L. 11 gennaio 1923, n. 138 (conciliazione amministrativa per le contravvenzioni in materia di pubblicità dei prezzi), sollevata dal Pretore di Cortina d'Ampezzo con ordinanza dell'8 settembre 1965 in riferimento agli articoli 112, 25, secondo comma, 3 e 102 della Costituzione e dal Pretore di Fermo con ordinanza del 23 febbraio 1966 in riferimento agli artt. 3 e 25, primo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 1967.
Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI
Depositata in cancelleria il 9 marzo 1967.