SENTENZA N. 62
ANNO 1965
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma secondo, della legge di registro 30 dicembre 1923, n. 3269, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 6 dicembre 1963 dalla Commissione provinciale delle imposte dirette e indirette di Avellino su ricorso di Maffei Generosa contro l'Ufficio del registro di Avellino, iscritta al n. 81 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 144 del 13 giugno 1964;
2) ordinanza emessa il 29 maggio 1964 dalla Commissione provinciale delle imposte dirette e indirette di Avellino su ricorso di Benigni Achille contro l'Ufficio del registro di Avellino, iscritta al n. 190 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 39 del 13 febbraio 1965.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 26 maggio 1965 la relazione del Giudice Giovanni Battista Benedetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso di aste pubbliche celebrate per la vendita di beni di pertinenza fallimentare e di beni sottoposti ad esecuzione immobiliare, Maffei Generosa e Benigni Achille si resero aggiudicatari di alcuni immobili. Poiché l'Ufficio del registro aveva sottoposto tali immobili a giudizio di congruità, elevandone conseguentemente il valore, gli interessati, con ricorso diretto alla Commissione provinciale delle imposte dirette ed indirette di Avellino, impugnarono l'avviso di accertamento ad essi notificato, e ne chiesero l'annullamento, sostenendo che, ai sensi dell'art. 50, comma secondo, della legge di registro 30 dicembre 1923, n. 3269, gli immobili acquistati all'asta pubblica non vanno assoggettati a giudizio di stima dovendosi l'imposta calcolare, per espresso disposto della norma, sulla base del prezzo di aggiudicazione definitiva.
La Commissione provinciale, con ordinanze emesse in data 6 dicembre 1963 e 29 maggio 1964, dopo aver disatteso la tesi dell'Ufficio del registro, secondo la quale anche nelle vendite di immobili ai pubblici incanti, non sarebbe precluso all'erario di ricercare il valore venale di detti beni, a norma degli artt. 30 e 33 della legge di registro, ha sollevato di ufficio la questione di legittimità costituzionale del citato art. 50, comma secondo, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Ha ritenuto la Commissione che la norma impugnata, in virtù della quale non é consentito accertare l'effettivo valore del bene, crea una palese sperequazione tra il cittadino acquirente ai pubblici incanti e colui che acquista con convenzione privata, riservando al primo un trattamento di favore che non si giustifica ed in cui si ravvisa, per contro, la violazione del principio, garantito dalla Costituzione, secondo il quale a parità di situazioni giuridiche, deve corrispondere parità di disciplina giuridica.
Le due ordinanze, ritualmente comunicate e notificate alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, sono state rispettivamente pubblicate sulle Gazzette Ufficiali della Repubblica, n. 144 del 13 giugno 1964 e n. 39 del 13 febbraio 1965.
Nel presente giudizio le parti private non si sono costituite.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto solo nel giudizio promosso con l'ordinanza 6 dicembre 1963 iscritta al n. 81 del Registro ordinanze 1964, con deposito di atto di intervento in cancelleria in data 1 luglio 1964.
L'Avvocatura afferma che la proposta questione di legittimità deve considerarsi o insussistente o infondata a seconda dell'interpretazione che si accolga della norma impugnata.
Se si ritiene - condividendo la tesi dell'Amministrazione finanziaria - che anche per gli immobili venduti ai pubblici incanti ai sensi dell'art. 50, sia ammissibile il giudizio di stima dell'Amministrazione diretto ad accertare il valore venale di tali immobili, allora la questione di legittimità costituzionale non avrebbe ragion d'essere dal momento che nessuna disparità di trattamento fiscale vi sarebbe tra beni trasferiti con detto sistema e beni venduti su libero mercato.
Se, invece, si accoglie l'interpretazione contraria - costantemente affermata dalla giurisprudenza della Cassazione e della Commissione centrale - secondo la quale la disposizione impugnata impedisce all'ufficio il successivo accertamento del valore venale degli immobili trasferiti per asta pubblica, la questione di costituzionalità deve dichiararsi non fondata sia in riferimento all'art. 3 che all'art. 53 della Costituzione.
Sotto il primo aspetto l'Avvocatura rileva che non sussiste nella specie violazione del principio di eguaglianza dei cittadini in quanto il legislatore può disciplinare con norme diverse situazioni che egli considera differenziate e tale diversità di trattamento non é illegittima se non é fondata su particolari condizioni personali e sociali e se riguarda non singoli ma categorie di cittadini.
Per quanto riguarda la pretesa violazione dell'art. 53 della Costituzione, per il quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, l'Avvocatura afferma che la particolare disciplina dettata dall'art. 50 per gli acquirenti all'asta pubblica trova ampie ed evidenti giustificazioni.
In primo luogo essa é giustificata dal fatto che le peculiari modalità che regolano i trasferimenti nelle aste garantiscono adeguatamente l'obiettività e la certezza del prezzo pagato, nonché, quanto meno in via preventiva, la congruità di esso rispetto al valore venale del bene; in secondo luogo, perché tale disciplina soddisfa ad un interesse pubblico quale la regolarità degli incanti, consentendo a chi ad essi partecipa di valutare con sicurezza la somma complessiva che dovrà pagare nel caso risulti aggiudicatario di beni.
Considerato in diritto
1. - Le due ordinanze di rimessione, indicate in epigrafe, prospettano alla Corte la medesima questione di legittimità costituzionale. Esse, pertanto, sono state congiuntamente discusse e possono essere decise con unica sentenza.
2. - La Commissione provinciale delle imposte di Avellino ha sollevato la questione di legittimità ritenendo che la disposizione contenuta nell'art. 50, comma secondo, della legge del registro - approvata con R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 - precluda all'Amministrazione delle finanze di procedere all'accertamento del valore venale in comune commercio dei beni aggiudicati nelle vendite ai pubblici incanti.
Secondo l'Avvocatura dello Stato tale preclusione non sussisterebbe e perciò, venendo a cadere il presupposto in base al quale la questione di legittimità é stata formulata, verrebbe meno la questione stessa.
La tesi dell'Avvocatura non può essere accolta.
Ad avviso della Corte l'interpretazione data dal giudice a quo alla norma impugnata - corrispondente a quella ormai consolidatasi nel tempo per costante affermazione sia della Corte di cassazione, sia della Commissione centrale delle imposte - é esatta in quanto trova adeguato fondamento, oltre che nella lettera, anche nella ratio giustificatrice della disposizione denunciata.
3. - Passando ora all'esame della proposta questione di legittimità, é anzitutto da rilevare che il giudice a quo, mentre nella prima ordinanza di rimessione, ha ravvisato contrasto tra la norma denunciata e i precetti contenuti negli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella successiva ordinanza, invece, ha ravvisato l'incostituzionalità in riferimento alla sola violazione del principio di eguaglianza contenuto nell'art. 3 della Costituzione, mostrando così di ritenere assorbita in questa seconda censura anche l'altra, ovvero considerando che il precetto contenuto nel primo comma dell'art. 53 altro non rappresenti se non uno specifico sviluppo, nel campo tributario, del principio di eguaglianza sancito in via generale dall'art. 3. A tale conclusione induce, del resto, anche il fatto che unico é il rilievo formulato dalla Commissione provinciale delle imposte in ordine alle suddette violazioni: si lamenta in sostanza una manifesta disparità di trattamento, relativamente all'obbligo tributario, tra il contribuente che, acquistando un bene ad un'asta pubblica verrebbe a pagare un'imposta di registro più bassa, perché calcolata sul prezzo di aggiudicazione, ed il contribuente che, acquistando su libero mercato un identico bene, verrebbe a pagare una imposta di gran lunga superiore a seguito del giudizio di congruità da parte della finanza ai sensi degli artt. 30 e 33 della legge del registro.
La questione non é fondata.
Il diverso criterio di valutazione, dettato dalla norma in esame per le vendite di beni ai pubblici incanti, si adegua alle evidenti ed innegabili differenze esistenti tra siffatte vendite e quelle in libero commercio. É ben noto che con il sistema della vendita ai pubblici incanti il trasferimento di un bene si realizza attraverso la rigorosa osservanza di regole minuziose, unitariamente rivolte a garantire il regolare svolgimento di una gara. Gli appositi mezzi di pubblicità, l'osservanza delle forme e dei termini per la celebrazione dell'asta, la determinazione di un prezzo base, il libero concorso delle offerte, la sorveglianza costante delle pubbliche autorità rivolta ad evitare qualsiasi turbativa violenta o fraudolenta dell'incanto, sono tutti strumenti che la legge ha predisposto perché l'asta pubblica assolva il suo scopo: consentire il conseguimento del giusto prezzo dei beni sotto il segno della libertà economica e mediante il gioco della normale concorrenza e cioé di un prezzo corrispondente al valore di mercato dei beni stessi.
Chiara quindi appare la ragione della norma in esame: il legislatore ha ritenuto superflua, sulla base di una sua discrezionale valutazione, qualsiasi indagine sulla determinazione del valore del bene venduto ai pubblici incanti, ed ha conseguentemente escluso l'ammissibilità del giudizio di stima, sia perché le vendite effettuate con tale sistema - a differenza di quelle del libero mercato - danno una assoluta garanzia sull'autenticità del prezzo pagato, sia perché, quando l'asta é stata celebrata nella rigorosa osservanza delle forme e dei termini dalla legge stabiliti, può a giusta ragione presumersi che il prezzo di aggiudicazione sia veramente corrispondente nella misura massima possibile, in quel dato luogo e in quel momento, a quel valore venale del bene acquistato su libero mercato, che rappresenta ciò che il procedimento valutativo ricerca.
Nessun privilegio, pertanto, la norma denunciata riserba a favore di coloro che si rendano aggiudicatari di beni nei pubblici incanti e, conseguentemente a nessuna ingiusta sperequazione essa dà luogo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunite le due cause,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma secondo, della legge del registro approvata con R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, proposta con le due ordinanze citate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1965.
Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO.
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 1965.