Sentenza n. 109 del 1964
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SENTENZA N. 109

ANNO 1964

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, terzo comma, della legge 27 gennaio 1963, n. 19, sulla "Tutela giuridica dell'avviamento commerciale", promosso con ordinanza emessa il 31 luglio 1963 dal Pretore di San Donà di Piave nel procedimento civile vertente tra Contardo Adelia e Michelon Veneranda, iscritta al n. 7 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 34 dell'8 febbraio 1964.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 5 novembre 1964 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un procedimento di opposizione ad esecuzione per rilascio di un immobile locato per uso commerciale, pendente davanti al Pretore di San Donà di Piave, la locatrice chiedeva che fosse revocata la sospensione di tale esecuzione, già accordata, e che invece, previa sospensione del giudizio di opposizione, il giudice rimettesse gli atti alla Corte costituzionale per la decisione della questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 4, terzo comma, della legge 27 gennaio 1963, n. 19, sulla "Tutela giuridica dell'avviamento commerciale", in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Con ordinanza in data 31 luglio 1963 il Pretore confermava la sospensione della esecuzione; ritenuto poi che la dedotta questione di legittimità costituzionale non fosse da considerare manifestamente infondata e che la controversia non potesse essere decisa indipendentemente dalla soluzione di tale questione, ordinava la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla convenuta.

Nella motivazione dell'ordinanza il Pretore premette testualmente che "l'esame del magistrato adito va limitato, nel caso in esame, all'accertamento della esistenza delle condizioni legittimanti, ai sensi dell'art. 624 del Codice di procedura civile, la sospensione della esecuzione, essendo competente, nel merito, il Tribunale di Venezia, avanti il quale, in ogni caso, le parti dovranno riassumere il giudizio".

Ad ogni modo, il giudice dell'esecuzione si é preso cura di esaminare la questione di legittimità proposta dalla locatrice convenuta in opposizione ed ha concluso nel senso che la norma del terzo comma dell'art. 4 in discussione ha vulnerato le garanzie predisposte dalla Costituzione nel combinato disposto degli artt. 3 e 24, primo comma, in quanto attribuisce al conduttore la facoltà di optare per la proroga biennale del contratto di locazione, ad un canone da concordarsi fra le parti, rinunziando al compenso previsto nel primo comma della disposizione citata.

Si legge nell'ordinanza che non può revocarsi in dubbio che la norma di cui all'art. 4 della legge in esame leda gli interessi di uno soltanto dei titolari del rapporto di locazione, a danno della garanzia costituzionale della parità dei cittadini di fronte alla legge; ove, infatti, il conduttore non eserciti il diritto di prelazione di cui all'art. 2 della legge e non intenda conseguire il compenso di cui al primo comma dell'art. 4, viene ad esso, in ogni caso, attribuito un diritto nei confronti del locatore all'altro compenso, che si concreta nel vantaggio patrimoniale ritraibile dalla proroga biennale del contratto, e ciò anche se l'azienda non subisca danno per la perdita dell'avviamento ed anche se, dalla cessazione del rapporto, nessun utile possa derivare al locatore.

A giudizio del Pretore non si può evincere dalla legge che il conduttore abbia la facoltà di Optare per la proroga biennale solo ove sussistano i presupposti per la richiesta del compenso, di cui al primo comma dell'art. 4, essendo chiaramente espressa l'alternativa fra la facoltà di chiedere il compenso e quella di optare per la proroga biennale. Di conseguenza, sarebbe lasciata al conduttore piena e discrezionale facoltà di ottenere un vantaggio patrimoniale, a danno del locatore, il quale subirebbe una grave lesione dei propri diritti.

Né, in caso di mancato accordo per la determinazione del canone di locazione, il locatore potrebbe chiederne la determinazione al giudice: e tale conseguenza importerebbe la violazione della norma della Costituzione (art. 24, primo comma), secondo la quale "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi".

L'ordinanza, comunicata ai Presidenti delle Camere del Parlamento e notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, é stata pubblicata, per disposizione del Presidente della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 34 dell'8 febbraio 1964.

Nessuna delle parti private si é costituita. É invece intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, con atto depositato in cancelleria il 19 ottobre 1963. Nelle deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende, si afferma che la questione proposta dal Pretore di San Donà di Piave, nel suo duplice aspetto, é da ritenere sprovvista di ogni fondamento, soprattutto perché la norma impugnata non potrebbe interpretarsi se non nel senso di una possibilità di scelta da parte del conduttore fra due effettivi e paralleli vantaggi di natura e di contenuto patrimoniale: da un lato il compenso per la perdita dell'avviamento, previsto e regolato dal primo comma dell'articolo, e dall'altro la proroga biennale del contratto, contemplata alternativamente nel terzo comma dello stesso articolo.

In tanto il conduttore avrebbe diritto di optare per la proroga in quanto potesse utilmente rinunziare ad un suo effettivo diritto al compenso per la perdita di avviamento dell'azienda: occorrerebbe, cioè, che quest'ultimo diritto sussistesse in realtà e che fosse accertabile la esistenza dei relativi presupposti indicati dalla legge (perdita di avviamento dell'azienda e utilità derivante al locatore).

La opzione consentita non importerebbe quindi affatto la denunciata arbitraria lesione dei diritti di uno soltanto dei titolari del rapporto di locazione, nella specie del locatore.

Nei riguardi degli altri rilievi contenuti nell'ordinanza e concernenti il danno derivante al locatore nel caso di mancato accordo per la determinazione del canone per il biennio di proroga del contratto, l'Avvocatura generale dello Stato afferma che l'accordo delle parti deve ritenersi elemento indispensabile e condizionante ai fini dell'effettiva possibilità di perfezionamento della proroga biennale, per la quale abbia optato il conduttore. Altrimenti il contratto non potrebbe perfezionarsi; e di conseguenza verrebbe meno la già dichiarata rinunzia al diritto di compenso per la perdita dell'avviamento, che ne era il presupposto, oppure, considerandosi definitivamente acquisita tale rinunzia, il contratto verrebbe automaticamente a risolversi.

In una successiva memoria depositata il 23 ottobre 1964 la difesa del Presidente del Consiglio ha ribadito gli argomenti già esposti, insistendo particolarmente sulla osservazione che nel caso in esame dovrebbe ravvisarsi un tentativo di rimettere alla Corte costituzionale quel compito di interpretare la legge ordinaria, che sarebbe spettato invece al giudice del processo principale.

Le stesse conclusioni sono state confermate all'udienza dal rappresentante dell'Avvocatura generale dello Stato.

 

Considerato in diritto

 

Come risulta già in modo evidente dalla esposizione dei fatti della causa, il testo della ordinanza del Pretore di San Donà di Piave presenta alcuni aspetti contraddittori, i quali danno luogo a non poche perplessità.

Vi si rileva, infatti, che - dopo avere premesso, nel modo più esplicito, che l'esame del giudice (dell'esecuzione) era necessariamente limitato all'accertamento delle condizioni, o presupposti atti a giustificare la sospensione dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 624 del Codice di procedura civile, e che le parti avrebbero dovuto quindi riassumere il giudizio davanti al Tribunale di Venezia, competente sul merito - lo stesso giudice della esecuzione ha ritenuto "che il presente giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della stessa (questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, terzo comma, legge 27 gennaio 1963, n. 19)"; dopo di che il dispositivo della ordinanza si conclude con la seguente prescrizione: "Manda alle parti di riassumere il presente giudizio, una volta cessata la detta causa di sospensione e nel termine di mesi sei dalla data della decisione della Corte costituzionale, avanti il Tribunale civile di Venezia, competente per ragioni di valore".

É da rilevare poi che lo stesso Pretore aveva d'altronde provveduto nei riguardi della domanda proposta da una delle parti per ottenere la revoca della sospensione dell'esecuzione già accordata, e pertanto aveva risolto tutte le questioni di propria competenza, così che risultava pienamente giustificata la rimessione da lui disposta delle parti davanti al Tribunale, non restandogli più alcun altro provvedimento da prendere.

Da ciò consegue peraltro che la affermazione sopra riferita, contenuta nel dispositivo dell'ordinanza, che "il presente giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della stessa (questione di legittimità costituzionale)" non deve essere interpretata nel senso che il Pretore volesse alludere al procedimento già pendente davanti a lui, bensì nel senso che egli intendeva come "giudizio" tutto il processo (considerato come successione di più procedimenti), ivi compresa la fase ulteriore che avrebbe dovuto svolgersi davanti al Tribunale; e ciò trova conferma nell'uso della medesima espressione, adoperata proprio in tal senso, anche nel testo dell'ultimo paragrafo dell'ordinanza, ove si legge: "Manda alle parti di riassumere il presente giudizio... avanti al Tribunale di Venezia, competente per ragioni di valore".

Risulta pertanto nel modo più evidente, dalle espressioni usate nell'ordinanza, che il Pretore non ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma denunciata, ritenendola rilevante ai fini di una decisione affidata alla propria competenza, ma ha considerato rilevante la risoluzione di tale questione nei riguardi di quegli altri aspetti della controversia, da lui stesso considerati oggetto della futura decisione sul merito della causa spettante al Tribunale, cui rimetteva le parti.

E noto però che la legge attribuisce espressamente il potere di sollevare la questione di legittimità costituzionale alla "autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio" (art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87); ed il principio stesso é stato riaffermato nelle "Norme integrative per i giudizi" approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956, ove é prevista "l'ordinanza, con cui il giudice, singolo o collegiale, davanti al quale pende la causa, promuove il giudizio di legittimità costituzionale"(art. 1), in base alla logica considerazione che soltanto il giudice chiamato a decidere nel merito la controversia é in grado di valutare se la soluzione del dubbio insorto sulla legittimità costituzionale di una o più norme costituisca un presupposto necessario della propria decisione.

La Corte si é costantemente attenuta a tale principio, né ha mai voluto affrontare il problema se l'organo, che aveva proposto la questione, fosse competente a decidere la controversia, posto che la soluzione di tale quesito non le apparteneva, né essa avrebbe potuto disporre dei dati necessari per risolverlo. Senonché nel caso in esame risulta dal testo stesso della ordinanza che la valutazione della rilevanza, nonché quella della "non manifesta infondatezza", della questione di legittimità costituzionale della norma denunciata, sono state compiute invece da un giudice, il quale non solo non aveva competenza ad applicare o no quella norma al rapporto controverso, ma aveva riconosciuto e dichiarato nel modo più esplicito e contestualmente che tale competenza spettava ad una diversa autorità giurisdizionale, a cui rimetteva le parti per la riassunzione del giudizio.

Da ciò consegue la conclusione, che il Pretore di San Donà di Piave non poteva più considerarsi come "il giudice, singolo o collegiale, davanti al quale pende la causa" (art. 1 delle Norme integrative), e che pertanto la questione di legittimità costituzionale proposta con l'ordinanza deve essere dichiarata inammissibile, né vi é luogo ad esaminare i motivi di merito in essa prospettati.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione proposta dal Pretore di San Donà di Piave con ordinanza emessa il 31 luglio 1963, concernente la legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 4, terzo comma, della legge 27 gennaio 1963, n. 19, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 1964.

Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 11 dicembre 1964.