SENTENZA N. 42
ANNO 1961
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente
Prof. Gaspare AMBROSINI
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 15 del T.U. 16 maggio 1960, n. 570, contenente norme per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali, e degli artt. 278 e seguenti del T.U. 14 settembre 1931, n. 1175, per la finanza locale, promossi con le seguenti deliberazioni:
1) deliberazione emessa l'11 luglio 1960 dal Consiglio comunale di Muro Lucano su ricorso di Lombardi Giovanni avverso l'elezione del consigliere Scaringi Vito, iscritta al n. 89 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 297 del 3 dicembre 1960;
2) deliberazione emessa il 25 febbraio 1961 dal Consiglio comunale di Pomezia su ricorso di Marconi Renato ed altri avverso l'elezione dei consiglieri Tortora Nicola ed altri, iscritta al n. 37 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 83 del 1 aprile 1961;
3) deliberazione emessa il 25 febbraio 1961 dal Consiglio comunale di Tramonti su ricorso di Macchiarola Francesco ed altri, avverso l'elezione dei consiglieri Apicella Ottavio ed altri, iscritta al n. 40 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 83 del 1 aprile 1961.
Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 24 maggio 1961 la relazione del Giudice Antonio Manca;
uditi l'avvocato Vittorio Santoro, per Marconi Renato ed altri, l'avvocato Roberto Volpe, per Apicella Ottavio ed altri, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Stefano Varvesi, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Il signor Giovanni Lombardi, con atto del 25 giugno 1960 inoltrò ricorso al Consiglio comunale di Muro Lucano, contro la deliberazione del predetto Consiglio del 17 giugno 1960 con la quale era stata convalidata l'elezione del consigliere Vito Scaringi essendo ineleggibile, per lite pendente con il Comune, in base all'art. 15, n. 6, del T.U. 16 maggio 1960, n. 570 (contenente norme per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali).
Il Consiglio comunale con deliberazione dell'11 luglio 1960, n. 11, ha sollevato d'ufficio, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 del T.U. e in particolare del n. 6 dell'articolo stesso, per contrasto col principio fondamentale dell'eguaglianza dei cittadini nella partecipazione alle cariche elettive, e in riferimento, altresì, per quanto riguarda il n. 6, agli artt. 24 e 113 della Costituzione, che garantiscono la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, tutela che resterebbe paralizzata e compressa dalla disposizione contenuta nel ricordato n. 6.
La deliberazione, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 3 dicembre 1960, n. 297.
In questa sede é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato le deduzioni il 18 agosto 1960.
L'Avvocatura dello Stato, in via preliminare circa l'ammissibilità del ricorso, rileva che il Consiglio comunale, adito per decidere sui ricorsi proposti avverso le deliberazioni del Consiglio stesso di convalida delle elezioni dei propri componenti, eserciterebbe funzioni di carattere giurisdizionale.
Che se si ritenesse, invece, la natura amministrativa del contenzioso elettorale, le questioni di costituzionalità sollevate sarebbero inammissibili in questa sede.
Nel merito osserva che, riguardo all'elettorato passivo l'art. 122 della Costituzione, lasciando al legislatore ordinario di stabilire i casi di ineleggibilità e di incompatibilità per l'elezione dei consiglieri regionali, riconoscerebbe implicitamente la legittimità costituzionale delle disposizioni che stabiliscono i casi di ineleggibilità ed incompatibilità concernenti i consiglieri comunali e provinciali.
Né, in particolare, la disposizione del n. 6 dell'art. 15 del T.U. del 1960, n. 570, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, in quanto é diretta ad eliminare la posizione di conflitto con l'attività che deve svolgere l'amministrazione comunale; posizione in cui verrebbe a trovarsi colui che, essendo debitore moroso verso il Comune, venisse eletto alla carica di consigliere del Comune medesimo. E non sussisterebbe la violazione dei precetti costituzionali, perché, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, dal principio dell'eguaglianza non deriva necessariamente una parificazione di tutte le situazioni di fatto, ma deriva, invece, la possibilità, per il legislatore ordinario, di adeguare la disciplina giuridica delle varie situazioni ai vari aspetti della vita sociale in un determinato momento storico. E l'art. 51, d'altra parte, in quanto dispone bensì l'eguaglianza dei cittadini per accedere agli uffici ed alle cariche pubbliche, aggiungendo peraltro "secondo i requisiti stabiliti dalla legge", conterrebbe una riserva di legge, demandando al legislatore ordinario di applicare il precetto tenendo conto delle diverse situazioni concrete, in base ad una valutazione politica, riferita al momento dell'emanazione della legge. L'Avvocatura ricorda, a tal proposito, anche le sentenze di questa Corte, n. 105 del 1957 e n. 56 del 1958.
La difesa dello Stato esclude, d'altra parte, che la disposizione impugnata sia in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, in quanto la disposizione stessa non limiterebbe in alcun modo la possibilità di tutela in giudizio dei diritti e degli interessi legittimi, essendo diretta esclusivamente a stabilire casi di ineleggibilità a consigliere del Comune. Il cittadino potrebbe, perciò, sempre e senza limiti adire gli organi giurisdizionali, mentre le eventuali conseguenze dell'azione sulla loro eleggibilità o compatibilità alle cariche comunali, non avrebbero nulla a che fare con la tutela giurisdizionale. Non avrebbero alcun rilievo in questa sede, si aggiunge, le osservazioni fondate sul timore che la lite possa essere artificiosamente creata per eliminare qualche candidato, essendo pure da considerare che tale inconveniente, in concreto, non produrrebbe conseguenze, dato che la giurisprudenza avrebbe ritenuto costantemente che l'efficacia della causa di ineleggibilità trovi un limite quando la pretesa fiscale, da parte del Comune che ha dato luogo alla controversia, appaia manifestamente infondata.
2. - Il sig. Renato Marconi ed altri, con atto del 29 dicembre 1960, proposero ricorso al Consiglio comunale di Pomezia contro la deliberazione del Consiglio comunale del 1 dicembre 1960, con la quale era stata convalidata l'elezione dei consiglieri Nicola Tortora ed altri due, perché ineleggibili in base alla disposizione dell'art. 15, n. 9, del T.U. 16 maggio 1960, n. 570, essendo debitori del Comune per spese di spedalità, legalmente messi in mora.
Il Consiglio comunale di Pomezia, con deliberazione del 25 febbraio 1961, con riferimento all'eccezione dedotta dagli interessati durante la discussione del ricorso, ha sollevato, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 del citato T.U. e del n. 9 dell'articolo stesso, per contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, che stabiliscono l'eguaglianza dei cittadini nei diritti politici e nelle libertà civili, con particolare riferimento all'elettorato passivo.
La deliberazione, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 1 aprile 1961, n. 83.
In questa sede si é costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato le deduzioni il 22 marzo 1961 concludendo perché si dichiari non fondata la questione di costituzionalità.
Si sono pure costituiti i signori Renato Marconi ed altri (che avevano proposto ricorso davanti al Consiglio comunale), pure concludendo che si dichiari non fondata la questione sollevata dal Consiglio comunale di Pomezia.
L'Avvocatura dello Stato preliminarmente ripropone la questione circa l'ammissibilità del ricorso, nei termini accennati nelle deduzioni relative alla deliberazione n. 89.
Nel merito, per quanto si riferisce alla dedotta violazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione, prospetta argomentazioni analoghe a quelle già addotte relativamente alla deliberazione del Consiglio comunale di Muro Lucano. Argomentazioni alle quali si riferisce, altresì, la difesa dei signori Marconi ed altri, rilevando che la disposizione del n. 9 dell'art. 15 del T.U. del 1960, non sarebbe in contrasto con i ricordati artt. 3 e 51 della Costituzione.
3. - Il sig. Francesco Macchiarola ed altri, con atto del 28 dicembre 1960, proposero ricorso avverso la deliberazione del Consiglio comunale di Tramonti del 9 dicembre 1960, con cui era stata convalidata l'elezione dei consiglieri Ottavio Apicella ed altri, essendo ineleggibili per lite pendente col Comune davanti alla Commissione comunale per i tributi locali (art. 15, n. 6, T.U. del 1960, n. 570).
Il Consiglio comunale di Tramonti, con deliberazione del 25 febbraio 1961, ha ritenuto rilevante ai fini della decisione del ricorso e non manifestamente infondata, l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 15 del T.U. 16 maggio 1960, n. 570, dedotta dai resistenti al ricorso signori Antonio Ferrara ed altri (ai quali si é associato il sig. Apicella), per contrasto dell'art. 15 con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, e in particolare, della disposizione contenuta nel n. 6 dello stesso articolo, con i precetti degli artt. 24 e 113 della Costituzione, nei quali si garantiscono costituzionalmente il diritto di azione, di ricorso e di difesa in qualunque grado di giurisdizione.
Nella deliberazione si ritiene, altresì, rilevante e non manifestamente infondata anche la questione di costituzionalità degli artt. 218 e seguenti del T.U. 14 settembre 1931, n. 1175, per la finanza locale, in quanto se si attribuisse carattere giurisdizionale alle Commissioni tributarie comunali, le disposizioni ora accennate, sarebbero in contrasto con gli artt. 1, 5 e 101 della Costituzione. I quali, secondo che si rileva nella deliberazione, riconoscerebbero il carattere giurisdizionale esclusivamente alla Magistratura ordinaria e agli altri organi di giurisdizione ordinaria e speciale, esclusivamente in quanto siano organi dello Stato.
La deliberazione anzidetta, regolarmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 1 aprile 1961, n. 83.
Nel giudizio in questa sede é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale ha depositato le deduzioni il 22 marzo 1961, concludendo perché siano dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio comunale.
Si sono, altresì, costituiti i signori Apicella ed altri depositando le deduzioni il 17 aprile 1961 e chiedendo, invece, che sia dichiarata la illegittimità costituzionale delle disposizioni sopra citate. Essi sostengono che tutti i dieci casi di ineleggibilità contenuti nel T.U. del 1960, n. 570, sarebbero in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione.
Il principio dell'eguaglianza stabilito nell'art. 3 e, per quanto riguarda l'accesso dei cittadini agli uffici ed alle cariche pubbliche, nell'art. 51, consentirebbe che il legislatore ordinario, per l'elettorato passivo, possa stabilire i requisiti esclusivamente inerenti alla capacità ed all'attitudine ad esercitare le funzioni pubbliche proprie degli organi elettivi; i requisiti, cioé, concernenti la cittadinanza, l'età, il titolo di studio e l'assenza di situazioni negative derivanti dalla incapacità civile, dalle condanne penali e dall'indegnità morale. E vero, si aggiunge, che l'art. 51 della Costituzione, nell'inciso "secondo i requisiti stabiliti dalla legge", contiene una riserva di legge, ma questa riserva condizionata al principio dell'eguaglianza, ammetterebbe soltanto quelle limitazioni rese necessarie dalla selezione fra coloro che aspirano alle cariche pubbliche, in relazione alle attitudini ed al minimo indispensabile di preparazione. La riserva, quindi, dovrebbe essere intesa in senso restrittivo, essendo altresì da considerare che gli artt. 128 e 129 della Costituzione attribuiscono alle Province ed ai Comuni autonomia e funzioni decentrate, senza, peraltro, deferire alla legge ordinaria di determinare le cause di ineleggibilità e di incompatibilità, come é, invece, espressamente stabilito dagli artt. 65 e 122 della Costituzione per le elezioni delle Camere del Parlamento e dei Consigli regionali. E che l'inciso contenuto nell'art. 51 dovrebbe essere inteso nel senso sopra accennato, la difesa dei signori Apicella ed altri desume anche dal fatto che, nel testo dell'art. 48 del progetto della Costituzione, si faceva espresso richiamo alle attitudini dei cittadini per accedere agli uffici ed alle cariche pubbliche secondo norme stabilite dalla legge; e, altresì, dal fatto che, nella nuova Costituzione, non é stato riprodotto il contenuto dell'art. 24 dello Statuto Albertino, secondo il quale l'eguaglianza, nei diritti civili e politici, era subordinata alle eccezioni stabilite dalla legge. Nell'art. 51 della Costituzione, invece, non si parla di eccezioni, bensì di requisiti, di qualità cioè riferibili alle attitudini, agli uffici ed alle cariche, come risulterebbe anche dalla sentenza di questa Corte n. 56 del 1958.
Ora, si assume che nessuno dei dieci casi di ineleggibilità preveduti dall'art. 15 del T.U. del 1960, n. 570, si riferirebbe a requisiti di competenza e di attitudini personali, poiché sarebbero determinati, invece, da motivi ingiustificati di sospetto nei riguardi dei candidati, in relazione a fatti che troverebbero diverse sanzioni, di carattere penale, amministrativo ed anche elettorale mediante l'annullamento della elezione. A parte il rilievo, per quanto attiene alla causa di ineleggibilità derivante dalla pendenza della lite, che tale limitazione non avrebbe ragione d'essere, dal momento che l'art. 290 del T.U. della legge comunale e provinciale del 1915, n. 148 (a garanzia della corretta amministrazione) dispone, tra l'altro, che i consiglieri e gli assessori dei Comuni devono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie.
Come si é già accennato, nella deliberazione del Consiglio comunale, la questione di costituzionalità della predetta disposizione del n. 6 é stata sollevata anche perché violerebbe gli artt. 24 e 113 della Costituzione.
La difesa dei signori Apicella ed altri assume che la legge ordinaria dovrebbe rispettare tanto i precetti dell'art. 51, quanto le garanzie per la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contenute negli artt. 24 e 113. Il n. 6 dell'art. 15, invece, pone al cittadino un'alternativa di scelta fra l'accettazione della candidatura e la tutela dei propri diritti ed interessi, con la conseguenza della rinunzia definitiva all'una o all'altra situazione di vantaggio garantita dalla Costituzione.
Per quanto concerne, infine, la questione relativa alla illegittimità degli artt. 278 e seguenti del T.U. per la finanza locale, si pone in dubbio il carattere giurisdizionale delle Commissioni comunali per i tributi locali; le quali avrebbero, invece, carattere amministrativo, il che escluderebbe la sussistenza della lite. Ma qualora si qualificassero giurisdizioni speciali, le norme anzidette contrasterebbero con quelle contenute negli artt. 1, 5 e 101 della Costituzione. L'unità dell'ordinamento, che si desumerebbe dalle disposizioni di questi articoli, non ammetterebbe che la giurisdizione ordinaria o speciale fosse esercitata se non da organi propri dello Stato. Le Commissioni anzidette, invece, sarebbero organi comunali e non statali, dato che sarebbe deferita ai Comuni la costituzione delle Commissioni stesse e la nomina della maggioranza dei componenti. Ma se anche si ritenesse che costituiscano organi dello Stato, non per questo verrebbe meno la incostituzionalità, in quanto tutti gli organi giurisdizionali dovrebbero essere direttamente organizzati dallo Stato.
Anche relativamente all'attuale controversia, la difesa dello Stato accenna nelle deduzioni alla inammissibilità, in questa sede, della questione di incostituzionalità qualora si ritenesse il carattere amministrativo delle decisioni dei Consigli comunali nel contenzioso elettorale.
Nel merito, per ciò che riguarda il contrasto fra l'art. 15 del T.U. del 1960, n. 570, e gli artt. 3 e 51 della Costituzione, quanto per ciò che attiene, in particolare, al contrasto fra la disposizione contenuta nel n. 6 del predetto art. 15 e gli artt. 24 e 113 della Costituzione, svolge argomentazioni analoghe a quelle prospettate nella controversia sollevata dal Comune di Muro Lucano (deliberazione n. 89 del 1960).
Riguardo, poi, alla dedotta incostituzionalità degli artt. 278 e seguenti del T.U. per la finanza locale, osserva che il principio che si desumerebbe dall'art. 101 della Costituzione indurrebbe a ritenere soltanto che alla istituzione, all'organizzazione ed al funzionamento degli organi giurisdizionali ordinari o speciali, si dovrebbe provvedere esclusivamente con legge dello Stato. Non importerebbe, invece, che anche la funzione giurisdizionale dovesse essere esclusivamente esercitata da organi compresi nell'ordinamento statale. Il che si verificherebbe nella nostra legislazione, ad esempio, per i Consigli degli ordini professionali, nelle materie per le quali la legge ad essi attribuisce potestà giurisdizionale e per i Consigli comunali riguardo al contenzioso elettorale.
Con memoria, depositata il 10 maggio 1961, la difesa dei signori Apicella ed altri, circa l'ammissibilità del ricorso rileva che, alle decisioni dei Consigli comunali in materia elettorale, non si potrebbe disconoscere il carattere giurisdizionale sia per le formalità del procedimento, sia per il contenuto e per l'efficacia della decisione, e ricorda a conferma l'ordinanza emessa da questa Corte n. 23 del 1958.
Nel merito, per quanto riguarda l'art. 15 del T.U. del 1960, n. 570, ora impugnato, ribadisce le tesi prospettate nelle deduzioni, insistendo nel sostenere che la legge per l'elezione degli organi delle amministrazioni locali (Province e Comuni) dovrebbe inderogabilmente ottemperare ai precetti degli artt. 3 e 51 della Costituzione, stabilendo soltanto norme relative alla capacità ed alle attitudini per rispettare il principio della eguaglianza.
Quanto al contrasto del n. 6 dell'art. 15 con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, fa rilevare che i precetti ivi contenuti, data anche la formulazione delle disposizioni, non potrebbero assolutamente essere limitati e compressi dal legislatore ordinario, il quale potrebbe soltanto predisporre cautele a salvaguardia dell'imparzialità e dell'autonomia dei consiglieri comunali. Cautele che, comunque, non potrebbero mai importare la soppressione dei diritti garantiti dagli artt. 24 e 113, o rinunzia definitiva ai medesimi, ma soltanto la sospensione dell'esercizio, al fine di evitare una discriminazione fra i diritti garantiti dalla Costituzione, con la conseguenza che uno di tali diritti risulti possa essere subordinato all'altro o annullato.
Per quanto attiene, infine, alla illegittimità costituzionale degli artt. 278 e seguenti del T.U. sulla finanza locale, si confermano le argomentazioni già svolte al riguardo nelle deduzioni, richiamando la sentenza di questa Corte n. 12 del 1957, ed osservando come non sarebbe pertinente nella fattispecie sia il richiamo ai poteri attribuiti ai Consigli professionali circa l'autogoverno della categoria, né il riferimento alla funzione giurisdizionale dei Consigli comunali in materia elettorale, trovando, questa, giustificazione nella speciale materia.
Anche l'Avvocatura dello Stato il 10 maggio 1961 ha depositato una memoria che riguarda le questioni sollevate nelle tre deliberazioni dei Comuni di Muro Lucano, Pomezia e Tramonti, confermando le tesi già prospettate nelle deduzioni. Rileva, inoltre, che, dato che la Costituzione (art. 128) ha demandato al legislatore ordinario di stabilire la struttura, l'ordinamento ed il funzionamento delle amministrazioni provinciali e comunali (senza alcuna limitazione o specificazione come ha fatto per il Parlamento e per le Regioni) rientrerebbe, altresì, nel potere del legislatore ordinario di determinare i requisiti necessari per poter far parte delle amministrazioni stesse, sia sotto l'aspetto generale della capacità, sia sotto l'aspetto particolare della specifica compatibilità con l'ufficio. E ciò anche in applicazione del principio, già enunciato nella sentenza di questa Corte n. 1 del 1956, circa le limitazioni insite nel concetto stesso del diritto.
Per quanto riguarda, infine, le norme degli artt. 278 e seguenti del T.U. sulla finanza locale, la difesa dello Stato, che, richiamando anche la giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 12 e 41 del 1957), muove dal presupposto che le Commissioni tributarie comunali abbiano carattere giurisdizionale, sostiene, peraltro la legittimità costituzionale delle disposizioni che le riguardano, ribadendo la tesi che, pur non avendo dubbi che la funzione giurisdizionale sia funzione esclusivamente statale, da ciò non deriverebbe necessariamente che debba essere esercitata da organi dello Stato, purché siano costituite in base a leggi dello Stato.
Considerato in diritto
1. - Le tre cause, relative alle deliberazioni dei Comuni di Muro Lucano, di Pomezia e di Tramonti, devono essere riunite e decise con unica sentenza, poiché riguardanti le stesse questioni.
Risulta dalla esposizione del fatto che l'Avvocatura dello Stato, nelle deduzioni, rileva che le questioni di legittimità costituzionale, sollevate con le predette deliberazioni, sarebbero inammissibili in questa sede, qualora si escludesse il carattere giurisdizionale delle deliberazioni dei Consigli comunali nella materia del contenzioso elettorale.
Tale rilievo (in relazione all'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e all'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87), riguardando la competenza di questa Corte, deve essere preliminarmente esaminato, anche se non ha formato oggetto di specifiche conclusioni.
La Corte osserva che il carattere giurisdizionale delle decisioni predette, in quanto rivolte alla tutela di diritti subiettivi perfetti, é stato riconosciuto dalla quasi unanime dottrina ed affermato dalla costante giurisprudenza, sia in relazione alla legge del 20 marzo 1865, n. 2248, all. A, che ha istituito il contenzioso elettorale, sia in relazione alla elaborazione legislativa successiva a detta legge e fino al T.U. del 1960, n. 570, per le elezioni comunali, ed alla legge 18 maggio 1951, n. 328, per le elezioni provinciali.
Tale opinione, oltreché dalla tradizione quasi secolare trae conferma dal sistema adottato nelle varie disposizioni legislative che, fino a quelle vigenti, sono state emanate per le elezioni provinciali e comunali. Dal quale sistema si desumono elementi a favore dell'accennata opinione che, ad avviso della Corte, non restano superati dalle argomentazioni addotte da una parte della dottrina più recente, per sostenere che le decisioni predette rimangono nell'ambito dei provvedimenti amministrativi, pur essendo emesse nel corso di un procedimento contenzioso.
Per quanto attiene, infatti, alle controversie sull'eleggibilità e sulle operazioni elettorali, concernenti sicuramente diritti politici fondamentali nel vigente sistema costituzionale, l'attività degli organi elettivi, non é esercitata d'ufficio (come per le operazioni di convalida, che devono essere compiute, in base all'art. 75 del T.U. del 1960, nella seduta immediatamente successiva alle elezioni), ma é sollecitata esclusivamente ad iniziativa della parte, la quale (artt. 82 e 83 del detto T.U., che riproducono gli artt. 67, 74 e 75 del T.U. 5 aprile 1951, n. 203, e 43 della legge 23 marzo 1956, n. 136) deve notificare giudiziariamente i ricorsi in prima sede e i reclami preveduti dalla legge, alle persone che possono avere interesse, le quali hanno facoltà di rispondere entro il termine di dieci giorni. É palese che, in tal maniera, si instaura il contraddittorio, che si svolge non già, come in altri casi, nei con fronti dell'Amministrazione, bensì fra le parti private, rimanendo a queste estraneo l'organo chiamato a decidere le controversie. Che se dall'eventuale astensione di vari componenti, o da qualsiasi altro motivo, derivasse l'inattività dell'organo, la legge (quarto comma dell'art. 82, sopra ricordato) stabilisce che, sempre previa istanza di parte, sulle controversie decide la Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale. É da rilevare, altresì, che le decisioni adottate dai Consigli comunali o da quelli provinciali, se non sono impugnate nei termini stabiliti dalla legge (art. 82, comma quinto), acquistano quella immutabilità che, di regola, inerisce alle pronunzie giurisdizionali. Né, ad avviso della Corte, sono rilevanti per escludere il carattere giurisdizionale delle decisioni predette, talune particolarità che si riscontrano nel procedimento contenzioso elettorale, più strettamente attinenti alla forma della decisione. In quanto cioè, questa si concreta in una deliberazione e non in una sentenza in senso tecnico - processuale, non é pronunziata in nome del popolo italiano e non richiede la sottoscrizione di tutti i componenti del collegio, dei quali non é neppure determinato il numero. Queste deviazioni, rispetto alla struttura del processo ordinario, invero, si ricollegano alle caratteristiche dell'organo investito del giudizio, che esplica la potestà giurisdizionale nelle forme che gli sono proprie, nell'esercizio del potere, riconosciuto anche agli organi elettorali locali secondo il sistema democratico adottato dalla Costituzione (art. 66 per quanto riguarda le Camere del Parlamento), di decidere sulle contestazioni relative alle elezioni dei propri componenti.
Non si può, d'altronde, ritenere che l'eventuale rifiuto, da parte dei Consigli comunali e provinciali, di deliberare entro il termine fissato dalla legge, resti senza sanzione, poiché, in tal caso, gli organi decidenti in prima sede vengono privati del potere, di cui si é fatto cenno. Stabilisce, infatti, l'art. 82, quarto comma, che verificandosi tale ipotesi, del giudizio sui ricorsi é investita la Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale su istanza delle parti interessate. Il che distingue, sostanzialmente, tale competenza dall'avocazione in sede di tutela, alla quale, invece, si provvede di ufficio, come é stabilito anche dall'art. 78, secondo comma, del T.U. del 1960, per il caso in cui i Consigli omettano di pronunziare sulla convalida, nella seduta amministrativa immediatamente successiva alle elezioni.
Non costituisce, poi, sufficiente ragione per negare il carattere giurisdizionale alle deliberazioni degli organi elettivi locali, il fatto che, nel contenzioso elettorale, per quanto riguarda le controversie sull'eleggibilità, sono previsti quattro, anziché tre gradi di giurisdizione, come di regola nel processo ordinario. A parte che la deroga in tal senso alla struttura del processo ordinario non é fenomeno estraneo al nostro ordinamento, nella specie detta deroga appare giustificata, da un lato, dalla sopracennata speciale competenza degli organi elettivi locali, dall'altro dalla necessità di assicurare in ogni caso i tre gradi di giurisdizione, qualora gli anzidetti organi non possano o non vogliano decidere. É pure da notare, infine, che, tanto le disposizioni del T.U. del 1960, quanto quella della legge del 18 maggio 1951 sopra ricordate, hanno riprodotto, circa il contenzioso elettorale, il particolare sistema giurisdizionale già disciplinato nella precedente legislazione. Di guisa che non può ravvisarsi un contrasto fra le predette disposizioni e la Costituzione poiché, secondo quanto ha già ritenuto questa Corte con la sentenza n. 41 del 1957, la nuova Costituzione non ha automaticamente soppresso le giurisdizioni speciali già esistenti, ma ne ha disposto la revisione.
2. - Nel merito, la Corte deve esaminare tre questioni di legittimità costituzionale:
1) se sia in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione l'art. 15 del T.U. 16 maggio 1960, n. 570, che prevede i casi di ineleggibilità alla carica di consigliere comunale, con particolare riguardo all'ipotesi di lite pendente (n. 6) e di morosità (n. 9);
2) se sia in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione la disposizione contenuta nel citato numero 6;
3) se siano in contrasto con gli artt. 1, 5 e 101 della Costituzione le disposizioni degli articoli da 278 a 282 del T.U. 14 settembre 1931, n. 1175, per la finanza locale.
Circa la prima questione, secondo le deliberazioni dei Consigli comunali, il dubbio sulla legittimità dell'intero art. 15 deriverebbe dalla violazione del principio dell'eguaglianza dei cittadini nell'esercizio dei diritti politici, con particolare riferimento all'elettorato passivo.
A sostegno della illegittimità la difesa delle parti private esclude anzitutto che, per quanto attiene alle elezioni per le cariche nelle amministrazioni locali, la legge ordinaria possa stabilire cause di ineleggibilità, dato che questo potere, in base agli artt. 65 e 122 della Costituzione, é attribuito soltanto per la disciplina delle elezioni alle Camere del Parlamento (l'art. 65) e delle elezioni regionali (art. 122). Deduce, quindi, in sostanza, che la questione debba essere esaminata in riferimento all'art. 51; il quale, riaffermando, per quanto riguarda l'elettorato passivo, il principio fondamentale dell'eguaglianza, sancito nell'art. 3, ammetterebbe soltanto che la legge ordinaria, oltre l'impedimento derivante dall'indegnità, possa, come condizione di eleggibilità, stabilire requisiti attinenti alla capacità e all'attitudine dei candidati.
Tale presupposto, peraltro, non può essere accolto.
É vero che la Costituzione, dettando soltanto alcune norme per le elezioni politiche e regionali, deferisce espressamente al legislatore ordinario la determinazione delle cause di ineleggibilità (artt. 65 e 122). Ma a non diversa conclusione é necessario pervenire anche in riferimento agli organi elettivi dei Comuni e delle Province. L'art. 128 della Costituzione, con norma di carattere generale, proclamando l'autonomia dei predetti enti nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica che ne determinano le funzioni, non può non avere pure lasciato alle stesse leggi di disciplinare anche l'organizzazione di carattere elettivo.
La tesi contraria porterebbe a ritenere che, per le elezioni amministrative, a differenza di quelle politiche e regionali, al legislatore ordinario non sarebbe consentito stabilire cause di ineleggibilità, in contrasto col sistema unitario che deve regolare la partecipazione dei cittadini alle cariche pubbliche.
Ciò posto, se anche, come si sostiene dalla difesa delle parti, la riserva di legge contenuta nell'art. 51 si volesse intendere nel senso restrittivo sopra accennato, non ne deriverebbe, tuttavia, l'incostituzionalità dell'art. 15, la cui legittimità si ricollega, per quanto si é osservato, al sistema accolto dalla Costituzione circa la disciplina delle cause di ineleggibilità e incompatibilità, ed é giustificata anche dalla norma generale contenuta nell'art. 128 della Costituzione stessa.
3. - Resta da esaminare se le varie disposizioni contenute nell'art. 15, considerate per se stesse, violino il principio fonda mentale dell'eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione e riaffermato espressamente nell'art. 51, per quanto riguarda l'accesso di tutti i cittadini agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
Ad avviso della Corte, peraltro, neppure sotto questo aspetto, posto in rilievo nelle deliberazioni dei Consigli comunali e dalla difesa delle parti, la questione di costituzionalità può ritenersi fondata.
É noto che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'osservanza del precetto fondamentale dell'eguaglianza non esclude che il legislatore possa disciplinare, con norme diverse, situazioni che egli considera differenziate, purché la diversità di trattamento, oltre ad obbedire a criteri di razionalità, riguardi categorie e non singoli cittadini, per non creare né privilegi né ingiuste sperequazioni.
Ora, i casi di ineleggibilità indicati nell'art. 15 del T.U. del 1960 (che trovano riscontro nella legislazione precedente a partire dalla legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, n. 2248, all. A, art. 25, con le modificazioni successivamente apportate), non appaiono in contrasto con gli accennati principi. Che tali casi si riferiscano, non già a singoli individui, bensì a categorie di persone, che, per le funzioni esercitate o per i loro rapporti del Comune, si vengono a trovare nelle situazioni che la legge ritiene incompatibili con la posizione di candidato alle elezioni, si desume chiaramente dalla formulazione stessa delle disposizioni legislative. D'altra parte, l'esclusione dall'elettorato passivo delle categorie anzidette risponde a imprescindibili esigenze di interesse generale, necessariamente inerenti alle consultazioni elettorali e particolarmente a quelle locali; esigenze che richiedono, da un lato, che la espressione del voto rappresenti la libera e genuina manifestazione di volontà dell'elettorato, donde l'ineleggibilità delle persone e dei funzionari (nn. 1, 2 e 10 dell'art. 15 citato) che possono esercitare pressioni sugli elettori stessi, ed impongono, dall'altro, che, all'attività degli organi elettivi, non partecipino soggetti che, per i rapporti di dipendenza diretta o indiretta dal Comune (nn. 3 e 4 dell'art. 15) o di affari col Comune medesimo (n. 7) o per posizioni personali di conflitto con l'amministrazione (nn. 5, 6, 8 e 9), non danno garanzia di obiettività e di disinteresse nell'esercizio delle funzioni alle quali aspirano. Esigenze che devono essere rispettate non soltanto nel momento dell'elezione, ma, altresì, durante tutto il periodo di durata della carica elettiva ricoperta, poiché, in base all'art. 9 del T.U. del 1960 (che riproduce l'art. 9 del T.U. 5 aprile 1951, n. 203, che a sua volta ripeteva la disposizione dell'art. 9 del D. L.L. 7 gennaio 1946, n. 1), si decade dalla carica di consigliere se si verifica uno degli impedimenti, delle incompatibilità, o delle incapacità contemplate dalla legge.
É vero che per le elezioni politiche T.U. del 30 marzo 1957, n. 361), pure essendo contemplati vari casi di ineleggibilità, non vi si comprendono tuttavia quelli per lite pendente o per morosità previsti dalle leggi elettorali amministrative. Da ciò, tuttavia, non si può trarre argomento per ritenere prive di congrua giustificazione le disposizioni ora ricordate; le quali rispondono all'esigenza di impedire che facciano parte degli organi elettivi coloro che si trovano in tali situazioni. Esigenza che assume particolare rilievo, per quanto riguarda le amministrazioni degli enti autarchici territoriali, dato il carattere localizzato dell'attività amministrativa e normativa ad essi attribuita. Il che chiarisce come siano state tuttora conservate, per le elezioni comunali e provinciali, le citate disposizioni contenute nei numeri 6 e 9 dell'art. 15; le quali risalgono, la prima alla legge del 20 marzo 1865, n. 2248, allegato A (art. 25), l'altra alla legge 11 luglio 1894, n. 287 (art. 11). Disposizioni che si riferiscono a situazioni le quali, con particolare evidenza, mettono in rilievo il conflitto tra l'interesse personale del candidato e l'interesse pubblico che la legge ha inteso salvaguardare. Il che é confermato anche dall'ultimo comma dell'art. 15 (che riproduce una disposizione aggiunta all'art. 6 della legge 23 marzo 1956, n. 136), il quale esclude l'applicabilità del n. 6 della ricordata disposizione per fatti connessi con l'esercizio del mandato già affidato all'amministratore, ritenendo soltanto necessaria la sospensione di questi dalla carica di sindaco o di assessore, fino all'esito del giudizio, se l'esercizio della carica comporti evidente pericolo di pregiudizio per l'ente.
Né, d'altra parte, contrariamente a quanto si fa rilevare dalla difesa delle parti, si può fondatamente ritenere che l'esclusione dall'elettorato passivo per lite pendente, e in generale, per posizione di contrasto con gli interessi del Comune, costituiscano cautele del tutto superflue, data la disposizione dell'art. 290 del T.U. della legge comunale e provinciale del 4 febbraio 1915, n. 148, tuttora in vigore in base all'art. 25 della legge 9 giugno 1947, n. 530. É vero, infatti, che, in base a detta disposizione, i componenti del Consiglio comunale o della Giunta, debbono astenersi dal partecipare a deliberazioni riguardanti interessi propri o dei loro congiunti ed affini fino al quarto grado. Ma l'astensione dalle deliberazioni non soddisfa compiutamente l'esigenza cui si ispira la legge, la quale considera non rispondente al buon andamento dell'amministrazione che ne facciano parte persone che, pur dovendosi astenere dal partecipare alle deliberazioni che le riguardano, per le cariche occupate, possano tuttavia spiegare attività a proprio vantaggio in contrasto con gli interessi dell'ente. Che se, d'altra parte, la legge ha considerato le situazioni di che trattasi con particolare rigore, ciò non può ovviamente avere rilevanza ai fini della legittimità costituzionale delle disposizioni impugnate. E del pari non possono avere rilevanza, in questa sede, gli inconvenienti, ai quali può dar luogo in pratica, come si deduce dalla difesa delle parti, la disposizione contenuta nel citato n. 6. Inconvenienti ai quali opportunamente potrà ovviare il legislatore.
Concludendo, quindi, in base alle considerazioni fin ora esposte, non é ravvisabile alcun contrasto fra le cause di ineleggibilità elencate nell'art. 15 del T.U. del 1960, n. 570, in particolare fra le disposizioni contenute nei numeri 6 e 9, e gli artt. 3 e 51 della Costituzione.
4. - Come in precedenza si é accennato, l'illegittimità costituzionale della disposizione del numero 6, relativa alla pendenza di lite, é prospettata anche in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
Nelle deliberazioni del Comune di Muro Lucano e del Comune di Tramonti il contrasto con i precetti costituzionali deriverebbe dal fatto che detta disposizione, violando anche il principio dell'eguaglianza, paralizzerebbe, nei riguardi di colui che pone la propria candidatura, il diritto di tutelare giurisdizionalmente i propri diritti ed interessi.
Dalla difesa delle parti si pone in rilievo che, dalla alternativa in cui viene posto il cittadino, conseguirebbe necessariamente la definitiva rinunzia all'esercizio di uno o dell'altro di due diritti costituzionalmente garantiti: il diritto di partecipare alla formazione degli organi elettivi e quello di agire o difendersi in giudizio, per il quale la Costituzione non ammetterebbe riserva di legge.
Neanche sotto questo aspetto, peraltro, la questione può ritenersi fondata.
É vero, infatti, che la legge ordinaria, comprendendo fra i casi di ineleggibilità la pendenza della lite fra il candidato e il Comune, richiede al cittadino una scelta, con conseguente rinunzia all'esercizio di alcuno dei diritti sopra indicati. Ma questa rinunzia deriva dalla libera iniziativa del cittadino, che, nell'ambito della propria autonomia e in base alla valutazione del proprio interesse, ritiene di indirizzare la sua attività al conseguimento dell'una o dell'altra posizione di vantaggio. Non diversamente avviene anche nei casi di incompatibilità fra cariche pubbliche, o fra queste e pubblici uffici, preveduti anche in varie norme della Costituzione. É vero che la incompatibilità produce conseguenze diverse dalla ineleggibilità, in quanto questa invalida l'elezione, mentre quella impone un'opzione. Ma ciò non esclude, tuttavia, che entrambe le ipotesi si ricolleghino ad uno stesso principio non contrastante col sistema costituzionale, ma che in questo trova anzi applicazione, come si é ora accennato.
5. - Nella deliberazione del Consiglio comunale di Tramonti, infine é stata proposta (ritenendone la rilevanza per escludere in definitiva la pendenza della lite) questione di legittimità costituzionale anche in relazione alle disposizioni contenute negli articoli da 278 a 282 del T.U. per la finanza locale (approvato con decreto del 14 settembre 1931, n. 1175), perché contrastanti con gli artt. 1, 5 e 101 della Costituzione. Le accennate disposizioni riguardano la istituzione, il funzionamento e la nomina dei componenti delle Commissioni e il contenzioso sui tributi locali.
Dalle difese delle parti, peraltro, si pone in dubbio il carattere giurisdizionale delle Commissioni anzidette e si assume che, se si ammette tale carattere, trattandosi di organi del Comune, le norme sopracitate sarebbero in contrasto col sistema costituzionale, secondo il quale la funzione giurisdizionale non può essere esercitata se non da organi dello Stato.
La Corte osserva che anche se si ammette la natura di organo comunale delle Commissioni e il carattere giurisdizionale della funzione ad esse attribuita, non ne deriverebbe, come si rileva nella deliberazione e si sostiene nelle difese delle parti, la incostituzionalità delle norme predette, in riferimento al principio sancito, non già negli artt. 1 e 5 della Costituzione, non a proposito richiamati, ma nell'art. 101 e seguenti. Principio secondo il quale, come si é già rilevato nella sentenza n. 12 del 1957, rientra nella competenza dello Stato l'organizzazione ed il funzionamento degli organi giurisdizionali. Senonché con tale principio non contrasta il fatto che lo Stato stesso, con proprie leggi, attribuisca (e nel nostro ordinamento non mancano esempi del genere) la funzione giurisdizionale ad organi appartenenti ad enti diversi dallo Stato, e che a tali enti sia anche deferita la nomina dei componenti. I quali organi, peraltro, dato il principio dell'unità della giurisdizione, sancito dai ricordati precetti costituzionali, in quanto esercitano le funzioni ad essi attribuiti e, limitatamente all'esercizio delle funzioni medesime, vengono ad inserirsi nell'organizzazione unitaria dello Stato.
Per tali considerazioni anche la questione di legittimità costituzionale ora esaminata deve ritenersi infondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
pronunciando con unica sentenza sulle tre cause riunite, indicate in epigrafe:
dichiara non fondate le questioni sollevate dal Consiglio comunale di Muro Lucano con deliberazione dell'11 luglio 1960, e dai Consigli comunali di Pomezia e di Tramonti, Con deliberazioni del 25 febbraio 1961, sulla legittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell'art. 15 del T.U. 16 maggio 1960, n. 570 (per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali), in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione; della disposizione contenuta nel n. 6 del predetto art. 15, in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione; e degli artt. da 278 a 282 del T.U. del 14 settembre 1931, n. 1175, per la finanza locale, in riferimento agli artt. 1, 5 e 101 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 1961.
Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI
Depositata in cancelleria l'11 luglio 1961.