SENTENZA N. 29
ANNO 1961
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente
Prof. Gaspare AMBROSINI
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del D.L.L. 26 marzo 1946, n. 134, promosso con ordinanza emessa il 17 giugno 1959 dalla Corte di appello di Firenze nel procedimento civile vertente tra Sestini Amerigo, Dumini Amerigo e Dumini Flora, quali eredi di Jessie Wilson, Dumini Amerigo, in proprio, e l'Amministrazione finanziaria dello Stato, iscritta al n. 36 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 100 del 23 aprile 1960.
Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 15 marzo 1961 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;
uditi l'avv. Lelio Lucherini, per Sestini Amerigo, gli avvocati Pompeo Pezzatini e Franco Mariani, per i Dumini, e il vice avvocato generale dello Stato Cesare Arias, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per l'Amministrazione finanziaria dello Stato.
Ritenuto in fatto
Con atto di citazione del 7 gennaio 1952, l'Amministrazione finanziaria dello Stato, e per essa l'Intendente di finanza di Firenze, conveniva davanti al Tribunale della stessa città la signora Wilson Jessie, ved. Dumini, ed il di lui figlio Dumini Amerigo, in persona del curatore speciale, avv. Puccinelli, per sentir dichiarare, a norma dell'art. 2 del D. L.26 marzo 1946, n. 134, privo di effetto, e quindi revocato, l'atto 29 settembre 1943 col quale il Dumini aveva donato alla propria madre un quartiere di quattro vani in Firenze, alla via Pisana, n. 57; e ciò per effetto dell'ordinanza del 3 giugno 1950 della Corte di appello di Roma, confermata dalla Corte di cassazione con decisione del 22 novembre 1950, con la quale era stata disposta la confisca totale dei beni del Dumini, a seguito della condanna a 30 anni di reclusione inflittagli dalla Corte straordinaria di assise di Roma con sentenza del 4 aprile 1947.
Nel giudizio interveniva volontariamente Sestini Amerigo, il quale aveva acquistato il medesimo quartiere con atto 16 maggio 1950.
Il Tribunale, con sentenza 22 dicembre 1955-26 gennaio 1956, ammesso l'intervento in giudizio del Sestini, dichiarava inefficace, di fronte all'Amministrazione finanziaria, tanto l'atto di donazione 29 settembre 1943 che la compravendita 16 maggio 1950, autorizzando l'Amministrazione attrice ad apprendere il quartiere in questione. Contro questa sentenza, con atto 9 maggio 1956, proponeva appello, per vari motivi, il Sestini. Deceduta nelle more del giudizio la Wilson Jessie, il giudizio fu riassunto in confronto degli eredi, Dumini Flora ed Amerigo. Contumace l'Amerigo Dumini, la sorella Flora, con adesione del Sestini, eccepiva la incostituzionalità degli artt. 3 e 6 del D.L.L. 27 luglio 1944 in riferimento all'art. 25 della Costituzione. La Corte di appello con ordinanza del 17 giugno 1959, rilevando che la confisca dei beni di Dumini Amerigo era stata disposta in base all'art. 1, comma secondo, del D.L.L. 26 marzo 1946, n. 134, e non già in forza dei sopra citati artt. 3 e 6 del decreto n. 159 del 1944, respinse la eccezione. Ritenne, tuttavia, di dover proporre di ufficio altra questione, non ritualmente sollevata dalla difesa della Flora Dumini, relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del D.L.L. 26 marzo 1946, n. 134, il quale, col disporre la confisca dei beni dei condannati, avrebbe introdotta una nuova sanzione punitiva per fatti commessi anteriormente, sanzione che verrebbe a trovarsi in contrasto col secondo comma dell'art. 25 della Costituzione, in virtù del quale "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La sollevata questione, secondo l'ordinanza, "se fondata, porterebbe come conseguenza la nullità dell'ordinanza di confisca emessa dalla Corte di appello di Roma e, quindi, la reiezione della domanda proposta dall'Amministrazione finanziaria".
L'ordinanza, regolarmente notificata, iscritta al n. 36 del Reg. ord. del 1960, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 23 aprile 1960, n. 100. Nel giudizio davanti a questa Corte si sono costituiti l'Amministrazione finanziaria dello Stato e il Presidente del Consiglio dei Ministri, con atti di intervento e deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato, nonché Dumini Flora, Dumini Amerigo e Sestini Amerigo.
Le argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato, contenute nell'atto di intervento e nella memoria presentata il 7 dicembre 1960, possono così riassumersi:
1) Irrilevanza ed inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del D.L.L. 26 marzo 1946, n. 134. Si esclude la pertinenza e rilevanza della predetta questione, in quanto nel giudizio di merito non si tratta di applicare la impugnata disposizione, bensì quella del successivo art. 2, la quale stabilisce l'inefficacia degli atti a titolo gratuito posti in essere dal condannato. La questione della legittimità Costituzionale dell'art. 1, comma secondo, avrebbe potuto essere sollevata durante il corso del giudizio penale, e più precisamente in sede di ricorso per cassazione contro l'ordinanza di confisca del 1 gennaio 1950, confermata dalla Cassazione con decisione del 22 novembre dello stesso anno, e quindi, secondo l'Avvocatura, divenuta cosa giudicata. Attualmente non é più in questione la norma che stabilisce la confisca dei beni del condannato, confisca che per effetto del giudicato é divenuta un presupposto definitivo ed irrevocabile, bensì quella che stabilisce la revoca dei negozi giuridici posti in essere dal condannato i cui beni siano stati confiscati, norma in ordine alla quale nessuna questione di legittimità costituzionale é stata sollevata.
2) Il raffronto fra la norma impugnata ed il secondo comma dell'art. 25 della Costituzione ha per presupposto che la confisca abbia vero e proprio carattere di "pena". A tal proposito l'Avvocatura, riportandosi ai pronunciati della Corte di cassazione nello stesso senso, sostiene che la confisca, quale fu disposta nel citato D.L.L. 27 luglio 1944, non ha carattere di pena:
a) in quanto svincolata dalle vicende dell'azione penale, per espressa disposizione dell'art. 1 dello stesso D.L.L. n. 134 del 1946;
b) perché applicabile anche in confronto degli eredi del colpevole (comma quinto dell'art. 1), il che é incompatibile col carattere tipicamente personale della pena;
c) perché applicabile anche quando il reato siasi estinto per qualsiasi causa (comma terzo dell'art. 1 del D.L.C.P.S. 13 novembre 1946, n. 1392);
d) perché, nel caso che non sia stata applicata con la sentenza di condanna o che il reato sia estinto, può essere applicata solo su richiesta del Ministro delle finanze (art. 1, comma quinto, del D.L.L. n. 134); mentre, se avesse carattere di pena, la richiesta spetterebbe al Pubblico Ministero, e se fosse pena accessoria conseguirebbe di diritto alla condanna come effetto penale di essa (art. 20 Cod. pen.).
3) Nella denegata ipotesi che la confisca disposta dall'art. 1 del D.L.L. n. 134 del 1946 dovesse considerarsi una vera e propria pena, si dovrebbe pur sempre concludere per la impossibilità di un riferimento all'art. 25 della Costituzione. E ciò perché il decreto n. 134 del 1946 (come gli altri che lo hanno preceduto), in quanto trae origine e fondamento dal ricordato D.L.L. n. 159, ha carattere di legittimità nei confronti della Costituzione, avendo le sue norme, poste in relazione alle disposizioni transitorie XVI, XIII e XV, natura tipicamente costituzionale, e come tali escludenti una questione di legittimità costituzionale.
Nelle deduzioni e nella memoria illustrativa, presentata il 6 dicembre 1960, la difesa del Sestini e degli eredi Dumini, in risposta all'Avvocatura dello Stato, ha svolte le seguenti obiezioni:
1) Non ha fondamento la eccezione pregiudiziale dell'Amministrazione finanziaria. L'art. 2 del D.L.L. n. 134 trae la sua essenza dall'art. 1 dello stesso decreto, in guisa tale che, riconosciuta incostituzionale la norma dell'art. 1, ne deriva l'incostituzionalità anche della norma del successivo art. 2, relativo alla inefficacia degli atti a titolo gratuito posti in essere dal condannato. D'altra parte il Sestini non avrebbe potuto sollevare l'eccezione di incostituzionalità di qualsiasi norma che incida sul negozio giuridico se non quando avesse avuto ritualmente la facoltà di farlo, e cioè in quel qualsiasi giudizio nel quale gli fosse stato opposto, quale titolo esecutivo, il provvedimento adottato, in forza, appunto, della norma incostituzionale. Sempre a proposito della stessa eccezione pregiudiziale, la difesa dubita che la rilevanza della questione possa essere oggetto di sindacato da parte della Corte costituzionale; e circa l'assunto passaggio in giudicato dell'ordinanza di confisca rileva che tale ordinanza é per sua natura "revocabile", e non può assumere, pertanto, come la sentenza, carattere definitivo.
2) Nel merito la difesa, riportandosi a quella parte della giurisprudenza e della dottrina che sostennero eguale orientamento, deduce che la confisca, così come prevista dalla legislazione delle sanzioni contro il fascismo, ha carattere di pena principale, e come tale, per l'efficacia retroattiva attribuitale, in contrasto con l'ordinamento costituzionale dello Stato italiano.
3) Si sostiene, infine, essere priva di fondamento l'affermazione secondo la quale il riferimento all'art. 25 della Costituzione sarebbe da escludersi in base al carattere costituzionale che, secondo l'Avvocatura dello Stato, le norme del D.L.L. n. 134 del 1946 avrebbero assunto in forza della XV disposizione transitoria della Costituzione.
Considerato in diritto
La Corte ritiene infondata la eccezione pregiudiziale sollevata dall'Avvocatura dello Stato, con la quale si deduce la improponibilità della proposta questione di legittimità costituzionale, in quanto "né pertinente né rilevante". Le argomentazioni dell'Avvocatura, infatti, sia in ordine alla contestata influenza della norma impugnata sul giudizio di merito, sia per ciò che riguarda l'asserita irrevocabilità dell'ordinanza di confisca, sollecitano in sostanza una valutazione intrinseca dei coefficienti della rilevanza, che a questa Corte non spetta di compiere. É innegabile, invece, che siffatta valutazione é stata, come di ragione, compiuta dalla Corte di appello di Firenze, e ciò particolarmente nel punto in cui ad una eventuale dichiarazione di fondatezza della questione di legittimità costituzionale viene ricollegata come conseguenza "la nullità dell'ordinanza di confisca emessa dalla Corte di appello di Roma e, quindi, la reiezione della domanda proposta dall'Amministrazione finanziaria"; valutazione che sostanzialmente implica tutta la materia della eccezione proposta dalla Avvocatura, e che non può essere oggetto di ulteriore esame da parte di questa Corte.
Ritiene però la Corte, nel valutare l'effettivo contenuto della norma che é sottoposta al giudizio di legittimità costituzionale, che siano fondate le argomentazioni dell'Avvocatura tendenti ad escludere, nella confisca dei beni, così come configurata dall'art, 1 del citato D.L.L. 26 marzo 1946, il carattere di pena, il quale carattere é presupposto indispensabile per il riferimento a un principio costituzionale che riguarda, appunto, l'istituto della pena.
É noto che la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica. Il suo contenuto, infatti, é sempre la stessa privazione di beni economici, ma questa può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varia finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione o di pena, o di misura di sicurezza, ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa. Ciò che, pertanto, spetta di considerare non é una astratta e generica figura di confisca, ma, in concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge.
La confisca dei beni che é oggetto della presente questione manifesta chiaramente la sua natura non penale attraverso i caratteri che le furono attribuiti dall'art. 1 del D.L.L. 26 marzo 1946, ribaditi dall'art. 1 del decreto legislativo 19 novembre 1946, n. 392: caratteri che si riassumono essenzialmente nella applicabilità della confisca anche dopo la estinzione del reato e anche in confronto degli eredi. Ora, sebbene i provvedimenti denominati "sanzioni contro il fascismo" (intestazione del D.L.L. 27 luglio 1944, n. 159) siano stati indubbiamente dettati da eccezionali esigenze, non v'é nulla, tuttavia, nel testo di quelle disposizioni, e neanche nella eccezionale ragione e finalità loro, che possa comunque dar fondamento a una tale idea della pena per cui essa si renderebbe applicabile anche agli eredi e anche dopo estinto il reato; e precisamente: anche ai soggetti non responsabili, e anche all'illecito giuridicamente non più esistente. E non soltanto non é possibile rinvenire, nel complesso di quelle norme, alcun indizio, né - tanto meno - alcuna pratica necessità, di una tale configurazione; ma v'é, al contrario, sufficiente ragione per ritenere che esse furono dettate senza alcuna brusca interruzione del principio della personalità della pena, anzi nel pieno rispetto di esso, se si tien presente, tra l'altro, che un tal principio doveva ricevere, poco dopo, nell'art. 27 della Costituzione, una esplicita e decisa riaffermazione, tanto più significativa in quanto d'ordinario (e a differenza di altri) questo principio non é espresso nelle leggi, ma connaturato alla essenza stessa degli istituti penali e della penale responsabilità.
Per ciò che riguarda gli eredi, non si può non ammettere che su di essi inevitabilmente incida l'onere delle misure patrimoniali disposte a carico del de cuius, ma ciò soltanto come conseguenza indiretta della diminuzione sofferta dal patrimonio, ovvero, nell'ambito dell'istituto successorio, in quanto trasferimento di obblighi di natura prettamente patrimoniale. Ed é appunto in questo quadro che va inserita l'applicabilità della confisca in questione anche agli eredi e anche dopo estinto il reato; vale a dire come misura non penale, che incide obbiettivamente sui beni ovunque e presso chiunque si trovino. Del che é ulteriore conferma in altri elementi, desumibili dai due decreti legislativi del 26 marzo e del 19 novembre 1946, n. 134 e n. 392, e principalmente: dalla intestazione dei due citati decreti, la quale ebbe per oggetto l'"inquadramento nel sistema tributario dell'avocazione dei profitti di regime"; dalla potestà di rimuovere il procedimento di confisca, attribuita, nei casi di avvenuta estinzione del reato, al Ministro delle finanze; e, infine, dalla norma (art. 4 del D.L. del 19 novembre 1946) relativa al provvedimento dell'Intendente di finanza per la determinazione dei beni soggetti a confisca, provvedimento da notificarsi, oltre che al condannato, "ai suoi aventi causa ed agli eventuali terzi possessori o detentori": tutti elementi che, nel loro insieme, e in aggiunta alle precedenti considerazioni, escludono nella confisca dei beni, quale fu prevista dalla norma impugnata, il carattere di pena, configurandola, invece, come misura amministrativa finanziaria a carattere restitutorio e riparatorio.
Tale conclusione esime la Corte dal procedere oltre nella indagine e dal prendere in esame l'altra argomentazione dell'Avvocatura generale dello Stato, nella quale (a parte un inesatto richiamo all'art. 2 in tema di leggi eccezionali o temporanee) si profila il concetto di una particolare natura delle norme contenute nel decreto legislativo n. 134 e nelle altre leggi precedenti, tale da non consentire per esse la configurazione di una questione di legittimità costituzionale. E ovvio che il dichiarare ultroneo nella presente causa il risolvere siffatta questione non significa escludere che se ne possa riconoscere la fondatezza, ove si presenti in altra controversia la necessità del suo esame.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
respinta la eccezione pregiudiziale dell'Avvocatura generale dello Stato:
dichiara non fondata la questione, proposta con ordinanza del 17 giugno 1959 della Corte di appello di Firenze, sulla legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, del D.L.L. 26 marzo 1946, n. 134, in riferimento all'art. 25, comma secondo, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 maggio 1961.
Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI
Depositata in cancelleria il 9 giugno 1961.