Sentenza n. 26 del 1958
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SENTENZA N. 26

ANNO 1958

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. Gaetano AZZARITI, Presidente

Avv. Giuseppe CAPPI

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI,  

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, quarto comma, del decreto legge 25 febbraio 1924, n. 456, promosso con ordinanza 12 dicembre 1956 del Tribunale regionale della acque di Torino, emessa nel procedimento civile vertente tra il Consorzio irriguo della Grangia di Gazzo e l'Amministrazione generale dei canali demaniali di irrigazione (Canali Cavour), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 64 del 9 marzo 1957 ed iscritta al n. 29 del Registro ordinanze 1957.

Udita nell'udienza pubblica del 12 febbraio 1958 la relazione del Giudice Antonino Papaldo;

uditi l'avv. Arturo Colonna per il Consorzio irriguo della Grangia di Gazzo ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Guglielmi per l'Amministrazione generale dei canali demaniali di irrigazione (Canali Cavour).

 

Ritenuto in fatto

 

Con atto anteriore alla unificazione del Regno d'Italia, le Finanze dello Stato di Sardegna vendettero al signor Bartolomeo Oddone un vasto tenimento in territorio di Casale Monferrato, denominato Gazzo e Rosolino, e nel relativo atto (rogito Barnato del 13 dicembre 1855) venne stabilito, fra l'altro, che l'acquirente assumeva l'obbligo di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria dei canali e degli edifici demaniali, siti sul tenimento venduto, e che l'amministrazione avrebbe erogato gratuitamente da detti canali una certa quantità d'acqua per l'irrigazione del fondo.

Frazionatasi l'originaria proprietà Oddone, si costituì fra gli aventi causa il Consorzio irriguo della Grangia di Gazzo. I canali considerati nel rogito Barnato passarono sotto la gestione dell'Amministrazione generale dei canali demaniali di irrigazione (Canali Cavour).

Narra la difesa del Consorzio che una prima controversia insorse fra le parti sul punto se l'obbligo di manutenzione dei cavi di proprietà delle Finanze, esistenti entro il perimetro dei detti poderi, importasse anche l'obbligo del Consorzio di concorrere nelle spese per opere idrauliche di difesa eseguite fuori del perimetro dei poderi; controversia definitivamente decisa con la sentenza 26 giugno 1947 della Corte d'appello di Torino, la quale affermò la sussistenza di tale obbligo del Consorzio.

Altra controversia fra le stesse parti nacque allorché l'Amministrazione dei canali provvide ad imporre, per l'acqua che essa doveva erogare al tenimento, il pagamento del canone, assumendo di essere a ciò legittimata in virtù dell'art. 7, quarto comma, del decreto legge 25 febbraio 1924, n. 456. Il Consorzio promosse azione giudiziale per far dichiarare che, essendosi l'Amministrazione dei canali demaniali resa, di fatto, inadempiente al suo obbligo contrattuale della erogazione gratuita dell'acqua, era perciò venuto meno, ai sensi dell'art. 1563 Codice civile, l'obbligo del Consorzio di provvedere alla manutenzione dei canali e degli edifici demaniali.

Il Tribunale regionale delle acque pubbliche di Torino, con sentenza del 20 ottobre 1950 accolse la domanda del Consorzio, ma, in sede di appello, il Tribunale superiore delle acque pubbliche, con sentenza del 28 aprile 1951, la respinse. La Corte di cassazione, a sua volta investita dell'esame della questione, con decisione del 14 agosto 1953, respinse il ricorso, confermando così la decisione del Tribunale superiore.

Successivamente, avverso l'avviso di pagamento del 1 dicembre 1954 con cui l'Amministrazione dei canali demaniali richiedeva al Consorzio il pagamento del canone relativo all'annata irrigua 1954 - 55, il Consorzio propose ricorso al Tribunale regionale delle acque pubbliche di Torino, eccependo l'illegittimità costituzionale del quarto comma dell'art. 7 del decreto del 1924, n. 456, ed assumendo che la citata norma non poteva trovare applicazione nel caso di specie, riferendosi essa alle utenze che originano da atti dei cessati Stati anteriori all'unificazione, mentre il Regno di Sardegna, la cui amministrazione stipulò il rogito Barnato, non poteva equipararsi ad alcun cessato Stato, costituendo esso, invece, l'antecedente diretto del Regno d'Italia.

Il Tribunale regionale delle acque di Torino, con ordinanza del 12 dicembre 1956, rilevava che questa ultima questione era coperta dal giudicato formatosi tra le parti nel precedente giudizio di merito; riteneva, poi, che la questione di legittimità costituzionale fosse influente ai fini del decidere e non manifestamente infondata, potendo ravvisarsi un contrasto con l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, e pertanto, sospeso il giudizio in corso, rimetteva gli atti alla Corte costituzionale.

L'ordinanza, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 9 marzo 1957, n. 64, e ritualmente notificata alle parti il 19 gennaio 1957 ed al Presidente del Consiglio dei Ministri il 30 dello stesso mese, veniva comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento in data 24 gennaio 1957.

Nel presente giudizio si é costituito il Consorzio della Grangia di Gazzo, la cui difesa, nella comparsa e nella memoria, depositate in cancelleria, rispettivamente, il 13 marzo 1957 e il 30 gennaio 1958, haconcluso per la dichiarazione d'illegittimità costituzionale del quarto comma dell'art. 7 del decreto legge del 1924, n. 456, in relazione all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, deducendo quanto segue:

1) Osserva preliminarmente il Consorzio che non può dubitarsi dell'ammissibilità della sollevata eccezione, in quanto, avendo l'Amministrazione demaniale posto a base della sua domanda di pagamento del canone proprio l'impugnato art. 7, comma quarto, del decreto del 1924, non si può ora sostenere, da parte della stessa Amministrazione, ai fini di una eventuale declaratoria d'inammissibilità, che la norma ha ormai esaurito la sua funzione e che non é più suscettibile di applicazione. Sta di fatto, invece, che la norma impugnata, assoggettando al pagamento del canone le utenze già gratuite, ha posto in essere un'espropriazione sui generis, il cui vero e più grave effetto é la creazione di un diritto di credito a favore dell'Amministrazione, ed a carico del Consorzio, di carattere continuativo, in quanto durerà fino a quando si riscuoteranno i canoni.

Né é lecito - continua il Consorzio - distinguere i canoni ed i titoli giuridici in forza dei quali sono richiesti e riscossi, a seconda che si tratti del primo periodo di utenza o del secondo, così detto di "rinnovazione", perché, come si é pronunziata la Corte di cassazione, la temporaneità delle utenze non va confusa con la loro gratuità, e mentre la prima fu disciplinata con i decreti 20 novembre 1916, n. 1664, e 9 ottobre 1919, n. 2161, la seconda fu soppressa con il decreto legge 1924, n. 456.

2) Quanto al merito, premette anzitutto il Consorzio che non si é mai dubitato, né in dottrina né in giurisprudenza, che quando le leggi sulle acque pubbliche del 1884, n. 2644, 1919, n. 2161, 1933, n. 1775, parlano di titoli legittimi, originati da leggi anteriori, intendono riferirsi a tutti gli atti emanati in precedenza e così anche agli atti dei cessati Stati. Il che dimostra che lo Stato italiano, lungi dal non essersi considerato tenuto a rispettare i diritti di utenza preesistenti alla unificazione del Regno, ha invece (implicitamente con l'art. 615 del Codice civile del 1865, esplicitamente con l'art. 29 delle disposizioni transitorie dello stesso Codice, e poi con l'art. 132 della legge 20 marzo 1865, riprodotto nelle successive leggi del 1884, del 1919 e nel T.U. del 1933) riconosciuto l'attuale e persistente efficacia degli atti e dei contratti compiuti e stipulati in materia dagli Stati cessati.

3) A sostegno poi della sua impugnazione, rileva il Consorzio che il citato art. 7, quarto comma, del decreto del 1924, n. 456, sottopone al pagamento del canone tutte indistintamente le utenze dei canali demaniali, anche quando, come nel caso che ne occupa, il diritto all'uso gratuito dell'acqua fu costituito come condizione della compravendita del fondo. Ora, nel disporre l'imposizione del canone per gli usi e le derivazioni d'acqua costituiti prima dell'unificazione del Regno d'Italia, l'intenzione del legislatore, come si evince dalla stessa relazione ministeriale sul provvedimento in parola, fu quella di addivenire ad un'espropriazione del diritto dell'utente con esclusione di qualsiasi indennizzo. Vero é - continua il Consorzio - che anche i diritti d'uso gratuito d'acqua dei canali demaniali possono essere oggetto di espropriazione per pubblica utilità, ma é anche vero che la espropriazione non può aver luogo senza la corresponsione di un'indennità, a norma dell'art. 29 dello Statuto albertino e dell'art. 42, terzo comma, della Costituzione.

La norma in esame, invece, avendo disposto l'espropriazione senza indennizzo dei diritti d'uso gratuito d'acqua, costituiti anteriormente all'unificazione del Regno d'Italia, ha violato entrambe le disposizioni. E la violazione fu nota allo stesso legislatore del 1924 e fu da esso espressamente voluta, tanto che nella relazione ministeriale che accompagna il decreto del 1924, é riconosciuto che esso non era perfettamente legittimo e che appunto per questo si provvedeva a modificare il diritto. Anzi il legislatore giustificò l'emanazione della norma con le "necessità delle finanze che sono forse il primo dei bisogni pubblici" e con il vantaggio finanziario che ne derivava per l'erario.

Ora, si sostiene dal Consorzio, é vero che la dottrina più recente ha esteso il concetto di causa dell'espropriazione anche ai bisogni pubblici diversi da quelli che derivano dalla costruzione di una nuova opera, ma é opinione costante che fra gli interessi pubblici, in considerazione dei quali la espropriazione può essere consentita, non può annoverarsi anche l'interesse fiscale e finanziario dello Stato.

Né può dirsi che una specie di indennizzo può ravvisarsi nella rinnovazione trentennale dell'utenza già perpetua, perché, a parte ogni altra considerazione, quando il legislatore ha voluto attribuire un indennizzo, lo ha detto espressamente, come si evince dal comma quinto dello stesso art. 7.

Esclusione di indennizzo e mancanza di un pubblico interesse sarebbero quindi i due vizi dell'art. 7, quarto comma, del decreto legge 25 febbraio 1924, n. 456, del quale il Consorzio chiede che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale, perché in contrasto con l'art. 42, terzo comma, della Costituzione.

L'Amministrazione generale dei canali demaniali di irrigazione (Canali Cavour), rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, si é anch'essa costituita in giudizio; con le deduzioni e con le note aggiuntive depositate in cancelleria, rispettivamente, addì 8 febbraio 1957 e 24 gennaio 1958, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. E ciò per i seguenti motivi:

1) In ordine all'eccepita inammissibilità, l'Avvocatura generale dello Stato sostiene, anzitutto, che la questione sollevata sarebbe irrilevante ai fini del giudizio di merito, essendosi già formato il giudicato per effetto delle sentenze intervenute nei precedenti giudizi tra le stesse parti. L'Avvocatura osserva, poi, che il sindacato di legittimità costituzionale demandato alla Corte é inammissibile non solo nei riguardi di leggi abrogate, ma anche relativamente a quelle leggi che, sebbene non abrogate, abbiano tuttavia esaurito la loro funzione anteriormente all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e non siano più suscettibili di applicazione.

Infatti, la sentenza della Corte costituzionale che dichiarasse illegittima una legge non più applicabile, sarebbe, per ciò, inutiliter data, né potrebbe influire sui fatti già compiuti e sui rapporti già esauriti sotto l'imperio della legge impugnata.

Ora, il decreto legge del 1924, n. 456, sopprimendo, senza indennizzo, i preesistenti diritti perpetui e gratuiti sui canali demaniali, e convertendoli, o meglio consentendone la conversione, in interessi legittimi, temporanei ed onerosi, esaurì i suoi effetti espropriativi - se di espropriazione può parlarsi - all'atto stesso della sua entrata in vigore.

Se dunque la citata conversione di diritti integra una espropriazione ex lege, questa si é verificata nel 1924 ed i suoi effetti si sono esauriti nel 1947, con la scadenza dell'utenza, trasformata da perpetua in temporanea. Successivamente a tale data, il canone é dovuto, non in forza del denunziato art. 7, quarto comma, bensì in forza dei principi generali e per il fatto della concessa rinnovazione. Pertanto, un'eventuale dichiarazione di illegittimità dell'impugnata norma non farebbe rivivere i soppressi diritti perpetui sulle acque fluenti nei canali demaniali, ma farebbe venire meno l'attuale rapporto di concessione. E ciò esorbita dai limiti della presente questione, che si riferisce ad una presunta violazione dell'art. 42 della Costituzione, e non ad un eventuale contrasto con l'art. 23 della Costituzione medesima.

2) Quanto al merito, rileva l'Avvocatura dello Stato che la questione é manifestamente infondata. E ciò per molteplici ragioni.

Anzitutto - si sostiene - qui si verte in materia di rapporti giuridici sorti per effetto dei cessati Stati anteriori all'unificazione del Regno d'Italia; ed é noto che, secondo i principi generali del diritto internazionale, lo Stato successore, come può recepire nel proprio ordinamento gli atti dello Stato cui succede, così può non recepirli o recepirli con modificazioni. E ciò é tanto più legittimo quando gli atti preesistenti non siano, in tutto o in parte, conformi al suo ordinamento giuridico.

Ora, poiché il principio della temporaneità e dell'onerosità delle utenze di acque pubbliche può dirsi un principio fondamentale dell'ordinamento italiano, sancito nella legge 10 agosto 1884, n. 2644, e nel R.D. 9 ottobre 1919, n. 2161, legittimamente il decreto del 1924, n. 456, nel recepire gli atti di costituzione di utenze d'acqua dei cessati Stati anteriori all'unificazione italiana, ne esclude la perpetuità e la gratuità.

Né, così operando, essa effettuò alcuna espropriazione, trattandosi di situazioni giuridiche sorte in ordinamenti diversi e che nell'ordinamento giuridico italiano non avevano piena tutela, e tanto meno potevano equipararsi al diritto di proprietà.

In secondo luogo - osserva l'Avvocatura dello Stato - nella specie non può invocarsi l'applicazione dell'art. 42, terzo comma, della Costituzione: questa, infatti, parla di espropriazione in senso tecnico e, sancendo che questa deve essere giustificata da motivi di interesse generale, mira a tutelare il diritto di proprietà, inteso nella sua tradizionale e tipica espressione, nella quale non possono comprendersi tutti i diritti soggettivi, reali e personali, mobiliari e immobiliari. L'art. 7, quarto comma, del decreto del 1924, n. 456, invece, non pone in essere un'espropriazione della proprietà privata, ma, escludendo che le acque fluenti nei canali demaniali dello Stato possano formare oggetto di proprietà privata, pone fuori commercio l'oggetto della utenza, ossia le qualifica demaniali, con la conseguente caducazione di ogni diritto privato costituito sopra di esse, o meglio convertendo i diritti d'uso privato in interessi legittimi all'uso fondati su un rapporto di concessione.

Infine, prosegue l'Avvocatura, anche a voler ammettere che l'art. 7 del decreto del 1924 abbia posto in essere un'espropriazione dei diritti perpetui d'uso delle acque demaniali, non può dirsi che abbia negato ogni indennizzo. Infatti, avendo concesso ai titolari di diritti perpetui di utilizzare l'acqua per trent' anni, sia pure verso il pagamento di un canone, che é ben lontano dal rappresentare il corrispettivo dell'acqua fornita, é appunto nella concessione che deve ravvisarsi una specie di indennizzo.

Per queste considerazioni, l'Avvocatura dello Stato chiede che la questione di legittimità costituzionale del citato art. 7, quarto comma, del decreto - legge 25 febbraio 1924, n. 456, sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri non é intervenuto nel giudizio.

All'udienza, i difensori delle parti hanno illustrato le rispettive deduzioni e conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

L'Avvocatura dello Stato, che difende l'Amministrazione generale dei canali demaniali d'irrigazione, ha eccepito che la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale regionale delle acque di Torino, sarebbe irrilevante ai fini del giudizio ivi pendente, in quanto, a causa delle sentenze indicate nell'esposizione di fatto, si sarebbe formato il giudicato sull'obbligo di corrispondere il canone, obbligo che il Consorzio non aveva mai creduto di poter contestare e che ha regolarmente adempiuto fino al dicembre 1953. Tale giudicato precluderebbe l'esame di merito.

L'eccezione é palesemente priva di fondamento. La stessa Avvocatura dello Stato enuncia che trattasi di un giudizio di rilevanza. Difatti, é un aspetto di tale giudizio lo stabilire se un giudicato precluda l'esame di merito di una causa e quindi renda inutile la decisione di una questione di legittimità costituzionale. Nel caso in oggetto, il Tribunale regionale si é dato carico dell'eccezione di cosa giudicata, sulla quale le parti avevano a lungo discusso, e mentre ha ritenuto che sotto un certo aspetto - e precisamente sul punto se il Regno di Sardegna si potesse considerare, di fronte allo Stato italiano, uno Stato cessato - tale eccezione avesse fondamento, ha giudicato che, ammessa l'applicabilità del quarto comma dell'art. 7 del R.D.L. 25 febbraio 1924, n. 456, nella causa ivi pendente, la questione di legittimità costituzionale di detta norma fosse influente ai fini della decisione della causa stessa.

Questo giudizio, emesso dal giudice a quo e sorretto da congrua motivazione, esatto o inesatto che sia il suo contenuto, non può essere sindacato dalla Corte costituzionale.

Con l'altra eccezione di inammissibilità, sollevata dalla stessa difesa, si deduce che non sarebbe ammissibile un giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi che, sebbene non abrogate, abbiano tuttavia esaurito la loro funzione anteriormente all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. E questo sarebbe il caso della norma denunziata.

Per quanto, come meglio si vedrà in seguito, la tesi presenti, sotto altro aspetto, elementi meritevoli di molta considerazione, la tesi stessa, prospettata sul piano dell'inammissibilità, non può essere accolta.

Se si vuol sostenere la incompetenza della Corte a giudicare della legittimità di una norma che, pur essendo ancora vigente, abbia esaurito i suoi effetti prima dell'entrata in vigore della Costituzione, si sostiene cosa inesatta. Se, come la stessa Avvocatura dello Stato ammette, la norma é ancora vigente nell'ordinamento giuridico e se forma oggetto di discussione la efficacia della norma stessa nei confronti della causa di merito, non si vede come si possa fondatamente dubitare della competenza di questa Corte, dopo le reiterate affermazioni che ne ha fatto il Collegio fin dalla prima delle sue sentenze.

Se, poi, si volesse sostenere che l'applicazione della norma, della cui legittimità si discute non sia idonea alla risoluzione della controversia tra le parti per essersi esauriti, nei riguardi di detta controversia, gli effetti della norma stessa, allora si rientrerebbe nel campo del giudizio di rilevanza riservata al giudice a quo, cui spetta di decidere se e fino a qual segno una norma sia valevole ai fini di quella risoluzione.

Entrando nel merito della questione, la Corte ricorda che il procedimento logico, attraverso cui si svolge il relativo giudizio, consta di due momenti, l'uno dei quali deve necessariamente precedere l'altro: prima di riscontrare se la norma denunziata sia non conforme alla Costituzione, la norma stessa deve essere interpretata. A tal fine, nel caso in oggetto, occorre vedere quale é l'attuale portata della norma contenuta nel quarto comma dell'art. 7 del R.D.L. 25 febbraio 1924.

Il valore attuale della norma é che gli utenti dell'acqua sono tenuti al pagamento di un canone. Il presupposto di quest'obbligo si pose, con effetto istantaneo, nel momento in cui la legge predetta entrò in vigore. Da quel momento venne meno qualsiasi diritto all'uso gratuito dell'acqua. Anche se i provvedimenti di attuazione della norma (determinazione concreta della misura del canone, liquidazione dell'ammontare dei canoni arretrati, ingiunzione di pagamento) saranno differiti nel tempo, la data di decorrenza dell'obbligo di pagare il canone risalirà sempre al 1 luglio 1924, data stabilita dalla stessa legge.

Potrebbe dirsi che l'art. 7 della legge in esame contenga, nella parte che interessa questa controversia, due disposizioni: una ad effetto istantaneo, che ebbe attuazione nel momento stesso in cui la legge entrò in vigore, e l'altra ad effetto permanente. La prima disposizione determinò, con effetto immediato, la modificazione di situazioni precedenti: alcune categorie di utenze d'acqua, che erano gratuite, perdettero tale caratteristica. Raggiunto questo effetto, la norma assunse una portata di carattere permanente, imponendo agli utenti l'obbligo di corrispondere il canone ad ogni sua scadenza.

Non é inutile notare che situazioni siffatte non sono inconsuete. Ad un certo momento una legge dichiarò che le acque, che avessero determinate caratteristiche, non erano suscettibili di proprietà privata; successivamente un'altra legge dettò una analoga disposizione nei riguardi di tutte le miniere. Leggi precedenti, fra cui alcune di grande importanza storica, avevano operato eversioni o trasferimenti coattivi di proprietà o imposto pesi e limiti alla proprietà privata. Queste leggi costituiscono il presupposto e la base dell'attuale assetto di vasti ed importanti settori amministrativi ed economici ed il presupposto del giusto titolo di cui godono tante persone, pubbliche o private, cui oggi appartengono moltissimi beni. La Costituzione repubblicana trovò queste situazioni, già ben consolidate al momento della sua entrata in vigore. E superfluo avvertire che se disposizioni del genere fossero intervenute o intervenissero dopo l'entrata in vigore della Costituzione, nessun fatto compiuto potrebbe impedire che tali disposizioni siano sottoposte a raffronto con la Costituzione stessa.

Per parlare in concreto della disposizione in esame, anche ammesso che con l'art. 7 del R.D.L. del 1924 si sia posta in essere un'espropriazione, é da dire che quella disposizione diede luogo ad una situazione che ha tutte le caratteristiche del fatto compiuto in epoca anteriore all'entrata in vigore della Costituzione del 1948. La disposizione che la Costituzione trovò operante nel 1948, e che é operante ancora oggi, é quella secondo la quale gli utenti dell'acqua sono tenuti al pagamento del canone. Ed é questa la disposizione che può essere esaminata ai fini della sua conformità alla Costituzione.

Poiché la questione di legittimità costituzionale deve essere assunta nei termini in cui essa é stata prospettata con l'ordinanza di rinvio degli atti alla Corte, non potendosi esaminare d'ufficio se la norma denunziata possa eventualmente essere, sotto altri aspetti, in contrasto con l'art. 42 della Costituzione o con qualche altra norma della Costituzione stessa, l'unica indagine demandata oggi al Collegio é quella di riscontrare se la disposizione contenuta nel quarto comma dell'art. 7 sia o non in contrasto con l'art. 42, terzo comma, della Carta costituzionale, in tanto in quanto con tale disposizione si sarebbe imposta una espropriazione senza indennità. Ora, se, come si é già detto, la disposizione tuttora operante non é quella che nel 1924 abolì, con effetto istantaneo, il carattere gratuito delle utenze, ma é quella che stabilisce, in via permanente, l'obbligo per l'utente del pagamento di un canone, non si vede come codesta disposizione possa essere contraria alla ricordata norma della Costituzione. Non solo non é contrario alla norma predetta ma é conforme ai principi generali l'obbligo di corrispondere un canone per l'uso di acqua pubblica.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

respinte le eccezioni di inammissibilità proposte dall'Avvocatura dello Stato

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, quarto comma, del R.D.L. 25 febbraio 1924, n. 456, in riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sollevata con l'ordinanza del Tribunale regionale delle acque pubbliche di Torino del 12 dicembre 1956.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 1958.

 

Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI

 

Depositata in cancelleria il 8 aprile 1958.