Sentenza n. 66 del 1957
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SENTENZA N. 66

ANNO 1957

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente

Prof. TOMASO PERASSI

Prof. GASPARE AMBROSINI

Prof. ERNESTO BATTAGLINI

Dott. MARIO COSATTI

Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. MARIO BRACCI

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale del D.P.R. 24 dicembre 1951, n. 1452, in riferimento alle norme contenute negli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione e nell'art. 2 della legge 12 maggio 1950, n. 230, promosso con ordinanza 28 febbraio 1956 della Corte di appello di Catanzaro nella causa civile vertente tra Nasturzio Francesco Ettore e l'Opera valorizzazione Sila, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 116 del 12 maggio 1956 ed iscritta al n. 127 del Registro ordinanze 1956.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 27 marzo 1957 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;

uditi l'avv. Rodolfo Grimaldi ed il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nella causa civile dibattuta davanti alla Corte di appello di Catanzaro tra Francesco Ettore Nasturzio, in proprio e quale unico titolare della ditta "Segherie Silane", e l'Opera valorizzazione Sila, quest'ultima sostenne che la questione sollevata dal Nasturzio dell'eccesso di delega, nel quale sarebbe incorso il Governo, espropriando con D.P.R. 24 dicembre 1951, n. 1452, e in base alla delega contenuta nell'art. 5 della legge 12 maggio 1950, n. 230, boschi di proprietà di esso Nasturzio, fosse una questione di legittimità costituzionale, di competenza, perciò della Corte costituzionale.

La Corte di appello di Catanzaro con ordinanza del 28 febbraio 1956 ritenne l'eccezione fondata e rilevante ai fini della decisione e in conseguenza sospese il giudizio e trasmise gli atti a questa Corte.

L'ordinanza notificata il 27 marzo 1956 al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente dell'O.V.S. e al Nasturzio, nonché ai Presidenti della Camera e del Senato, é stata pubblicata, per disposizione del Presidente della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale del 12 maggio 1956, ma, prima ancora di questa data, l'O.V.S., rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato, con atto depositato nella cancelleria della Corte il 12 aprile 1956, deduceva:

a) l'originaria improponibilità della domanda spiegata dall'attore Nasturzio davanti al Tribunale civile di Cosenza;

b) la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata nel corso della causa;

c) la piena legittimità del decreto legislativo delegato sopra ricordato;

chiedendo, in conseguenza, che la Corte dichiarasse l'improponibilità o quanto meno la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale o che, subordinatamente, affermasse la piena legittimità costituzionale del D.P.R. 24 dicembre 1951, n. 1452.

2. - Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, é intervenuto nel presente giudizio, depositando le sue deduzioni il 17 aprile 1956.

In queste deduzioni l'Avvocatura dello Stato, sul fondamento che alla Corte costituzionale spetti l'accertamento del rapporto d'incidentalità necessaria della questione di costituzionalità rispetto al giudizio in corso davanti al Giudice ordinario o amministrativo, ha sostenuto:

a) che la Corte di appello di Catanzaro male avrebbe proposto la questione di legittimità costituzionale perché questa non avrebbe la natura di una questione incidentale, ma sibbene quella di una questione principale, per formare l'unico oggetto della controversia;

b) che la questione avrebbe dovuto essere respinta come manifestamente infondata, perché relativa non già al rispetto dei limiti della delega, ma all'uso di questa in relazione alle finalità della legge di delegazione, uso sottratto a qualsiasi censura perché fondato sulla libertà discrezionale del legislatore.

Più particolarmente, e nel merito, di contro alla tesi del Nasturzio che il legislatore delegato, procedendo all'esproprio dei boschi, avrebbe violato l'articolo 2 della legge 12 maggio 1950, n. 230, che escluderebbe l'esproprio dei boschi d'alta montagna, l'Avvocatura dello Stato sostiene che l'espressione adoperata dall'art. 2 ricordato - "suscettibili di trasformazione" - non comporti un rinvio in senso tecnico alla legge 31 dicembre 1947, n. 1629, istitutiva dell'O.V.S., che nell'art. 4 esclude dall'espropriazione i boschi. Questa legge, infatti, non avrebbe inteso di attuare la riforma agraria in Calabria, ma promuovere e attuare un piano di bonifica dei terreni del comprensorio silano, limitatamente a una delle finalità dell'art. 44 della Costituzione - il più razionale sfruttamento del suolo -, e senza riferimento all'altra finalità - perseguita dal detto articolo - di stabilire equi rapporti sociali. La legge de1 1950, promulgata dopo la entrata in vigore della Costituzione, avrebbe superato la legge del 1947: sicché, mentre questa volle escludere dal piano di bonifica i boschi, tale esclusione non volle la legge del 1950, mirante ad altro fine, soprattutto a quello della limitazione della proprietà terriera per fini sociali. E poiché i boschi sono anch'essi una fonte di ricchezza che, come ogni altra, può essere redistribuita e formare oggetto di piccola proprietà contadina, la legge del 1950 li avrebbe ricompresi tra i beni soggetti ad esproprio, abrogando la legge del 1947 attraverso il regolamento ex novo dell'intera materia.

3. - Il Nasturzio, rappresentato e difeso dall'avv. Grimaldi, nelle deduzioni depositate il 30 maggio 1956, sostiene che il D.P.R. 24 dicembre 1951 avrebbe travalicato i limiti della delega, espropriando terreni che, come i boschi, espropriabili non sono ai sensi della legge 12 maggio 1950. L'art. 2 di questa legge dichiara soggetti a scorporo i terreni suscettibili di trasformazione fondiaria, ma tali non sono i boschi. La loro insuscettibilità alla trasformazione sarebbe sancita dall'art. 4 della legge 31 dicembre 1947, che esclude appunto dalla trasformazione "i boschi esistenti". Il principio che con codesto articolo si porrebbe, é un principio di valore assoluto, posto nell'interesse generale al fine di conservare i boschi e di garantire le condizioni idrogeologiche del suolo. Né sarebbe fondata la tesi che siffatto principio sarebbe stato abrogato dalla più volte citata legge del 1950, dato che nessuna incompatibilità sussisterebbe tra le due leggi che vieti che possano essere insieme applicate. Del che sarebbero conferma la legge 21 ottobre 1950, n. 841, che, consentendo, con la norma contenuta nell'art. 5, soltanto l'espropriazione dei boschi in pianura o in lieve pendio, in via di eccezione e col concorso di determinate condizioni, ribadisce il divieto di espropriazione di quelli di alta montagna, e la legge 18 maggio 1951, n. 333, che conferma ancora una volta tale divieto, consentendo l'espropriazione di limitate superfici boschive soggette a vincolo idrogeologico soltanto quando ciò sia necessario per assicurare la continuità territoriale degli appezzamenti da espropriare.

Ciò posto, la difesa del Nasturzio sostiene che il bosco di S. Salvatore, con altre sottodenominazioni, é un bosco per le sue caratteristiche da qualificare di alta montagna e che pertanto non poteva formare oggetto di esproprio ai sensi dell'art. 4 della legge del 1947 in combinazione con l'art. 2 della legge n. 230 del 1950: il D.P.R. facendone, invece, oggetto di espropriazione non avrebbe rispettato i criteri direttivi fissati dal potere legislativo nella legge di delegazione e sarebbe pertanto costituzionalmente illegittimo (artt. 76 e 77 della Costituzione).

4. - L'Avvocatura dello Stato, in una memoria depositata questo 14 marzo, ha ribadito le proprie tesi, insistendo soprattutto sull'improponibilità e inammissibilità della questione di legittimità costituzionale. Per parte sua il Nasturzio, con memoria depositata lo stesso giorno, ribadita la propria tesi nel merito della controversia, ha respinto l'eccezione di improponibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato, sostenendo che l'incidentalità richiesta perché una questione di legittimità costituzionale sia proponibile davanti a questa Corte non ha la natura di quella che si ricava dai principi del Cod. proc. civ., ma risponde al fine di evitare che una questione di costituzionalità possa trovare ingresso senza riferimento a una controversia concreta e per mera iattanza: riferimento, che nel caso presente, invece non può essere negato.

5. - Nell'udienza pubblica del 28 marzo 1957, le parti hanno illustrato oralmente gli argomenti svolti negli scritti e memorie difensive.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'Avvocatura dello Stato ha eccepito preliminarmente l'improponibilità della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 24 dicembre 1951, n. 1452, per il fatto che essa si identificherebbe con l'oggetto principale della causa instaurata davanti al giudice a quo, e non presenterebbe perciò il carattere di pregiudizialità richiesto dal nostro ordinamento perché possa essere sottoposta alla Corte una questione di legittimità costituzionale. La Corte ha già respinto questa eccezione, proposta in termini identici nei confronti di altri decreti delegati di esproprio, in numerose decisioni, segnatamente in quella n. 59 del 13 maggio 1957, alla quale é sufficiente far riferimento, valendo anche per il caso presente i motivi e le considerazioni che vi si trovano ampiamente esposti.

2. - Fondata é, invece, la tesi dell'Avvocatura dello Stato, che l'art. 2 della legge 12 maggio 1950, n. 230, non ha inteso di escludere i boschi dall'esproprio dei terreni ai fini della riforma fondiaria. L'espressione che compare in quell'articolo "suscettibili di trasformazione" non deve necessariamente essere interpretata nel senso che i boschi debbano essere in ogni caso esclusi dall'esproprio, potendosi intendere per trasformazione non soltanto quella che muti l'aspetto fisico dei terreni, ma anche quella che, in connessione con la costituzione di un tipo particolare di azienda contadina, dia ai boschi una diversa destinazione, inserendoli in nuovi complessi economico-sociali, con forme che assicurino il rispetto degli eventuali vincoli idrogeologici e la tutela delle condizioni del terreno alla quale quei vincoli sono diretti.

Riconoscere l'utilità della formazione di appoderamenti di tipo silvo-pastorale, destinati principalmente all'allevamento del bestiame, o riconoscere l'opportunità di integrare con parti di bosco appezzamenti di terreno destinato a seminativo, rendendo economicamente vitali piccole aziende contadine che prima vitali non erano, non può dirsi che non risponda alle finalità della riforma fondiaria, quali si evincono dalle norme costituzionali e dalle leggi di riforma, e può trovare particolare giustificazione, quando la riforma si voglia realizzare in una regione come la Calabria ad alta percentuale di terreni boschivi, specialmente nella parte di essa occupata dall'altopiano silano.

D'altra parte la Corte non può non considerare che codeste valutazioni o altre analoghe, intorno alle quali vario può essere il giudizio di economisti e di esperti, sfuggono al proprio esame, perché rientrano evidentemente nell'ambito della discrezionalità, più che tecnica, politica del legislatore anche delegato.

Diversa cosa sarebbe se, nell'esercizio di codesto potere discrezionale, il legislatore delegato varcasse i limiti posti dalla legge di delegazione. Ma ciò non é nel caso presente. Si é già visto che una affermazione esplicita di esclusione dei boschi manca nell'art. 2 della legge, né può ricavarsi dalla ratio legis, o, più concretamente, dai fini che la legge ha voluto perseguire, i quali - trattandosi di una legge di delegazione - si trasformano in criteri che il legislatore é tenuto a seguire nella sua attività.

3. - Contro questa interpretazione la difesa del Nasturzio ha opposto l'esistenza di un generale principio di inespropriabilità dei boschi, che si ricaverebbe dall'art. 4, secondo comma, della legge 31 dicembre 1947, n. 1629, il quale esclude dalle trasformazioni fondiario-agrarie da effettuare in Sila i "boschi esistenti", dall'art. 5 della legge 21 ottobre 1950, n. 841, che consente l'esproprio soltanto dei boschi siti in pianura o insistenti sopra terreni in lieve pendio, e dall'art. 7 della legge 18 maggio 1951, n. 333, che consente di espropriare i boschi soggetti a vincolo idrogeologico, soltanto nel caso in cui ciò sia necessario per assicurare la continuità dei terreni da espropriare.

Ma la Corte non ritiene di poter accogliere questa tesi. Il divieto dell'art. 4, secondo comma, della legge 31 dicembre 1947, n. 1629, trova la sua giustificazione nel fine che questa legge si propose di perseguire, che é quello indicato nell'art. 2 e nel medesimo art. 4 di "promuovere o effettuare direttamente" la trasformazione fondiario-agraria dell'altopiano silano, imponendo ai proprietari l'esecuzione di opere ad essi spettanti secondo un piano generale di bonifica. Diversa, invece, la finalità della successiva legge 12 maggio 1950, n. 230, che si esprime nel "compito" affidato all'Opera Sila "di provvedere alla ridistribuzione della proprietà terriera e alla sua conseguente trasformazione, con lo scopo di ricavarne i terreni a concedersi in proprietà a contadini" (art. 1), con la conseguenza che risulta preminente nel sistema di questa legge la ridistribuzione della proprietà terriera e la formazione di nuova proprietà contadina. Di fronte a questi due fini diventa non si dirà secondaria, ma strumentale la trasformazione agraria, che ne riceve in conseguenza un significato particolare e diverso quale si é precedentemente definito e ne consegue che quell'originario divieto di trasformazione dei "boschi esistenti" nell'altopiano silano deve intendersi superato dalla regolamentazione data dalla legge successiva a una materia più ampia e complessa, quale é quella della riforma fondiaria e in definitiva abrogato se si volesse interpretarlo come un divieto di espropriazione.

I divieti, poi, che vengono posti in maniera, del resto, non assoluta, dalle altre norme richiamate, non possono essere considerati come manifestazioni di un principio generalmente valido, ma, se mai, di un principio valido per le zone di riforma nelle quali ha applicazione la c. d. legge stralcio. Non sarebbe corretto considerare le norme di questa integratrici o modificatrici di quelle della legge Sila, ciascuna delle due dovendosi interpretare di per sé, dirette come sono a realizzare la riforma agraria secondo le speciali condizioni fisiche ed economico-sociali delle rispettive zone di applicazione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

respinta l'eccezione pregiudiziale sollevata dall'Avvocatura dello Stato,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 24 dicembre 1951, n. 1452, in riferimento alle norme contenute negli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione e nell'art. 2 della legge 12 maggio 1950, n. 230.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 maggio 1957.

Gaetano AZZARITI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Mario BRACCI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA.

 

Depositata in Cancelleria il 25 maggio 1957.