Sentenza n. 16 del 1957
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SENTENZA N. 16

ANNO 1957

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Avv. Enrico DE NICOLA, Presidente

Dott. Gaetano AZZARITI

Avv. Giuseppe CAPPI

Prof. Tomaso PERASSI

Prof. Gaspare AMBROSINI

Prof. Ernesto BATTAGLINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Mario BRACCI

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA, 

ha pronunziato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, promosso con l'ordinanza 3 aprile 1956 della Corte suprema di cassazione, Sezione 3 penale, nel procedimento penale a carico di Cecchini Luigi, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 123 del 19 maggio 1956 ed iscritta al n. 151 del Reg. ord. 1956.

Udita nell'udienza pubblica del 7 novembre 1956 la relazione del Giudice Ernesto Battaglini;

uditi gli avvocati Pietro Lombardo e Giuseppe Schirò.

 

Ritenuto in fatto

 

Con ordinanza 23 settembre 1955, la Sezione istruttoria della Corte di appello di Ancona respingeva l'appello proposto da Cecchini Luigi, imputato di bancarotta fraudolenta, contro la ordinanza 13 agosto 1955 del Giudice istruttore presso il Tribunale di Pesaro, che a sua volta aveva respinto l'istanza proposta dallo stesso Cecchini per ottenere la revoca del mandato di cattura.

Avverso l'ordinanza della Sezione istruttoria di Ancona proponeva ricorso per cassazione, nell'interesse dell'imputato, il difensore dello stesso, avv. Pietro Lombardo, il quale, valendosi della facoltà concessa dall'art. 5 della legge 18 giugno 1955, n. 517, che modifica l'art. 198 Cod. proc. pen., trasmise la dichiarazione di impugnazione col mezzo di raccomandata alla cancelleria della Corte di cassazione, senza che però la sottoscrizione della dichiarazione stessa fosse autenticata. Data la mancanza di autenticazione, il Procuratore generale presso la Cassazione chiedeva che venisse dichiarata la inammissibilità del ricorso.

Ma la difesa dell'imputato, nel contrastare la richiesta di inammissibilità, sosteneva che la disposizione contenuta nell'art. 5 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666 (norme di attuazione, transitorie e di coordinamento della citata legge 18 giugno 1955, n. 517), a cui faceva riferimento il P. M. nella sua requisitoria, é costituzionalmente illegittima; chiedeva pertanto che il giudizio venisse sospeso e che gli atti venissero rinviati a questa Corte.

La Corte di cassazione, Sezione 3 penale, in camera di consiglio, con ordinanza 3 aprile 1956, riteneva pertinente e non manifestamente infondata la questione sollevata, sospendeva il giudizio ed ordinava la immediata trasmissione degli atti a questa Corte per la decisione della questione.

Nella ordinanza di rinvio la Corte di cassazione osserva che, a prescindere da quanto fu rilevato nei lavori preparatori della Novella sopra ricordata del Codice di procedura penale, non può disconoscersi che, con l'autenticazione della firma, l'art. 5 D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, richieda, in aggiunta a quanto disposto nel cpv. 1 dell'art. 198 Cod. proc. pen., un quid pluris nel caso di impugnazione della parte privata o del difensore, mentre la delegazione al Governo, fatta con l'art. 20 della legge 18 giugno 1955, n. 517, di emanare le norme di attuazione, transitorie e di coordinamento, non é attributiva anche della facoltà di estendere precetti della legge medesima a casi non considerati, anzi da ritenere esclusi per argomentum a contrario.

La ordinanza di rinvio é stata regolarmente notificata il 17 aprile 1956, comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Dinanzi a questa Corte si é avuta la costituzione del solo imputato Cecchini Luigi, il quale ha presentato, per mezzo dei suoi difensori, una memoria illustrativa a sostegno delle conclusioni, con cui si chiede che venga dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 5 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, nella parte contestata, vale a dire nella parte in cui é richiesta la autenticazione della sottoscrizione della dichiarazione di impugnazione della parte privata che sia stata trasmessa a mezzo della posta.

 

Considerato in diritto

 

Destituito di ogni fondamento é l'assunto della illegittimità costituzionale della disposizione contenuta nell'art. 5 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, relativo alle norme di attuazione, transitorie e di coordinamento della legge 18 giugno 1955, n. 517, in relazione a quanto dispongono gli artt. 76 e 77 della Costituzione sui limiti e le condizioni di validità dei decreti legislativi delegati.

Per dare una esauriente dimostrazione della infondatezza dell’assunto di illegittimità costituzionale sopra enunciato é necessario tener presente come l'assunto stesso sia stato posto e con quali argomenti sia stato sostenuto.

A tal fine fa d'uopo ricordare che il Codice di procedura penale del 1930 nei riguardi della presentazione della dichiarazione di impugnazione, mentre manteneva fermo il principio che di regola la dichiarazione di impugnazione é ricevuta dal cancelliere del giudice che ha emesso il provvedimento, apportava la notevole innovazione per cui al solo pubblico ministero era consentito proporre la impugnazione con dichiarazione scritta da trasmettersi anche col mezzo del telegrafo al cancelliere suddetto, il quale, dopo avervi apposto l'indicazione del giorno in cui la riceveva e la propria sottoscrizione, la univa agli atti del procedimento.

Questa facoltà, eccezionalmente riconosciuta al pubblico ministero, venne giustificata, per quanto riflette l'autenticità del documento contenente la dichiarazione, col rilievo che la certezza della dichiarazione é inerente alla stessa pubblicità dell'ufficio da cui la dichiarazione promana e alla natura della sua attività, talché la dichiarazione di impugnazione fatta per telegramma ha il valore di un atto pubblico.

Nella prassi giudiziaria fu riconosciuta anche, senza contrasti, la validità della dichiarazione d'impugnazione e dell'atto contenente la enunciazione dei motivi da parte del pubblico ministero anche se trasmessi per mezzo di raccomandata o per mezzo di nuntius.

La questione si é ripresentata nella elaborazione della Novella del 18 giugno 1955 e fu, da più parti, richiesto che non solo fosse riconosciuta espressamente al pubblico ministero la facoltà di trasmettere col mezzo di raccomandata la dichiarazione di impugnazione o l'atto contenente la enunciazione dei motivi, ma che tale facoltà venisse ammessa anche per le parti private. La proposta fu accolta e la relativa disposizione fu trasfusa negli artt. 5 e 7 della legge 18 giugno 1955, n. 517.

Nei riguardi della garanzia di autenticità dei suddetti atti trasmessi dalle parti private o dai loro difensori, la legge del 1955 nessuna disposizione contiene in ordine alla dichiarazione di impugnazione, mentre per l'atto in cui sono enunciati i motivi dispone che "se si tratta di parti private o del difensore la sottoscrizione deve essere autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato". É evidente che in questo modo viene consacrata nella legge del 1955 una disparità di trattamento (non facilmente spiegabile) fra i requisiti formali della dichiarazione di impugnazione e i requisiti formali della enunciazione dei motivi, nei riflessi della autenticazione della firma di chi ha sottoscritto la dichiarazione e di chi ha sottoscritto i motivi da trasmettere per posta, mentre nulla é detto circa l'autenticazione stessa nei riguardi del telegramma eventualmente usato per la trasmissione della dichiarazione di impugnazione.

Alla eliminazione di siffatta incongruenza, che si risolve in una vera e propria lacuna, ha provveduto la norma contenuta nell'art. 5 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666 (che viene ora denunciata per illegittimità costituzionale), la quale dispone che "la sottoscrizione della dichiarazione di impugnazione, fatta a termini del primo cpv. dell'art. 198 del Cod. proc. pen. e la sottoscrizione della enunciazione dei motivi di impugnazione, fatta ai termini del terzo cpv. dell'art. 201 del Codice predetto, devono essere autenticate da un notaio ovvero dal sindaco o dal giudice conciliatore del luogo".

Questa norma é in parte di attuazione, per quanto riguarda la designazione dei pubblici ufficiali autorizzati insieme ai notai a procedere alla autenticazione delle sottoscrizioni per le quali l'autenticazione é richiesta, in parte é di coordinamento, per quanto riguarda gli atti della cui sottoscrizione si richiede l'autenticazione; ed é stata emanata in virtù della delega legislativa contenuta nell'art. 20 della legge 18 giugno 1955, n. 517.

Nella proposta eccezione di illegittimità costituzionale, e nella stessa ordinanza di rinvio, si sostiene che con la disposizione su ricordata il Governo ha ecceduto i limiti della delega legislativa ed anzi ha inserito una norma contra legem, in quanto ha esteso alla dichiarazione d'impugnazione, trasmessa per posta o per telegrafo dalle parti private o dai loro difensori, il requisito dell'autenticazione della firma, che nella legge era richiesto soltanto per l'atto contenente la enunciazione dei motivi di impugnazione.

Ma l'argomentazione procede da una inesatta interpretazione della delega legislativa, la quale, nell'indicare come oggetto del provvedimento delegato le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, spiega anche che il coordinamento deve essere attuato non solo nei confronti del Codice di procedura penale, ma anche nei confronti delle altre leggi; esprimendo così chiaramente la volontà che, in sede di coordinamento, vengano eliminate tutte le incongruenze, tutte le contraddizioni, tutte le lacune a cui la legge del 1955 abbia potuto dar luogo; e la estensione di questa attività di coordinamento enunciata nella delega é tanto più significativa in quanto la legge del 1955 ebbe una faticosa elaborazione attraverso la presentazione e la discussione di vari progetti e disegni, in parte d'iniziativa governativa ed in parte d'iniziativa parlamentare.

Ne consegue che il coordinamento enunciato nella delega rientra anzitutto in quel concetto più ampio di coordinamento che é meta e direttiva di ogni attività giurisdizionale e di ogni attività legislativa, vale a dire la spinta a conseguire un armonico sviluppo dell'ordinamento giuridico, in modo che le singole norme non siano considerate isolate e chiuse in se stesse, ma siano invece sempre interpretate nei loro riflessi e nelle loro ripercussioni con le altre e come parti di un sistema organico in continuo divenire in cui bisogna fare ogni sforzo per eliminare le discordanze, le disarmonie, le discrepanze, le lacune. Quando poi il coordinamento forma oggetto specifico di una delega legislativa esso va inteso nel senso più ampio e più profondo che comprende anche la possibilità di correggere tutti quei contrasti e quelle circostanze che si riscontrino nello speciale settore del sistema giuridico a cui la delega si riferisce.

Or nella specie va tenuto presente che, nell'estendere alle parti private e ai difensori la facoltà di servirsi della posta o del telegrafo per trasmettere all'ufficio di cancelleria competente le dichiarazioni di impugnazione e la enunciazione dei motivi - facoltà già riconosciuta al pubblico ministero - il legislatore non mancò di preoccuparsi della diversa natura di quegli atti secondo la qualità delle persone che concorrono a formarli, in relazione alla speciale funzione documentatrice spettante al cancelliere nella ricezione degli atti stessi.

Infatti le dichiarazioni provenienti dal pubblico ministero e contenute in un telegramma o in un atto spedito per raccomandata hanno, anche nei segni esterni dell'ufficio da cui provengono e nella sottoscrizione da parte di un pubblico ufficiale, l'impronta della pubblicità e della efficacia probatoria circa la loro provenienza, di guisa che il cancelliere che riceve quegli atti limita la sua attività documentatrice ad attestare la data in cui essi sono pervenuti, senza bisogno di procedere alla identificazione della persona che della sottoscrizione appare l'autore e senza bisogno di avere conferma della dichiarazione di volontà manifestata nel contenuto dell'atto.

Invece i detti atti, quando provengono da parti private o dai loro difensori, sono scritture private la cui efficacia probatoria circa la provenienza delle dichiarazioni contenute nell'atto da chi le ha sottoscritte, é subordinata al riconoscimento della scrittura stessa (art. 2702 Cod. civ. ) anche se si tratti di telegrammi (art. 2705 Cod. civ.), cosicché il cancelliere dovrebbe procedere alla identificazione del dichiarante e alla conferma delle sue dichiarazioni, come nel caso di presentazione diretta, annullandosi così i vantaggi della agevolazione concessa.

Per evitare questo inconveniente non vi é altro mezzo che l'intervento di un altro pubblico ufficiale, senza rendere necessario lo spostamento da un luogo ad un altro dell'interessato; ciò si può ottenere soltanto con l'autenticazione della firma del sottoscrittore (artt. 2703, 2705 Cod. civ., che vanno posti in relazione alle disposizioni della legge notarile e a quelle della legge 2 aprile 1943, n. 226, sull'intervento di testimoni negli atti di autenticazione).

Va tenuto presente che anche gli atti pubblici hanno bisogno di una speciale attestazione da parte di pubblici ufficiali diversi da quelli che li hanno formati, che confermi la qualità di atti pubblici, quando si tratti di atti da usare nel territorio dello Stato o all'estero, fuori dei luoghi in cui la sottoscrizione del pubblico ufficiale é conosciuta (si veda la legge 3 dicembre 1942, n. 1700, sulla legalizzazione di firme).

A questi principi che informano tutto il nostro sistema legislativo sulla efficacia probatoria delle sottoscrizioni degli atti nella dicotomia fondamentale di atti pubblici e di scritture private, si ispirò il legislatore del 1955 quando, per la trasmissione a mezzo di raccomandata dell'atto contenente la enunciazione dei motivi di impugnazione, richiese, per le parti private o per i difensori, che la sottoscrizione fosse autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato.

Nulla invece fu richiesto per la dichiarazione di impugnazione benché identica fosse la ratio legis delle due situazioni giuridiche.

La lacuna dovuta a tale incongruenza determinò una vera e propria contraddizione che é compito del coordinamento eliminare, per far rientrare disposizioni relative a identiche situazioni giuridiche in una identica disciplina conforme all'intiero sistema legislativo di questa materia. Cosicché la norma introdotta nel decreto legislativo delegato, che estende l'obbligo della autenticazione alla dichiarazione d'impugnazione trasmessa per posta o per telegrafo, non solo rientra nei limiti del coordinamento formante oggetto della delegazione, ma costituisce anzi una attività di coordinamento doverosa, perché diretta ad eliminare una disarmonia e una lacuna ingiustificata.

Sono state invocate in contrario alcune dichiarazioni contenute nella discussione che ebbe luogo dinanzi al Comitato ristretto della Commissione parlamentare, ma, a prescindere dal grado di importanza che può essere riconosciuto ai lavori preparatori nella interpretazione della legge, si tratta nella specie di dichiarazioni che, mentre riconfermano il principio sopra illustrato sulla efficacia probatoria dei documenti, muovono da una considerazione inesatta in linea di fatto sul legame che sempre sussisterebbe tra la dichiarazione di impugnazione e la enunciazione dei motivi, ai fini della prova della provenienza di tali atti processuali quando la loro presentazione avvenga separatamente.

Deve pertanto concludersi che é infondata la questione di illegittimità costituzionale sollevata e sopra enunciata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, per delegazione contenuta nell'art. 20 della legge 18 giugno 1955, n. 517, proposta con ordinanza 3 aprile 1956 della Corte di cassazione, Sezione terza penale.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 gennaio 1957.

 

Enrico DE NICOLA - Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Mario BRACCI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA

 

Depositata in cancelleria il 26 gennaio 1957.