Gustavo
Zagrebelsky
1. Una raccolta di scritti di giuristi di tutto il
mondo sull’interpretazione costituzionale, apparsa di recente, porta
l’inconsueta dedica “ai giudici costituzionali” (A los jueces
constitucionales). Il curatore dell’opera, Eduardo Ferrer Mac-Gregor,
accenna alla «nobile e trascendentale funzione che essi adempiono, come
guardiani fedeli delle Costituzioni democratiche del nostro tempo» [1].
Non sono queste, parole di circostanza. Al contrario: ci mettono di fronte a un
pensiero generale sul quale vale la pena di riflettere. I giudici
costituzionali di tutti i Paesi possono essere associati in un omaggio
collettivo solo in quanto essi effettivamente formino un milieu
omogeneo, indipendente dalle nazionalità. I tanti e tanto autorevoli
rappresentanti delle giurisdizioni costituzionali i quali, con la loro presenza
hanno voluto onorare
Essendomi stato accordato il privilegio di disporre
per qualche minuto della loro attenzione, è su questo aspetto dell’essere giudici
costituzionali che intendo soffermarmi; più che per ricapitolare un passato,
per riflettere sul futuro.
2. Guardare al di là - Questa ideale cerchia
giudiziale costituzionale è una constatazione. Sarebbe impossibile enumerare le
relazioni che si sono venute a consolidare e spesso a istituzionalizzare, in
associazioni, conferenze e scambi di esperienze, tra Tribunali costituzionali,
Corti supreme, Alte Autorità di garanzia costituzionale e, più recentemente,
Corti di giustizia sopranazionali che operano in materie propriamente
costituzionali. Centri accademici di ricerca comparata in tutto il mondo, a
loro volta, contribuiscono efficacemente a un dialogo che, fra tutti quelli che
si svolgono sui grandi temi del diritto pubblico, è certamente tra i più
fruttuosi. E’ questo un dato di fatto pieno di significato, soprattutto per la
facilità della reciproca comprensione, la spontaneità delle discussioni e la
molto frequente concordanza d’intenti, onde può parlarsi, ad un certo livello
di astrazione, di una propensione ultra-nazionale, se non universale, delle
funzioni nazionali di giustizia costituzionale.
Eppure, in origine, vi sono rilevanti distanze tra i
sistemi di garanzia giurisdizionale della Costituzione: judicial review
o giustizia costituzionale; tradizioni di common o civil law;
controllo astratto o concreto, preventivo o successivo; tutela dei diritti
costituzionali o controllo di conformità costituzionale delle leggi. Lo Stato
di diritto non è sempre la stessa cosa in quanto Etat de droit, Rechtsstaat
o Rule of law. Lo Stato costituzionale, di conseguenza, non
coincide dappertutto. La stessa Costituzione non è norma suprema nella stessa
misura, onde mutano i rapporti tra Corti e poteri legislativi. Sono differenze
rilevanti. Ma proprio per ciò risaltano le convergenze pratiche che si
riscontrano nel “giudicare in diritto costituzionale”.
Negli ultimi tempi, tuttavia, questo interscambio di
esperienze è stato focalizzato come problema di diritto costituzionale
generale, nella forma di controversia circa l’utilizzazione e la citazione da
parte delle Corti di materiali normativi e giurisprudenziali “esterni”. I due
poli nella discussione possono rappresentarsi così: da un lato, l’art. 39 del Bill
of Rights della Costituzione della Repubblica del Sud-Africa del 1996,
secondo il quale, nell’interpretare il catalogo dei diritti, le Corti “devono
prendere in considerazione il diritto internazionale e possono prendere in
considerazione il diritto straniero”; all’opposto, la radicale contestazione di
questa pratica, nel segno della difesa dei caratteri originari della
Costituzione, contro gli “incroci bastardi” con esperienze non indigene e
contro l’appannamento del diritto costituzionale in un generico
costituzionalismo senza confini e senza carattere. Ha suscitato scalpore il
riferimento da parte di un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti in
un’opinione separata [2],
oltre che al Privy Council e alla Corte europea dei diritti dell’uomo,
a una decisione della Corte Suprema dello Zimbabwe che, dopo avere a sua volta
consultato decisioni straniere, aveva stabilito che l’esecuzione di una
sentenza capitale a lunga distanza di tempo dalla condanna è da considerare una
forma di tortura, o un trattamento inumano e degradante [3].
Il significato della contestazione, nata come reazione
al “nascente cosmopolitismo giudiziario” risultante da alcune basilari pronunce
della Corte Suprema del 2003, è bene rappresentato dal titolo di una proposta
di legge al Congresso degli Stati Uniti dell’anno dopo - Constitution Restoration
Act - nella quale si inibisce ai giudici di interpretare
La posta in gioco in questo contrasto è grande. Al di
là della questione, pur importante, dei mezzi dell’interpretazione
costituzionale, si avverte che essa coinvolge direttamente la legittimità della
partecipazione delle giurisdizioni costituzionali nazionali alla costruzione di
prospettive giuridiche di orientamento comune, tendenzialmente universali.
Il terreno sul quale più naturalmente si sviluppa la
discussione è quello dei diritti fondamentali; anzi, sugli aspetti fondamentali
dei diritti fondamentali: la pena di morte, l’età e lo stato psichico dei
condannati, le modalità anche temporali delle esecuzioni; i diritti degli
omosessuali; le “azioni positive” a favore della partecipazione politica delle
donne o contro storiche discriminazioni razziali, ad es. nell’accesso al lavoro
e all’istruzione; la limitazione dei diritti per motivi di sicurezza nazionale;
la regolamentazione dell’aborto e, in generale, i problemi posti dalle
applicazioni tecniche delle scienze biologiche a numerosi aspetti
dell’esistenza umana; la libertà di coscienza rispetto alle religioni dominanti
e alle politiche pubbliche nei confronti di scuole e confessioni religiose; i
diritti degli individui entro le relazioni familiari e similari. E’ a partire
da problemi come questi che la discussione ha preso avvio ed è a questo livello
che la comparazione delle esperienze giurisprudenziali viene auspicata od
osteggiata.
Fin da ora si può constatare l’emergere di un duplice
livello di questioni costituzionali, a seconda di come sia concepita la portata
dei diritti, universale o particolare. La discussione circa l’integrazione
delle giurisprudenze riguarda il primo, il secondo restando circoscritto
all’ambito degli ordinamenti costituzionali nazionali. Il confine tra l’uno e
l’altro campo, però, non è fisso e il confronto comparatistico potrà estendersi
facilmente anche ad altri settori (economia, partecipazione politica e
amministrativa, difesa dell’ambiente, ad es.) in cui si facciano valere profili
che le giurisprudenze costituzionali, anche alla stregua di convenzioni,
dichiarazioni e documenti di matrice internazionale, definiscano come diritti
attinenti alla persona umana come tale.
3. Pro e contra. - I critici della tendenza a
una “giustizia costituzionale cosmopolitica” – una meretriciuos practice,
secondo l’espressione di Richard A. Posner[5]
– la sovraccaricano di ideologia, quando evocano un flirt con l’idea
di un diritto naturale universale o con l’dea di una “incombente legge morale”
e parlano di “avanguardismo morale”. Secondo la dottrina del diritto naturale –
si ragiona così – esistono principi di diritto che devono informare i diritti
positivi; essendo universali, li si deve riscontrare nel proprio come negli
altrui ordinamenti. Il consenso, così, sarebbe un attestato di legittimità e
fondatezza delle singole decisioni. L’avanguardismo morale, poi, si nutrirebbe
dell’idea di progresso giuridico che, a partire dalle divisioni, tenderebbe
all’unificazione delle società nel nome dei diritti umani.
In realtà, non c’è alcun bisogno di arrivare a tanto.
Anzi, questa esagerazione ideologica sembra fatta apposta per suscitare
opposizioni. Basta un atteggiamento di modestia nei confronti delle altrui
esperienze, rispetto ai nostri medesimi problemi. Basta non credere di essere
soli nel proprio cammino e non presumere, come invece fanno gli sciovinisti
della costituzione, di essere i migliori. Il presupposto non è necessariamente
il diritto naturale né l’illusione del progresso. Può essere la prudenza
dell’empirista che vuole imparare, oltre che dai propri, anche dagli altrui
successi ed errori. Basta riconoscere che le norme della Costituzione, per
esempio in tema di dignità e uguaglianza di ogni essere umano e di diritti
fondamentali, aspirano all’universalità, e che la loro interpretazione, già a
prima vista, non è l’interpretazione di un contratto, o di un provvedimento
amministrativo, e nemmeno di una legge, scaturita da volontà politiche
contingenti. L’interpretazione costituzionale è un atto di adesione o di
rottura rispetto a tradizioni storico-culturali comprensive, di cui le singole
Costituzioni sono parti.
Il rilievo per le giurisprudenze nazionali della
giurisprudenza straniera o sopranazionale non presuppone dunque affatto l’esistenza
di una preponderante dimensione di diritto sovra-costituzionale. Stiamo
parlando non di un cavallo di Troia per affermare una “dittatura
universalistica dei diritti”, ma di uno strumento per intendere le nostre
proprie costituzioni nazionali, attraverso il quadro di sfondo che dà loro un
preciso significato in un determinato momento storico [6]I
cittadini di un ordinamento non sono chiamati a subire “inclinazioni,
entusiasmi o mode straniere [7].
Il fine è principalmente di diritto interno. E’ come ricorrere, per risolvere
un problema difficile, a “un amico ricco di esperienza”, che fa pensare meglio,
risveglia energie potenziali latenti, allarga le prospettive e arricchisce le
argomentazioni, portando alla luce punti di vista forse altrimenti ignorati: “il
diritto comparato mi serve come uno specchio: mi consente di osservarmi e
comprendermi meglio”[8].
La circolazione delle giurisprudenze non compromette
dunque l’identità della propria. La comunicazione di esperienze è sempre
filtrata perché presuppone standard minimi di omogeneità e giudizi di
congruità su testi e contesti giurisprudenziali. Questi giudizi sono delle
Corti nazionali. Non si determina alcuna diminuzione della loro funzione
sovrana.
Ripensiamo però all’immagine dello specchio. Essa ci
parla di rifrazioni in uno spazio in cui ciascuno può guardare se stesso
attraverso l’altro. Ci dice che la comunicabilità delle giurisprudenze coincide
con la partecipazione a un rapporto paritario ed esclude pregiudiziali
complessi costituzionali di superiorità (oggi, degli Stati Uniti d’America
rispetto a Zimbabwe; domani – chi può sapere – dello Zimbabwe rispetto agli
Stati Uniti d’America).
L’incomunicabilità, al contrario, equivale alla
rottura della cerchia ideale di interpreti costituzionali da cui abbiamo preso
lo spunto. Le Corti di giustizia costituzionale hanno, per così dire, radici
che affondano in condizioni politico-costituzionali nazionali ma hanno la testa
rivolta a principi di portata universale. Chiudersi in se stessi significa una
cosa soltanto: predisporsi a politiche costituzionali e dei diritti umani
funzionali ai soli esclusivi interessi nazionali.
4. Giurisprudenza creativa?. - L’impermeabilità delle giurisprudenze è difesa
anche con argomenti che coinvolgono la legittimità della giustizia
costituzionale, la separazione dei poteri e la natura dell’interpretazione
della Costituzione.
La comunicazione tra giurisprudenze presuppone
l’esistenza, nell’interpretazione, di una margine di elasticità, cioè di
discrezionalità. In mancanza, l’intero discorso che precede sarebbe campato per
aria. Ammesso pure che vi siano buone ragioni a favore del dialogo tra le
giurisprudenze, se le decisioni delle Corti fossero rigidamente vincolate al
quadro interno senza margini di apprezzamento, quelle buone ragioni cadrebbero
su un terreno sterile.
La discussione, negli anni scorsi, è stata tenuta viva
dal cosiddetto originalismo, la dottrina dell’interpretazione
costituzionale aderente al puro e semplice significato del testo, al momento
della sua fattura (testualismo) o secondo l’intento dei fondatori (intenzionalismo).
La bestia nera è la costituzione vivente, sensibile alle esigenze
costituzionali del tempo che muta.
Gli argomenti contro la “costituzione vivente” sono
incentrati sui pericoli della giurisprudenza creativa, cioè
dell’interpretazione evolutiva. Staccarsi dalle origini – si dice[9] - significa aumentare la discrezionalità;
discrezionalità equivale a politicità; la politicità è incompatibile col
carattere giudiziario della giustizia costituzionale e offende la separazione
dei poteri a danno del legislativo; l’offesa alla separazione dei poteri, a sua
volta, mina la legittimità della giustizia costituzionale. Non solo per
mantenere la separazione dei poteri; non solo per preservare il carattere giudiziario
della giustizia costituzionale ma anche per salvaguardarne la ragione di
legittimità, occorre respingere la dottrina della Costituzione vivente,
ancorché si sia imposta con la forza del fatto nella pratica delle Corti.
La questione, non nuova, anzi antica, è di quelle
determinanti sotto molti aspetti. Per qualche tempo, può restare quiescente e
si può ritenere che la giustizia costituzionale abbia messo radici e abbia
trovato un suo posto definitivo nell’architettura costituzionale odierna dello
Stato democratico. Non è così. La sua natura accentuatamente sovrastrutturale,
espressione di esigenze che si distaccano dall’immediato sentire popolare e
dall’interpretazione che ne danno gli organi politici, espone sempre le Corti a
contestazione circa la legittimità delle loro pronunce, della loro composizione
e, in caso di acuto contrasto, perfino della loro esistenza.
Ma si possono combattere i pretesi eccessi
discrezionali cristallizzando nel tempo l’interpretazione della Costituzione?
No, non si può. La discrezionalità è un dato insormontabile. La riprova è nei
progetti di riforma che, come quello discusso in questi anni in Italia, mirano
a ridefinire il ruolo della Corte basandosi sulla logica seguente: siamo contro
la discrezionalità ma, poichè non la si può eliminare, che almeno la si orienti
secondo le aspettative politiche, modificando a tal fine i suoi equilibri
interni. Così, però, si rafforza il difetto, colpendo la giustizia
costituzionale nel suo punto essenziale, l’autonomia dalla politica. L’alternativa
realistica non è tra costituzione fissa o cristallizzata e costituzione
vivente, ma tra Corti autonome e Corti allineate.
5. Costituzione vivente. - La costituzione
vivente è l’esperienza quotidiana delle Corti. Nella pratica, posizioni
originaliste vengono in effetti sostenute (ad esempio, col richiamo ai “lavori
preparatori”), ma ciò è solo una retorica argomentativa tra le altre, per
sostenere questa o quella interpretazione della Costituzione, conformemente
all’aspettativa non del mondo che fu, ma del mondo di oggi, secondo la visione
dell’interprete. Qui non interessa la colorazione politico-giudiziaria. Di
regola, la costituzione vivente piace più a chi lavora per l’estensione dei
diritti e meno a chi opera in direzione opposta, e il contrario vale per la
costituzione originaria. Ma sono affermazioni relative. I tempi possono
cambiare e la re-interpretazione può essere invocata per limitare diritti, e
viceversa il significato originario può essere utile a chi resiste al tentativo
di limitazione (si pensi all’atteggiamento delle Corti verso le legislazioni
anti-terrorismo). Insomma, la direzione non è affatto assicurata[10].
Non è questa, dunque, questione di politica giudiziaria e, meno ancora, di
destra o di sinistra. E’ un tema di teoria dell’interpretazione e della
Costituzione.
In Europa, l’idea del “significato originario” suona
come un’ingenuità, da quando Giustiniano, senza successo, intese proteggere il
suo Codice da giudici e giuristi. Ed è paradossale che l’interpretazione
pietrificata sia stata rimessa in onore proprio in un Paese di common law,
dove ai diritti si attribuisce un fondamento naturale autonomo, come gli Stati
Uniti[11].Come
può la scienza costituzionale, scienza normativa della società, ridursi a una
storiografia delle intenzioni o a una filologia storica dei testi
costituzionali?
Innanzitutto, c’è e c’è sempre una e una sola
intenzione (se già fossero due, l’impalcatura cadrebbe)? E, se esistesse, come
la si potrebbe ricostruire? Le parole che usiamo, o che i nostri predecessori
hanno usato, possiedono un significato e uno solo? L’idea di risalire
all’indietro nel tempo per stabilire significati certi, dei propositi degli
uomini e delle loro parole, non farebbe altro che spostare indietro nel tempo i
nostri dubbi e i nostri attuali contrasti, attribuendoli non a noi ma
ai nostri predecessori. Non favorirebbe affatto la stabilità e la certezza del
diritto.
D’altro canto, un carattere non accidentale delle
Costituzioni è la sua natura di principio. I principi sono norme per loro natura
aperte agli sviluppi del futuro. Se la Costituzione italiana (art. 27, c. 3)
vieta le pene contrarie al “senso di umanità”; se la Costituzione statunitense
(VIII emendamento) vieta le pene “inusuali e crudeli”, e non sono state
proibite, analiticamente, la fustigazione, la tortura, la gogna, ecc., è perché
era nell’intenzione dei costituenti che quelle formule vivessero nel futuro. I
principi contengono “concetti” (umanità, dignità, uguaglianza, libertà, ecc.)
che (secondo la distinzione di R. Dworkin) vivono attraverso le loro
“concezioni”, mutevoli nel tempo. Onde, si può fondatamente dire che la
“costituzione vivente”, cioè l’apertura all’evoluzione della cultura giuridica,
è, per l’appunto, ciò che rientra nell’intenzione dei padri costituenti, quando
si esprimono per mezzo di norme di principio. In generale – si è detto [12]
- ci sono formule costituzionali che traggono il loro significato direttamente
dai valori che emergono dalla civiltà di una società e non possono fissarsi in
una formula: tra questi valori vi è la dignità umana.
La propensione al futuro è l’essenza della
costituzione e la natura particolare delle sue norme ne sono testimonianza.
Chi, in nome delle origini, cioè della fedeltà a una “costituzione inerte”,
ritiene che ogni nuova esigenza costituzionale debba manifestarsi non
attraverso rinnovate risposte ai nuovi interrogativi, ma solo attraverso
emendamenti, affinché così si garantiscano separazione dei poteri e certezza
del diritto, disconosce sia la funzione della giurisprudenza sia l’importanza
della durata nella vita costituzionale. Disconosce cioè la funzione della
costituzione.
Una costituzione che sopravvive con incessanti
modificazioni viene degradata a legge ordinaria e la materia costituzionale si
confonde con la lotta politica quotidiana.“The earth belongs to the living”,
affermava Thomas Jefferson e
Lo scopo di giurisprudenza ed emendamento è
concorrente. Le linee di mutuo rispetto sono elastiche, in conseguenza della
discrezionalità che, in diversa misura, muovono l’una e l’altro. Perciò
l’interpretazione può prevaricare sull’emendamento, soprattutto dove le
procedure, con le quali il legislatore potrebbe contenere l’espansione della
discrezionalità giudiziaria, sono particolarmente gravose. Il rischio che
corrono le Corti è di diventare una fonte di diritto incontrollata e di essere
così rigettate dalla comunità in cui operano [14]
6. Giustizia costituzionale e democrazia. - Siamo ancora una volta, tanto per
cambiare, in tema di giustizia e politica; poiché poi i poteri politici, oggi,
si richiamano alla democrazia, possiamo dire di essere in tema di giustizia
costituzionale e democrazia: un tema a intensità variabile, a seconda dei
diversi contesti storici e giuridici, che i giudici costituzionali avvertono
quotidianamente, nel loro lavoro, come cruciale nell’equilibrio poteri. Essi
ben sanno che l’accusa di agire come legislatori, cioè politicamente, invece
che come giudici, è la più grave che possa essere rivolta contro di loro. Molto
si è detto ma sempre si ritorna al punto di partenza.
Si è pensato che la chiave di un chiarimento possa
trovarsi nella distinzione ragione-passione. Le Corti sarebbero – meglio:
dovrebbero essere - “aristocrazie del sapere”, chiamate ad arginare la tendenza
della democrazia a degenerare in demagogia e a fissare “un punto fermo per il
razionale sviluppo della società attuale”, come “’isola della ragione’ nel caos
delle opinioni” [15].
Si è detto anche che le Corti sarebbero “avanguardie morali”, qualche cosa di
simile a “Mosé secolari”, che traggono il popolo dal deserto per condurlo alla
terra promessa della vita costituzionale[16].
Ascoltando proposizioni come queste, i giudici costituzionali si ritraggono
perplessi, fiutando un certo sarcasmo. Essi conoscono la passione, non
inferiore a quella di una delibera parlamentare, che entra nelle loro discussioni
e non sono così sprovveduti da disprezzare quanto di razionalità e moralità c’è
nelle procedure parlamentari. Ma, soprattutto, si rendono conto che questa
legittimazione per eccellenza, quasi teologica [17]
travolgerebbe ogni distinzione. Le Corti, si è detto con ironia, potrebbero
aspirare al ruolo di super-legislatori semplicemente perché “sono super”[18].
A parte tutto, questo modo di pensare non è quello della distinzione dei
poteri, ma quello dell’indistinzione e della prepotenza dell’uno sull’altro.
Una prospettiva in certo senso opposta è quella della
giustizia costituzionale come funzione “modesta”, non “aggressiva”, che
riconosce una sorta di primato al legislatore democratico, quale interprete
autentico delle concezioni etiche e politiche della comunità e insiste sul
necessario self-restraint delle Corti e sull’etica delle conseguenze.
Quando sono in gioco apprezzamenti discrezionali, oltre i principi e le
convinzioni deve considerarsi con pragmatismo anche la qualità degli effetti
sociali, economici e politici delle decisioni. Vi sono materie in cui la
sensibilità sociale è sovraeccitata e le conseguenze potrebbero contraddire le
intenzioni. Ad esempio, una Corte che, in nome della pace religiosa, imponesse
indiscriminatamente in ogni luogo pubblico la rimozione di qualsiasi simbolo
religioso potrebbe innescare reazioni e conflitti locali: onde, un’intenzione
pacificatrice si trasformerebbe in fomite di intolleranza. In ogni caso,
l’invocazione alla modestia si traduce in un’indicazione di questo genere alle
Corti: per essere accettate in democrazia, soprattutto nei casi altamente
controversi, cercate di fare avvertire la vostra presenza il meno possibile. Ma
ciò delinea una posizione gregaria e non contribuisce minimamente all’esigenza
di dare alla giustizia costituzionale un suo proprio e autonomo fondamento
rispetto alla politica. Forse, si deve integrare, completandolo, l’orizzonte di
riferimento.
7. Una funzione repubblicana. - La
Costituzione italiana definisce l’Italia una repubblica democratica.
Molti Paesi tra quelli qui rappresentati hanno Costituzioni che contengono la
medesima espressione. La giustizia costituzionale è una funzione della
repubblica, non della democrazia. Le Corti possono sembrare ospiti sgraditi in
casa d’altri, la democrazia; ma sono padroni di casa in casa propria, la
repubblica. Ma la casa è una sola: la repubblica democratica.
Secondo la concezione sette-ottocentesca, repubblica
indica una forma di governo opposta alla monarchia. Secondo la concezione
originaria, invece, essa ha un significato più profondo e comprensivo.
Riferiamoci alla definizione classica. Nel Somnum Scipionis [19]
leggiamo: «La Repubblica – disse l’Africano – è ciò che appartiene al popolo.
Ma non è popolo qualsiasi moltitudine di uomini riuniti in un modo qualunque,
bensì una società organizzata fondata sulla base del legittimo consenso e
sull’utilità comune (coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis
comunione sociatus)». Res populi, iuris consensus, utilitatis
communio: tre espressioni su cui si sono versati fiumi di inchiostro. Un
punto chiaro è che la res populi è la res totius populi. E, se è cosa
di tutto il popolo, non può essere di nessuna parte, nemmeno della maggioranza.
Inoltre, la utilitatis communio implica una certa spersonalizzazione
delle cose politiche. Lo spirito repubblicano, nel senso originario, si oppone
a ogni visione personale del potere ed è indipendente dal tipo di governo. Vi
può essere repubblica quando il governo (il consilium) appartiene a un
re, a un gruppo di ottimati, a tutti i cittadini[20].
Ciò che importa è che il potere non sia esercitato nell’interesse particolare
di chi ne dispone. Onde non è strano che un regime monarchico possa dirsi
repubblicano[21]),
quando il monarca, a differenza del despota, opera per il popolo tutto intero.
Repubblica è un termine di genere che indica una concezione della vita
collettiva; la democrazia è una specificazione che riguarda la concezione del
governo.
Questo modo d’intendere la res publica è
coerente, anzi forse coincide, con l’idea di politéia , espressione
che, come la prima, non si presta a una traduzione precisa in una sola parola,
comprensiva di tutti i suoi significati. Per quel che qui interessa, equivale a
costituzione secondo la definizione che, molti secoli dopo, è data dal
giudice Robert Jackson della Corte Suprema americana, nel famoso caso del compulsory
flag salute [22]:
«L’autentico proposito di una [costituzione] … è di sottrarre certe materie
alle vicende delle controversie politiche, collocarle fuori portata di
maggioranze e funzionari, sancirle come principi legali da applicarsi da parte
delle Corti. Il diritto di chiunque alla vita, alla libertà, alla proprietà,
alla libertà di parola, la libera stampa, la libertà di culto e di riunione e
gli altri diritti fondamentali non possono essere sottoposti al voto; non
dipendono dall’esito di alcuna votazione».
Fissato il principio che la giustizia costituzionale è
funzione della repubblica, dovrebbe aprirsi la strada per una netta distinzione
rispetto alla legislazione, funzione della democrazia. La legislazione è
funzione di ciò su cui “si vota”, mentre la giustizia costituzionale è funzione
di ciò su cui “non si vota”, perché è res publica.
Si dirà: eppure, anche sulla Costituzione si vota.
Anzi: sono proprio i giudici costituzionali che, per difendere ciò su cui non
si vota, decidono votando. C’è in questo un paradosso, anzi una contraddizione.
La difesa di ciò che è comune può essere lasciato, in ultima istanza, al voto
di una maggioranza che schiaccia una minoranza? Questa contraddizione è
avvertita dai giudici costituzionali tutte le volte in cui si tratta di
prendere una decisione propriamente costituzionale – una decisione, intendo
dire, in cui è in gioco non l’applicazione di una norma costituzionale ma la
determinazione del suo contenuto. In questi casi, è naturale cercare la
soluzione più condivisa. L’unanimità sarebbe l’optimum. Se non la si
raggiunge, si lavora almeno per il massimo consenso possibile. Il ricorso al
voto di maggioranza è solo l’estremo rimedio a un difetto: l’incapacità di
creare consenso sui propri argomenti e l’indisponibilità a farsi convincere da
quelli altrui. Le decisioni
L’atteggiamento deliberativo non elimina affatto la
discrezionalità del giudicare in diritto costituzionale. Ma ne cambia la natura
e il fine: la discrezionalità come espressione della volontà che si impone,
propria degli organi politici, è cosa diversa dalla discrezionalità
“repubblicana”, finalizzata al consenso sulla costituzione. E ciò costituisce
il dato che distingue i due ambiti.
8. Terra e territorio: res publica universalis?.
- La fondazione repubblicana della
giustizia costituzionale ci riconduce alla questione di partenza: la mutua
rilevanza delle giurisprudenze costituzionali.
Il mondo giuridico odierno, in molti campi, va
affrancandosi vistosamente dal territorio, lo spazio circondato da confini cui
il diritto pubblico occidentale ha per secoli assegnato il compito di
specificare le collettività umane, il loro governi e i loro sistemi giuridici.
Questo elemento dello Stato ha rappresentato per secoli la dimensione in cui i
fatti sociali assumevano senso e valore e, di conseguenza, la dimensione delle
loro ripercussioni giuridiche. Ciò che accadeva fuori o era indifferente o, se
non lo era, interveniva il diritto internazionale. Esso superava i confini ma,
essendo la sua matrice pur sempre statal-territoriale, nel superarli, li
ribadiva come presupposti. La res publica stava in queste frontiere.
Oggi non è più così. Le dimensioni si sono allargate. La terra appartiene ai
viventi o, forse, i viventi appartengono alla terra: terra, comunque, non più
territori.
La sovranità di un tempo è cambiata in interdipendenza
o dipendenza. Il controllo di molti fattori condizionanti la nostra esistenza
ci sfugge. Atti ed evenienze di natura politica, economica, tecnologica in
altre parti del mondo condizionano direttamente il patrimonio dei beni
costituzionali nazionali. Eppure, essi sono sottoposti alla giustizia
costituzionale del Paese dove si verificano. D’altro lato, i nostri principi
costituzionali, nell’essenziale, hanno portata universale: la dignità, l’uguaglianza
e i diritti umani, la pace, la giustizia ecc. La loro violazione rileva,
innanzitutto da un punto di vista morale, in qualunque luogo della terra essa
avvenga. Eppure, essa cade sotto la giurisdizione delle Corti nazionali. C’è
un’evidente incongruenza di proporzioni.
E’ naturale, quando i beni costituzionali diventano
interdipendenti e indivisibili, che le giustizie costituzionali di ogni livello
aspirino a integrarsi, se non in una forma istituzionale sopranazionale
cosmopolitica, che non è alle viste e forse non lo sarà mai, almeno in contesti
deliberativi comunicanti. L’interazione non potrà non portare, prima o poi, a
una certa convergenza di risultati.
L’apertura delle giurisprudenze a reciproci intrecci
non è dunque moda, pretesa di professori, arbitrio rispetto alle rispettive
costituzioni nazionali. E’ un’esigenza radicata nella vocazione odierna della
giustizia costituzionale. E’ parte del processo a molte facce di
“universalizzazione del diritto”, un fenomeno caratteristico del nostro tempo
giuridico [23].
La piccola domanda iniziale, se sia lecito alle Corti citare giurisprudenze
altrui, mostra così le sue non piccole implicazioni.
Noi non possiamo tuttavia tacere le difficoltà. Tutte
le volte in cui si scontrano contrapposizioni radicali e le questioni
costituzionali si trasformano in conflitto di civiltà o Kulturkampf [24]
la giustizia costituzionale, invece che aprirsi e prendere campo, si
rattrappisce in se stessa. L’esempio dei simboli religiosi, sopra citato, è
appunto solo un esempio.
E’ stata notata, di fronte alle contrapposizioni, la
propensione delle Corti alla “terza opzione”, per non appiattirsi su nessuna di
quelle in campo. Ciò non rappresenta l’opportunistico tentativo di camminare
sul filo del rasoio per non scontentare nessuno; è invece la via, non priva di
giustificazione, per mantenere aperti i collegamenti tra le parti, spianare le
asprezze e preservare aperto e fertile il terreno del confronto, ciò che, alla
fin fine, rappresenta il compito integrativo essenziale di ogni costituzione
pluralista. Ma in contesti di grandi tensioni politiche e culturali che non
lasciano altra possibilità che schierarsi con l’una o con l’altra parte, il
potere delle Corti di certificare legittimità e illegittimità in ultima
istanza, rischia essa stessa di diventare fattore di altre tensioni e di
ulteriore divisione. Perciò, il dualismo radicale delle posizioni, che in certi
momenti pare minacciarci, è nemico della Costituzione e della giustizia
costituzionale; amico è il pluralismo degli equilibri dinamici, il quale si
nutre di moderazione, riconoscimento, rispetto e dialogo reciproco: garantire i
quali costituisce il compito più profondo dei Tribunali costituzionali di
qualunque parte del mondo. Questo è lo spirito della giustizia costituzionale e
dei suoi giudici. E questa è anche la ragione per la quale non è vuota retorica
considerarli membri di quella ideale società repubblicana alla quale allude la
dedica che ho ricordato, iniziando queste considerazioni.
[1] E. Ferrer Mac-Gregor, Nota introductoria
a AA.VV. Interpretación constitucional, Editorial Porrúa - Univ.
Nacional Autónoma de México, México, 2005, p. XX
[2] Giudice Breyer, in Knight v.
Florida [1999]
[3] A questa posizione
“universalistica”, il giudice Thomas, per
[4] D.M. Amann, “Raise
the Flag and Let it Talk”: On the Use of External Norms in Constitutional
Decision Making, in I-CON, 2004, pp. 597 ss..
[5] The Supreme Court,
2004 Term – A Political Court, in Harvard Law Review, vol. 119,
2005, p. 99
[6] V. il dissent dei
giudici Breyer e Stevens in Jay Printz v. United States [1977].
[7] Come detto invece nell’opinion
del giudice Scalia in Lawrence v. Texas [2003]
[8] Parole inedite di
Aharon Barak, Comparative Law, Originalism and the Role of a Judge in a
Democracy: A Reply to Justice Scalia , Fulbright Convention del 29 gennaio
2006
[9] Ad es. R. Bork, Coercing
Virtue. The Worldwide Rule of Judges, American Entreprise Inst. Press,
[10] A. Dershowitz, Rights
from Wrongs,
[11] M. Rosenfeld, Constitutional
Adjudication in
[12] V. l’opinion
dissenziente del giudice O’Connor in Roper v. Simmons
[13] V. Federalist, nn. 14 e 49;
E. Sieyès, Opinion sur le Jurie constitutionnaire, Paris, 1795.
[14] M. Rosenfeld,Constitutional
Adjudication, cit., pp. 652 ss..
[15] F. Modugno, L’invalidità
della legge, vol. I, Milano, Giuffrè, 1970, p. XI; anche H. M. Hart, Jr., The
Supreme Court, 1958 Term — Foreword: The Time Chart of the Justices,
in Harvard Law Review, vol. 73, 1959-1960, pp. 84 ss.
[16] A. M. Bickel, The
Supreme Court, 1960 Term — Foreword: The Passive Virtues, in Harvard
Law Review, vol. 75, 1961-1962, pp. 41 ss.
[17] T. Arnold, Professor
Hart’s Theology, in Harvard Law Review, vol 73, 1959-1960, pp.
1298 ss.,
[18] R. A. Posner, The
Supreme Court, 2004 Term – A Political Court, cit., p. 60
[19] M.T. Cicerone, De Repubblica,
I, XXV
[20] M.T. Cicerone, De Repubblica,
I, XXVI
[21] Ad es. J. Althusius, Politica
methodice digesta [1614], IX, 1-3
[22]
[23] S. Cassese, Universalità del
diritto, Un. Suor Orsola Benincasa, Editoriale Scientifica, Napoli, 2005.
[24] M. Rosenfeld, Constitutional Adjudication,
cit., p. 664, rammentando l’opinion di A. Scalia in Romer v. Evans
[1996]