UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TRE

INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2004-2005

PROLUSIONE DEL PRESIDENTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

PROF. VALERIO ONIDA

 

Magnifico Rettore, Autorità, cari Colleghe e Colleghi, Signore e Signori,

la mia non sarà una vera e propria prolusione, secondo la tradizione accademica di una lezione articolata su di un argomento scientifico: sarà piuttosto un semplice breve abbozzo di riflessione su un tema che ci riguarda tutti come cittadini.

I costituenti francesi del 1789 affermarono che “una società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è stabilita la separazione dei poteri, non ha Costituzione”. Si può notare come con questa affermazione non solo si dia del costituzionalismo una nozione non meramente formale della Costituzione (vista come insieme di regole fondamentali – quali che esse siano – diretta a disciplinare la vita dello Stato e i suoi rapporti con i cittadini), bensì contenutistica; ma si dia anche preminente risalto, in relazione ai contenuti della Costituzione, non già ai criteri di legittimazione del potere, e così al principio democratico o a quello rappresentativo, ma piuttosto ai limiti che debbono essere frapposti al potere medesimo e al suo esercizio.

E’ ancora attuale questa concezione del contenuto e della funzione della Costituzione?

La risposta a questo quesito, a mio giudizio, deve essere senz’altro positiva.

Come è noto, la divisione o separazione dei poteri, che originariamente investiva essenzialmente il rapporto fra potere legislativo da un lato, potere esecutivo (oltre che giudiziario) dall’altro, e cioè il rapporto fra chi era chiamato a deliberare le leggi e chi era chiamato ad applicarle, ha visto in seguito attenuarsi, se non perdersi del tutto, questo significato. L’espansione del principio democratico ha ricondotto ad un’unica fonte di legittimazione i poteri legislativo ed esecutivo, e all’affermarsi, specie in Europa, di forme di governo improntate ad uno stretto coordinamento fra di essi, fra di loro collegati dal rapporto fiduciario del Governo con la maggioranza parlamentare. L’attività legislativa è divenuta parte integrante ed essenziale dell’attività di governo, non solo attraverso il più largo uso di forme di legislazione delegata o comunque di fonti normative facenti capo al Governo, ma anche attraverso il controllo sempre più stretto da parte del Governo delle deliberazioni legislative del Parlamento, secondo il noto schema del Governo come “comitato direttivo”, e non già “comitato esecutivo”, della maggioranza parlamentare.

Non che sia venuto meno del tutto il significato della ripartizione di compiti fra Governo e Parlamento, soprattutto in relazione al ruolo che in quest’ultimo è svolto dalla opposizione: ma certo non si può parlare di una separazione e di una reciproca indipendenza fra questi due poteri nel senso originario.

Dove invece, per converso, il principio di separazione dei poteri si è sviluppato e perfezionato è con riguardo al potere giudiziario, che da apparato sostanzialmente facente capo all’esecutivo, sia pure con forme più o meno avanzate di autonomia, è divenuto sempre più nettamente apparato distinto ed effettivamente indipendente dal Governo e dal Parlamento.

A ciò si è aggiunto l’affermarsi di altri poteri dotati di uno statuto di indipendenza e di ruoli di garanzia, o comunque di funzioni nettamente separate da quelli del continuum Governo-Parlamento: dal Capo dello Stato nei regimi parlamentari, agli organi di giustizia costituzionale, alle cosiddette autorità amministrative indipendenti.

Così che oggi si può forse dire che il vero significato costituzionale del principio di divisione dei poteri consiste nella separazione e nella reciproca indipendenza fra poteri di governo o politici da un lato, poteri di garanzia dall’altro lato.

Alla distinzione dei relativi ruoli corrisponde una netta differenziazione quanto a fonti di legittimazione. I primi, i poteri politici, rispondono al criterio di legittimazione democratico-elettivo, caratterizzato dalla regola di maggioranza; i secondi, i poteri di garanzia, trovano la loro fonte di legittimazione non già o non principalmente nella derivazione democratica, bensì nei compiti ad essi affidati di salvaguardia dei diritti e delle regole costituite, e nei requisiti di competenza e indipendenza che essi debbono possedere.

Se il Presidente della Repubblica, in una Repubblica parlamentare, è un potere prevalentemente di garanzia, ma tuttavia vicino e strettamente legato, quanto a fonte di legittimazione e a modi di attività, ai poteri politici, gli apparati di tipo giurisdizionale sono invece per lo più privi di legittimazione democratica: la fonte e la ragione del loro potere non sta nella volontà della maggioranza elettorale o parlamentare, ma, al contrario, nel ruolo ad essi affidato di assicurare con competenza e indipendenza il rispetto dei limiti frapposti ai poteri politici, a garanzia dei diritti di tutti e dell’osservanza delle regole.

Questo elemento non costituisce però una deroga o una causa di incompleta attuazione del principio democratico. La democrazia, nel senso costituzionale in cui noi la intendiamo, esige anzi proprio che il sistema rappresentativo e la regola di maggioranza si fermino e cedano il campo là dove si tratta dei poteri di garanzia, il cui compito è proprio quello di salvaguardare i limiti costituzionali al potere della maggioranza. La “garanzia dei diritti”, che secondo i costituenti francesi doveva essere assicurata, insieme alla divisione dei poteri, perché potesse parlarsi di Costituzione, richiede infatti di essere affidata a soggetti e procedure nettamente distinti da quelli in cui si esprime il potere democratico della maggioranza, e da essi indipendenti, trattandosi di assicurare l’osservanza dei limiti che si frappongono soprattutto della stessa maggioranza.

Se questo è dunque, oggi, il senso profondo della divisione dei poteri, risulta chiaro anzitutto come non possano accettarsi concezioni tendenti a ridurre il rango e lo status dei poteri di garanzia, in base all’argomento che essi non sono democraticamente legittimati dalla volontà popolare, cioè della maggioranza. La concezione costituzionale si fonda contemporaneamente sulla affermazione del potere della maggioranza e sulla garanzia dei limiti che esso incontra. La Costituzione non si fonda su una concezione “assoluta” della sovranità popolare, a cui ogni potere debba in definitiva ricondursi nella sua fonte di legittimazione e nelle sue modalità di esercizio, ma sull’idea di una “sovranità” (e forse questo stesso termine, nel suo significato storico, deve ormai ritenersi inadeguato) che si esercita non solo nelle “forme”, ma anche nei “limiti” della Costituzione stessa (art. 1, secondo comma).

Il concetto di limite, dunque, è coessenziale all’esercizio del potere, e, se limite vi deve essere, non può non esservi qualcuno chiamato ad assicurarne il rispetto effettivo, e questi non può essere lo stesso titolare del potere esercitato: occorrono, quindi poteri di garanzia.

Poteri politici – operanti in base al criterio della maggioranza – e poteri di garanzia sono entrambi necessari, sullo stesso piano, per il funzionamento della democrazia costituzionale. Quando ad esempio qualcuno si richiama all’espressione dell’art. 104 della Costituzione – “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” – per marcare la presunta differenza fra “ordine” e “potere” e la conseguente inconfigurabilità di un vero potere giudiziario, dimentica questo dato.

Se ciò è vero, si capisce che tra poteri politici e poteri di garanzia possano manifestarsi forme di fisiologica tensione, se non di contrapposizione dialettica, com’è naturale fra chi è chiamato ad operare entro limiti dati, e chi è chiamato a far valere in concreto tali limiti. Ciò non deve scandalizzare. In effetti, si tratta di poteri destinati in qualche modo a confrontarsi, più che a collaborare. Perciò non è forse del tutto proprio invocare, a proposito dei rapporti fra poteri politici e poteri di garanzia, il principio di leale collaborazione, che la giurisprudenza costituzionale e la stessa Costituzione richiama come regola nei rapporti fra poteri (specie fra poteri centrali e periferici). In realtà, fra poteri politici e poteri di garanzia, in particolare poteri giudiziari, la cifra dominante non è data tanto dalla collaborazione in senso stretto, quanto dalla distinzione dei compiti, dal reciproco rispetto e dalla reciproca lealtà.

Che si possano dare momenti di contrasto o persino di polemica fra poteri politici e di garanzia non è di per sé, dunque, un fattore o un segno di crisi del sistema costituzionale, finché l’equilibrio fra i due ordini di poteri si mantiene saldo.

L’elemento fondamentale per giudicare della salute del sistema, in un regime di divisione dei poteri, è appunto l’equilibrio, nel senso cioè che ciascuno dei due sottosistemi eviti o riduca al minimo i rischi di violazione dei propri confini, i rischi di cedere alla tentazione dell’onnipotenza.

I poteri politici, caratterizzati dalla massima libertà nella determinazione del contenuto delle proprie decisioni e nella stessa scelta degli oggetti su cui intervenire (avendo essi quasi sempre la facoltà di determinare il proprio ordine del giorno) non dovrebbero mai dimenticare di operare in un quadro che ha dei confini e dei limiti, a guardia dei quali stanno i poteri di garanzia. Più che non il rischio di adottare decisioni che si presentino in aperto e frontale contrasto con i vincoli costituzionali (il che, in un regime non autoritario, è evenienza poco probabile) è sempre in agguato la tentazione di sfuggire ad essi o di aggirarli con tecniche più o meno furbesche, o forzando i confini e i caratteri degli strumenti di cui si dispone. Si pensi, per portare un esempio non recentissimo, al fenomeno dell’abuso della decretazione d’urgenza invalso negli anni Ottanta e Novanta, con la tecnica della ripetuta reiterazione dei decreti legge non convertiti tempestivamente dal Parlamento, fino a quando una decisione della Corte costituzionale, nell’esercizio del suo potere di garanzia, non lo ha bloccato.

A loro volta, i poteri di garanzia (che a differenza dei primi non hanno normalmente la disponibilità della propria agenda, e operano a tutela di regole e principi predeterminati, quindi sulla base di parametri precostituiti) non dovrebbero mai cedere alla tentazione di sostituire proprie valutazioni di opportunità a quelle espresse nelle decisioni politiche, invadendo il campo delle scelte legislative o amministrative. Essi sono posti a guardia di confini, e debbono quindi essere tanto attenti a non occupare il campo all’interno di tali confini quanto fermi nell’impedire che questi vengano valicati dalle decisioni politiche.

La politica come mero arbitrio, e il giudizio come improprio strumento di governo, sono i due pericoli contrapposti. Mi pare di poter dire, tuttavia, che, nel clima culturale oggi dominante, tentazioni ed episodi di uso improprio dello strumento giudiziario al di là della sua funzione di garanzia si diano, certamente, ma per lo più sul terreno di questioni prive di immediato e intenso impatto politico generale. Là dove la politica fa valere le proprie ragioni, gli organi di garanzia ispirano in genere le proprie scelte ad atteggiamenti di prudenza e di self restraint, talvolta e da taluno perfino giudicati eccessivi.

Non si può dire sempre lo stesso, forse, dell’uso dei poteri politici, che talvolta appare incline alla ricerca di strade atte ad eludere, se non a contraddire apertamente, i vincoli costituzionali.

Vero è che, se funzionano gli organi di garanzia, eventuali esorbitanze del potere politico trovano generalmente il loro rimedio e la loro sanzione, anche se non sempre tempestivamente, dati i meccanismi e i tempi richiesti nel sistema; mentre ci si chiede quali possano essere i rimedi ad eventuali esorbitanze dei poteri di garanzia. Insomma, secondo l’antico motto, quis custodiet custodes?

Non è vero, peraltro, che i poteri politici siano inermi di fronte ad eventuali esorbitanze dei poteri di garanzia. Chi dispone, infatti, della legislazione ha per solito molte armi per conseguire legittimamente i suoi scopi anche in presenza di interventi interdittivi di organi di garanzia. Basti pensare all’uso della cosiddetta interpretazione autentica delle leggi, e cioè alla possibilità per il legislatore di smentire, con effetto anche per il passato, una interpretazione giurisprudenziale difforme dall’intento del primitivo legislatore: strumento che, secondo la giurisprudenza costituzionale, è pienamente ammissibile, sol che non siano in gioco principi costituzionali tali da precluderne l’efficacia naturalmente retroattiva.

In ogni caso, il rimedio alle eventuali esorbitanze dei poteri di garanzia non può stare nell’indebolirne la funzione o nel ridurne la indipendenza. Nemmeno, a mio avviso, esso andrebbe cercato nella espansione di forme di immunità della politica e dei suoi organi rispetto al controllo dei poteri di garanzia. Le immunità sono eccezioni che la Costituzione stessa talvolta prevede, entro limiti rigorosi e che devono restare tali. Esso va cercato piuttosto nelle stesse potenzialità interne dei sistemi di garanzia, spesso affidati, come nel caso del potere giudiziario, ad una pluralità di organi e di istanze, secondo lo schema del “potere diffuso”; o, in casi estremi, nel ruolo arbitrale affidato alla giustizia costituzionale, attraverso lo strumento del conflitto di attribuzioni, vera e propria valvola di chiusura del sistema dei poteri, azionabile davanti ad un organo che è esso stesso di garanzia, come la Corte costituzionale, ma che per la sua particolare posizione e le modalità stesse della sua formazione si colloca alla cerniera fra gli altri poteri ed è in grado anche di contrastare eventuali esorbitanze di organi giudiziari. La crescente frequenza, nel nostro paese, del ricorso a tale strumento, negli anni recenti, proprio nei rapporti fra organi politici e organi di garanzia, segnala l’intensificarsi di uno stato di tensione, e non è certo un segnale positivo. Resta però il fatto che lo strumento può validamente concorrere a mantenere gli equilibri costituzionali: come, per altro verso, negli ordinamenti che conoscono il ricorso costituzionale diretto a tutela dei diritti fondamentali, la giustizia costituzionale può svolgere un ruolo di controllo anche e proprio nei confronti dell’attività giudiziaria, dove siano in gioco appunto i diritti protetti dalla Costituzione.

Nel lungo termine, la dialettica fra organi politici e di garanzia può sfociare anche in modifiche nella interpretazione o persino nella formulazione dei precetti costituzionali. Nella storia sono ben noti i casi di evoluzioni dei sistemi costituzionali verificatesi in esito a periodi di conflitto: si pensi alla vicenda dell’affermarsi del New Deal negli Stati Uniti.

E’ anche, in un certo senso, fisiologico che le spinte all’innovazione vengano per lo più dagli organi politici, che raccolgono di norma con maggiore intensità le istanze evolutive che si manifestano nella società, che non dai poteri giudiziari, che spesso svolgono un ruolo di salvaguardia e quindi di conservazione dei caratteri consolidati del sistema. Ciò si collega da un lato alla funzione di difesa dei valori dell’ordinamento in vigore, propria - e doverosamente propria - dei poteri di garanzia, dall’altro lato alla circostanza che le stesse modalità di investitura dei titolari degli organi di garanzia (sotto il profilo delle fonti di investitura e della durata dei mandati) conducono normalmente ad assicurare maggiore continuità nei relativi indirizzi, laddove gli organi politici riflettono di norma più rapidamente i mutamenti che si manifestano nella coscienza sociale e di conseguenza nell’elettorato.

Questo fenomeno appartiene anch’esso alla fisiologia del funzionamento del sistema costituzionale. Peraltro, nonostante la forte spinta alla continuità che deriva dal peso dei precedenti nella giurisprudenza, nei tempi lunghi anche questa è in grado di recepire le spinte innovative presenti nel corpo sociale e di integrarle nella relativa continuità degli indirizzi. Fenomeni di interpretazione evolutiva della stessa Costituzione, specie in presenza di Costituzioni consolidate e longeve come ormai ben può dirsi la nostra, sono ben possibili e non sono infrequenti.

In casi estremi, anche il ricorso alla modifica del testo costituzionale, allo scopo di rendere possibili sviluppi normativi incompatibili col testo precedente, come interpretato dalla giurisprudenza, può concorrere ad assicurare l’evoluzione senza scosse del sistema. Tutti noi abbiamo presenti casi (da quello della integrazione dell’art. 111 della Costituzione in materia di giusto processo, a quello più recente della integrazione dell’art. 51 della Costituzione in materia di pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive) in cui le modifiche costituzionali deliberate dal Parlamento si sono innestate su precedenti indirizzi giurisprudenziali, tendendo in sostanza a smentirli o correggerli.

Se infatti le scelte del legislatore ordinario sono soggette ad essere paralizzate dalla pronuncia di incostituzionalità, l’ultima parola può essere ancora detta dal legislatore della revisione costituzionale, a patto che le modifiche deliberate non vadano ad incidere sul nucleo essenziale e irrivedibile del tessuto costituzionale: anche se, come è ovvio, non è auspicabile un uso troppo frequente o non adeguatamente ponderato del delicato potere di revisione.

Gli equilibri del sistema sono dunque in ogni caso assicurati, e nessun fantasma di un ipotetico “governo dei giudici” aleggia sul nostro sistema costituzionale.

Quel tanto di fisiologica tensione che può manifestarsi nel rapporto fra organi politici e di garanzia non dovrebbe mai, in conclusione, aprire la strada alla tentazione di intervenire non già sui temi concreti al cui proposito essa si manifesta, attraverso il dibattito, le modifiche legislative, l’evoluzione interpretativa, al limite il ricorso al potere di revisione, ma sull’equilibrio che deve caratterizzare il rapporto stesso. L’uso della legislazione o dello stesso potere di revisione, in altri termini, non dovrebbe mai rispondere all’intento o rivestire la portata di un indebolimento delle garanzie e dei relativi poteri, o di interventi sulla struttura e sullo status dei medesimi poteri, diretti a piegarne o a condizionarne gli orientamenti. Si rischierebbe, altrimenti, non già di coltivare una normale dialettica istituzionale, ma di intaccare gli equilibri essenziali del sistema, e di abbandonare la strada maestra della divisione dei poteri, a vantaggio di forme di accentuata concentrazione di essi, pericolose per la vita democratica del paese.

 

 

Roma, 19 gennaio 2005