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N. 1622/07 RG Trib.

TRIBUNALE Di MILANO

SEZIONE X PENALE

Il Tribunale, in persona dei magistrati:

- Dott. Nicoletta Gandus        Presidente

- Dott. Pietro Caccialanza      Giudice

- Dott. Loretta Dorigo               Giudice

nel procedimento penale a carico di:

1) MILLS MACKENZIE Donald David n. a  Oxted (GB) il 31.5. 1944

2} BERLUSCONI Silvio n. a  Milano (I) il 29.9.1936

imputati del reato di cui agli artt.110, 319, 319 ter e 321 c.p., contestato come commesso in Milano, Londra, Ginevra, Gibilterra e altrove fino al 29 febbraio 2000;

sull’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. l della legge 23 luglio 2008, n. 124, intitolata

Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato”, sollevata dal P.M. all’udienza del 27 settembre 2008 per contrasto con gli artt. 3, 112, 136 e 138 della Costituzione;

sentite la parte civile Presidenza del Consiglio dei Ministri (che si è rimessa alle valutazioni del Tribunale) e le difese degli imputati (che si sono opposte);

pronuncia la seguente

ORDINANZA

La rilevanza della questione posta è di assoluta evidenza.

Infatti nel presente procedimento Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, è imputato, come già riportato in premessa, del reato di cui agli artt. 110, 319, 319 ter e 321 c.p. in concorso con Donald David Mills Mackenzie per fatti commessi, secondo l’ipotesi accusatoria, in Milano, Londra, Ginevra, Gibilterra e altrove fino al 29 febbraio 2000.

La legge 23 luglio 2008 n. 124, che prevede la sospensione dei processi penali, anche per fatti antecedenti l’assunzione della carica, nei confronti, fra gli altri, del Presidente del Consiglio dei Ministri, comporterebbe dunque una declaratoria di sospensione.

Non può pertanto che esser riconosciuta la rilevanza della questione posta.

Nel caso concreto tale rilevanza assume particolari connotati in relazione al complesso andamento ed allo stato cui è giunto il processo, che pertanto va qui sommariamente descritto, per le necessarie valutazioni in tema di non manifesta infondatezza della questione, come meglio si vedrà nel prosieguo.

L’istruttoria dibattimentale (scandita dalla effettuazione di numerose rogatorie e dalla risoluzione di molteplici questioni ed eccezioni sollevate dalle parti) è iniziata il 18 maggio 2007, dopo sei lunghe udienze dedicate alla trattazione e decisione delle questioni preliminari, alle richieste di prova ed alle conseguenti determinazioni.

In Italia si sono potuti esaminare soltanto i testi Paolo Marcucci, Marina Mahler, Flavio Briatore (dopo plurimi tentativi), Diego Attanasio (appositamente qui giunto, due volte, dall’estero) e Livio Gironi (imputato di reato connesso, che si è avvalso della facoltà di non rispondere), oltre naturalmente ai consulenti delle parti.

Sono stati sentiti da questo collegio in videoconferenza dalla Confederazione Elvetica i testimoni Pierre Amman e Antonio Mattiello; in videoconferenza da Londra il testimone Benjamin Marrache, la cui citazione era stata inutilmente tentata per lunghi mesi anche per via rogatoriale nel Regno Unito (ove il teste non si era in precedenza recato), a Gibilterra (ove il teste risiede ed ove non è stata accolta la richiesta di rogatoria) ed in Spagna (ove l'Autorità Giudiziaria non ha potuto notificare la citazione).

Per esaminare i testimoni Heimo Quaderer, Maria De Fusco e l'imputato di reato connesso Paolo Del Bue il Tribunale si è dovuto recare rispettivamente a Vaduz, Berna e Lugano; per esaminare i testimoni Robert Drennan, David Barker, Andrew Costard, Jeremy Scott, Virginia Rylatt, Sue Mullins, Nadia Ignatius e Tanya Maynard Ghazvini il Tribunale si è dovuto recare a Londra.

Le deposizioni di Marrache, Amman, Mattiello e De Fusco sono state prontamente trasmesse a questa autorità giudiziaria, non essendovi stata alcuna opposizione.

La difesa Berlusconi si è invece opposta alla trasmissione della deposizione del teste Quaderer, avvenuta il 9 luglio 2007: i relativi atti sono qui pervenuti solo il 15 luglio 2008, a seguito del rigetto, in prima e seconda istanza, di tale opposizione.

Le difese si sono inoltre opposte alla presenza in aula del collegio durante l’esame dei testi (sia del P.M. che propri) sentiti a Londra nei giorni dal 24 al 28 settembre 2007, in relazione alla maggior parte delle domande che venivano agli stessi poste. La questione, a seguito dell’accoglimento della richiesta da parte del giudice inglese, ha determinato una complessa vicenda, che qui non è necessario ripercorrere, sfociata nell’acquisizione del materiale istruttorio, trasmesso su supporto informatico da parte dell'Autorità britannica il 9 novembre 2007 e successivamente trascritto.

Paolo Del Bue - pur essendosi solo parzialmente avvalso della facoltà di non rispondere - non ha acconsentito alla trasmissione del verbale del proprio interrogatorio, ad oggi non pervenuto a questo Tribunale.

All’ultima udienza del 19 luglio 2008 antecedente l’approvazione della legge n. 124/2008, è stata in parte esaminata la consulente Claudia Tavernari, indicata dalla difesa Berlusconi.

Con i limiti qui indicati sono pertanto state acquisite tutte le prove documentali ed orali ammesse sulla base delle richieste iniziali delle parti e di quelle suppletive avanzate a seguito della modificazione dell'imputazione operata dal P.M. il 14 dicembre 2007.

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Ciò detto, la trattazione della questione di costituzionalità posta esige, preventivamente, un breve excursus storico.

Come è noto, la legge 23 luglio 2008, n. 124, è stata adottata dopo che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 24 del 13-20 gennaio 2004, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140, intitolata “Disposizioni per l'attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello

Stato.

La norma abrogata dalla Corte costituzionale, nell’individuare al primo comma le alte cariche dello Stato nelle figure del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato della Repubblica, del Presidente della Camera dei deputati, del Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Corte costituzionale, stabiliva: “Dalla data di entrata in vigore della presente legge” - e cioè dal 22 giugno 2003 – “sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime”.   

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 24 del 2004, aveva osservato:

► che la natura e la funzione della norma consistevano, come ogni altra ipotesi di sospensione “nel temporaneo arresto del normale svolgimento” del processo penale e miravano “alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali… eterogenee rispetto a quelle proprie del processo”;

►che il presupposto della sospensione era dato dalla “coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato”;

► che il bene che la misura intendeva tutelare andava ravvisato “nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche”. Nel testo della sentenza, tale bene veniva definito dapprima come “interesse apprezzabile, che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale”, e poi come espressione dei fondamentali valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente l’esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione”;

 ►che proprio “considerando che l’interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire”, il legislatore aveva voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento”.

La Corte aveva ravvisato profili di incostituzionalità della norma nel fatto che la sospensione in esame, che per sé “crea un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, in

particolare di quella penale”, fosse generale, automatica e di durata non determinata”.  

Generale, in quanto la sospensione concerneva “i processi per imputazioni relative a tutti gli  ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica”.

Automatica, in quanto la sospensione veniva disposta “in tutti i casi in cui la suindicata coincidenza  di imputato e titolare di un’alta carica “si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione ed in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti”.

Di durata non determinata, in quanto la sospensione, “predisposta com’è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e quindi legata alla carica rivestita dall’ imputato”, subiva nella sua durata “gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati”. 

In particolare, la Corte considerava che la norma per un verso violava il diritto di difesa previsto dall'art. 24 della Costituzione, in quanto all’imputato “è posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.)”.

Per altro verso la norma violava gli articoli 111 e 112 della Costituzione: “All’effettività dell’esercizio della giurisdizione”, scriveva la Corte, non sono indifferenti i tempi del processo. Ancor prima che fosse espressamente sancito in Costituzione il principio della sua ragionevole durata (art. 111, secondo comma), questa Corte aveva ritenuto che una stasi del processo per un tempo indefinito e indeterminabile vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sentenza n. 354 del 1996) e che la possibilità di reiterate sospensioni ledesse il bene costituzionale dell'efficienza del processo (sentenza n. 353 del 1996)”.

Per altro verso, ancora, la Corte affermava la violazione dell’art. 3 della Costituzione, rilevando che la norma da un lato accomunava in un’unica disciplina “cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni” e dall’altro distingueva, “per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti”. Né tralasciava la Corte 1ulteriore contrasto tra la norma e l’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che aveva esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell’immunità accordata nel secondo comma dell’art. 68 della Costituzione ai membri delle due Camere.

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La norma che ora si sottopone al vaglio del giudice delle leggi dispone al primo comma che “salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione”; al secondo comma si stabilisce che “l’imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla sospensione”.

Restano inalterate la previsione della sospensione dei corso della prescrizione del reato, ex art. 159 c.p., e la disposizione concernente l’applicabilità della norma anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, come già stabilito dalla legge abrogata.

Viene invece sancito:

►che “la sospensione opera per l’intera durata della carica o della funzione e non è reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della legislatura, né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle funzioni”;

►che, ove ne ricorrano i presupposti non è impedita l'assunzione di prove non rinviabili ai sensi degli artt. 392 e 467 c.p.p.;

►che la parte civile può trasferire l’azione in sede civile, ed in questo caso il termine per comparire è dimezzato e la causa ha carattere prioritario.

Ritiene il collegio che la nuova normativa non corrisponda ai parametri indicati dalla Corte nella

sentenza n. 24/2004 e che non siano pertanto infondate le questioni di costituzionalità prospettate.

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Va in primo luogo sollevata la questione in relazione all’art. 138 della Costituzione.

La norma in esame dispone l’automatica sospensione dei processi, qualunque sia il titolo ed il tempo del reato commesso, in favore del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Presidenti della Camera e del Senato, per tutta la durata del mandato conferito.

La normativa sullo status dei titolari delle più alte istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente costituzionale, e la ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o differiscono nel tempo la loro responsabilità si pongono quali eccezioni rispetto al principio generale dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge previsto dall'articolo 3 della Costituzione, principio fondante di uno Stato di diritto (questione che si affronterà più specificamente nel prosieguo).

Dalla dizione letterale della norma in esame emerge che la stessa conferisce una garanzia aggiuntiva alle più alte cariche dello Stato; si tratta quindi di valutare se il privilegio accordato in deroga alla generale disciplina in vigore per tutti i cittadini sia da assimilare alle specifiche ed eccezionali garanzie previste nella Carta costituzionale ed in leggi costituzionali in favore degli organi primari a tutela e salvaguardia delle funzioni dai medesimi esercitate.

Espressione di tali garanzie sono le previsioni normative di cui agli articoli 68, 90, 96 della Costituzione, nonché 1’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1 e l’art. 5 della legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1, relative alle guarentigie proprie del Presidente e dei giudici della Corte Costituzionale.

L’art. 68 al primo comma stabilisce l’immunità dei membri del Parlamento per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Al secondo e al terzo comma prevede uno specifico filtro, costituito dalla necessaria autorizzazione della Camera di appartenenza, per la sottoposizione del parlamentare a perquisizioni personali e domiciliari, ad attività di intercettazione e a sequestro di corrispondenza, a misure restrittive della libertà personale. Nessuna autorizzazione è invece necessaria in caso di esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna o di arresto in flagranza per reato per il quale sia previsto l’arresto obbligatorio ex art. 380 c.p.p.

L’articolo 90 della Carta costituzionale stabilisce l’irresponsabilità del Capo dello Stato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni e prevede al secondo comma la messa in stato di accusa del medesimo da parte del Parlamento in seduta comune per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione.

L’articolo 96 della Costituzione prevede che il Presidente del Consiglio ed i ministri siano sottoposti per i reati c.d funzionali alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione di una delle Camere “secondo le norme stabilite con legge costituzionale”. Questo articolo, sostituito dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989 n. 1, prevede per tabulas la riserva di costituzionalità non solo quanto alle condizioni di procedibilità ma anche quanto ai modi dell’esercizio della giurisdizione nei confronti di tali cariche.

Assume primaria rilevanza il fatto che la deroga alla pari efficacia della legge penale prevista dalle norme elencate riguardi la disciplina procedimentale e sostanziale dei reati funzionali del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio e dei ministri, ed anche dei reati c.d extrafunzionali dei membri del Parlamento.

Ciò significa che il vigente sistema delle guarentigie è disciplinato esclusivamente da norme di rango costituzionale; esso naturalmente non costituisce un sistema chiuso, astrattamente non modificabile nel tempo; è tuttavia di immediata evidenza che ogni eventuale modifica può essere introdotta soltanto con norme di pari forza adottate secondo la procedura prevista dall’art. 138 della Costituzione.

Il principio è stato espressamente affermato dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 24 del 2004 nella parte in cui statuisce che “all’origine della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali”.  

La Corte evidenziava la necessità di un equo contemperamento dei contrapposti interessi dell’uguaglianza della giurisdizione e del sereno svolgimento delle altissime funzioni istituzionali, da intendersi quale regolare svolgimento delle predette funzioni, come espressamente scritto nella sentenza, che individua il citato bene nell' interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche”. Non risulta infatti in alcun modo previsto dal dettato costituzionale un interesse primario identificabile nella serenità psicologica della persona fisica che assume la carica; il bene tutelabile non può quindi che essere espressione della pubblica funzione esercitata.

Deve pertanto affermarsi che le guarentigie concesse a chi riveste cariche istituzionali risultano funzionali alla protezione delle funzioni apicali esercitate; ognuna di esse costituisce un munus publicum, del tutto svincolato dalla persona fisica, come tale esclusivamente inerente alla funzione esercitata. Per tale motivo appare irragionevole la possibilità di rinuncia, oltretutto non irretrattabile, come meglio si vedrà nel prosieguo, esaminando i profili di incostituzionalità in relazione all’art. 3 della Costituzione.

Tanto premesso, va sottolineato che ogni intervento legislativo che modifichi e ridefinisca le funzioni pubbliche e le speciali garanzie delle maggiori cariche istituzionali interferisce con l'architettura ad oggi delineata dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali successivamente emanate; esso deve garantire il necessario rispetto dei principi fondamentali delineati dalla Carta costituzionale, e in primo luogo quello, irrinunciabile, dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; comporta il necessario bilanciamento dei molteplici interessi tutelati e il rispetto dei rapporti di equilibrio tra i poteri dello Stato (fra essi l'esercizio dell'attività giurisdizionale e l'esercizio delle funzioni legislative ed esecutive apicali).

Osservano le difese che la natura temporanea della sospensione prevista dalla legge in esame ne fa un mero istituto processuale, che non incide né sul promovimento dell’azione penale né sull’esercizio della giurisdizione. Come già osservato dal Tribunale di Milano (sezione I penale, ordinanza 26 settembre 2008), però, “la categoria giuridica prescelta per il raggiungimento dello scopo perseguito è assolutamente irrilevante ai fini che qui interessano”, non potendosi comunque sottrarre al bilanciamento di valori fondamentali, proprio del legislatore costituzionale. Tale considerazione è tanto più pregnante ove si consideri che la sospensione opera per tutti i reati comuni commessi prima dell’assunzione della carica e durante il suo esercizio e che la sua durata

potrebbe in ipotesi, come previsto dal comma 5 dell’articolo unico della legge, protrarsi per un tempo così lungo da vanificare nella sostanza il concetto stesso di “temporaneità”. 

In altri termini, l’effetto giuridico della norma è quello di introdurre un’esenzione dalla giurisdizione prolungata nel tempo, di fatto della stessa natura delle immunità previste dalle norme costituzionali.

I principi enunciati appartengono alla storia della Carta costituzionale, come si legge nei lavori dell’Assemblea costituente.

Affermava la difesa che anche l’art. 32 bis della legge n. 195 del 1958, aggiunto dall’art. 5 L. 3 gennaio 1981 n. 1, concernente la non punibilità dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni era stato adottato con legge ordinaria. Osserva il Tribunale che, a voler tutto concedere, la pretesa illegittimità costituzionale di una diversa disposizione non potrebbe comunque costituire una sorta di sanatoria dei profili di illegittimità costituzionale qui evidenziati.

È stato altresì affermato dalle difese che sono in vigore immunità frutto di previsioni normative attuate con leggi diverse da quelle costituzionali, citando ad esempio quelle previste in favore degli appartenenti ai Corpi diplomatici dei paesi esteri. Sul punto va affermata l'inconferenza del richiamo operato, in ragione del rilievo costituzionale attribuito dall’art. 10 della Costituzione alle norme del diritto internazionale, anche consuetudinarie, generalmente riconosciute: la compressione del principio di uguaglianza e del diritto alla tutela giurisdizionale trova dunque fondamento nella natura primaria della norma di adattamento ai Trattati internazionali cui aderisce l’Italia. 

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La questione va poi esaminata in relazione agli artt. 3, 68, 96, 111 e 112 della Costituzione

Anche per la presente legge vale quanto già la Corte considerava nella sentenza n. 24/2004 a proposito della legge n. 140/2003: cioè che il contenuto di tutte le disposizioni in argomento incide su un valore centrale per il nostro ordinamento democratico, quale è l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti all’esercizio della giurisdizione penale; esercizio che, per l’appunto, già la citata sentenza n. 353 del 1996 collegava strettamente al “bene costituzionale dell’efficienza del processo, qual è enucleabile dai principi costituzionali che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale”; esercizio che, altresì, deve rispondere al “canone fondamentale della razionalità delle norme processuali”.

Non v’è dubbio che la sospensione prevista sia dalla precedente che dalla attuale legge viene a incidere sul principio dell'uguaglianza dei cittadini davanti alla giurisdizione penale. Non solo: mentre prevede un meccanismo sospensivo del procedimento penale riguardante i reati extrafunzionali ascritti alle alte cariche, la legge (ordinaria) lascia salvi i precetti (costituzionali) degli articoli 90 e 96, così fin dall'inizio affermando, espressamente, di voler incidere, con uno strumento diverso, sugli stessi presupposti di cui trattano le fonti massime dell’ordinamento, per le stesse finalità, e con la sola differenza che si tratta di reati extrafunzionali e non di reati “commessi nell’esercizio delle funzioni”.

Ma la disuguaglianza che così si crea è evidente: dato atto che il bene giuridico considerato dalla legge ordinaria, e cioè il regolare svolgimento delle funzioni apicali dello Stato, è lo stesso che la Costituzione tutela per il Presidente della Repubblica con l’art. 90, per il Presidente del Consiglio e per i ministri con l’art. 96, entrambi fatti salvi nell’incipit della legge 124 del 2008, si osserva: 

►che 1’art.68 della Costituzione non è menzionato - diversamente dalla espressa previsione contenuta nel titolo della legge n.140/2003 - fra le norme costituzionali fatte salve. Poiché nessuna norma ordinaria può ovviamente prevalere su una norma di rango costituzionale, ne discende, in astratto, nel caso in cui il soggetto che riveste la “alta carica” sia membro del Parlamento, l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza nelle ipotesi di cui all'art. 380 c.p.p., e 1’immediata successiva sospensione del procedimento; 

► che il medesimo bene giuridico viene tutelato con due tipologie normative di grado diverso:

circostanza, questa, che come si è detto mina di per sé la scala gerarchica delle fonti del diritto e quel primato della Costituzione che costituisce il nucleo fondamentale dello Stato democratico;

► che la diversità dello strumento adottato – l’autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, “secondo le norme stabilite con legge costituzionale”, per i reati funzionali dei Presidente del Consiglio e dei ministri; la generale ed automatica sospensione del procedimento penale per i reati extrafunzionali ascritti al solo Presidente del Consiglio - comporta uno stridente ed ineliminabile contrasto tra la norma in esame e l’art. 96 della Costituzione. Ne deriva l'assoluta irragionevolezza di una norma ordinaria che, a parità di bene tutelato, formula per i reati extrafunzionali una disciplina ordinaria diversa da quella voluta dalla Costituzione per i reati funzionali. Ma se l’antico brocardo, fondamento del principio di uguaglianza, esige che “ubi eadem” sia la “ratio”, “ibi eadem” sia la “dispositio”, davvero non si vede come una disposizione ordinaria diversa da quella costituzionale possa essere introdotta quando la Carta costituzionale stabilisce il diverso strumento dell’autorizzazione in presenza di identici presupposti soggettivi e di presupposti oggettivi analoghi, perché consistenti in ogni caso nella ipotizzata violazione della norma penale. Si deve considerare, in altri termini, che per il Presidente del Consiglio dei ministri, accomunato ai ministri dalla Costituzione per i reati funzionali, viene previsto uno strumento diverso, introdotto con legge ordinaria, per i reati extrafunzionali, così stabilendo uno jus singulare francamente irragionevole. E ciò tanto più ove si ponga mente al fatto che nel nostro ordinamento la figura del Presidente del Consiglio è posta sullo stesso piano di quelle dei ministri: il primo, vertice dell’organo collegiale per eccellenza politico, è un “primus inter pares” rispetto ai titolari dei diversi dicasteri, come chiaramente sancito dall’art. 95 della Costituzione nella formulazione del principio di collegialità della responsabilità ministeriale.

Se così è, non si può fare a meno di osservare che la nuova norma non sana quei connotati di generalità ed automatismo che, nella precedente sentenza, il giudice delle leggi riteneva tali da violare la Costituzione.

Ed infatti, la novella introduce bensì la facoltà di rinunciare alla sospensione da parte dell’alta carica cui questa è riservata, ma nulla dice rispetto a quella necessità di filtri e di valutazione della peculiarità dei casi concreti che la stessa Corte reputava essenziali per il meccanismo introdotto. Ancora una volta, non si può fare a meno di considerare che mentre per i reati funzionali è previsto il filtro dell’autorizzazione di una delle Camere, nel rispetto di quell’equilibrio dei poteri che sta alla base di una Repubblica parlamentare quale la nostra, per i reati non funzionali del solo Presidente del Consiglio si prevede una generale sospensione, temperata da una facoltà di rinuncia - non necessariamente motivata - che non lascia alcuno spazio a valutazioni degli altri organi statali. Quella discrezionalità motivata, che viene giustamente richiesta a chiunque eserciti un munus publicum, nel caso di specie viene dunque meno, fino a divenire meramente potestativa; una scelta così sconfinata risulta contraria al principio di ragionevolezza, avuta riguarda all’universalità dei reati per i quali la sospensione è prevista, senza alcun filtro. La previsione di demandare allo stesso soggetto che beneficia della sospensione ogni potestà relativa al prosieguo o meno del processo non rimedia al generalizzato automatismo stigmatizzato dalla Corte, né al vulnus al diritto di azione che la Corte ha già più volte evidenziato, potendo il rimedio consistere solo in un filtro avente carattere di terzietà.

Non è condivisibile l’obiezione secondo cui i reati funzionali provocherebbero maggiore allarme rispetto a quelli extrafunzionali, in quanto commessi dal titolare della carica o della funzione nel distorto uso del proprio potere: oltre al fatto che possono essere portati innumerevoli esempi di delitti extrafunzionali per i quali è prevista una pena edittale più grave di quella stabilita per reati funzionali, non si vede perché, ove il reato extrafunzionale fosse più lieve, dovrebbero ad esso venire connesse guarentigie e garanzie maggiori.

Ed ancora: non meno rilevante è la fondatezza della questione posta in riferimento al principio della

ragionevole durata del processo. Se è vero che l'art. 111 della Costituzione mira per prima cosa alla tutela del diritto di difesa dell’imputato ed al rispetto del diritto di ogni persona “che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole” (così l'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo), non è men vero che la Corte costituzionale, come ricordato in premessa, già in precedenti sentenze ha sottolineato che i tempi del processo non sono affatto indifferenti all'effettività dell'esercizio della giurisdizione.

Per di più, una sospensione così formulata, bloccando il processo in ogni stato e grado per un periodo potenzialmente molto lungo, provoca un evidente spreco di attività processuale.

Basti pensare che mentre la norma, riferendosi agli articoli 392 e 467 c.p.p., consente al giudice di provvedere all’assunzione delle prove non rinviabili, ove ne ricorrano i presupposti (con un richiamo di difficile applicazione in concreto), nulla dice sull’utilizzabilità delle prove già assunte, che potrebbero venire del tutto disperse qualora, al termine dell’eventualmente lungo periodo di operatività della sospensione (di per sé inevitabile causa dell’affievolirsi se non addirittura del venir meno delle fonti di prova), divenisse impossibile la ricostituzione del medesimo collegio.

Ciò assume speciale rilievo ove si tratti, come nel presente procedimento, di dibattimenti particolarmente complessi, caratterizzati anche dall’effettuazione di plurime rogatorie, sui cui tempi di effettuazione e sui cui sviluppi e condizioni di utilizzabilità l’Autorità rogante non ha alcun potere di interloquire.

L’utilizzabilità delle prove già assunte, infine, non è prevista neppure in relazione alla facoltà della parte civile di trasferire l’azione in diversa sede con tempi accelerati, dal che consegue per la stessa parte la necessità di sostenere ex novo l’onere probatorio in tutta la sua ampiezza.

P. Q M.

visti gli artt. 23 e seguenti legge 11 marzo 1953, n. 87,

dichiara

rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 68, 96, 111 e 112 e 138 della Costituzione, la questione di costituzionalità dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124;

dispone

con diversa ordinanza la separazione degli atti a carico di Mills Mackenzie Donald David;

dispone

l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale;

sospende

ai sensi dell’art.159 c.p. il procedimento in corso a carico di Berlusconi Silvio e per l’effetto dichiara sospeso il corso della prescrizione;

ordina

che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Milano, 4 ottobre 2008

Nicoletta Gandus - Presidente

Pietro Caccialanza –Giudice

Loretta Dorigo – Giudice.