CONSIGLIO DI STATO
(SEZ. VI)
ORDINANZA 5 marzo 2012, n. 1244
(Pres. Volpe - est. De Nictolis)
ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
1) sul ricorso numero di registro generale 4584 del 2011, proposto dal
Consiglio Nazionale dei Geologi, rappresentato e difeso dall'avv. Anna
Lagonegro, con domicilio eletto presso la medesima, in Roma, via Boezio, n. 92;
contro
Autorità garante della concorrenza e del mercato, rappresentata e difesa
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei
Portoghesi, n. 12;
2) sul ricorso numero di registro generale 4710 del 2011, proposto
dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, rappresentata e difesa
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei
Portoghesi, n. 12;
contro
Consiglio Nazionale dei Geologi, rappresentato e difeso dall'avv. Anna
Lagonegro, con domicilio eletto presso la medesima, in Roma, via Boezio, n. 92;
per la riforma
quanto ad entrambi i ricorsi, della sentenza del T.a.r.
Lazio – Roma, sezione I, n. 1757/2011, resa tra le parti, concernente RIGETTO
IMPEGNI PRESENTATI DAL CONSIGLIO NAZIONALE GEOLOGI - INTESA RESTRITTIVA DELLA
CONCORRENZA.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della
concorrenza e del mercato e l’atto di costituzione in giudizio del Consiglio
Nazionale dei Geologi;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 febbraio 2012 il Cons. Rosanna De Nictolis e uditi
per le parti l’avvocato Lagonegro e l’avvocato dello Stato Bacosi.
La vicenda processuale
1. Il Consiglio Nazionale dei Geologi (GNG) con due separati ricorsi
davanti al Tribunale amministrativo regionale (Tar) Lazio – Roma ha impugnato:
- la delibera dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora
innanzi AGCM o Autorità) adottata nell’adunanza del 22 dicembre 2009, con la
quale sono stati rigettati gli impegni presentati dal Consiglio Nazionale dei
Geologi nell’ambito del procedimento, avviato in data 14 maggio 2009, volto
all’accertamento di eventuali violazioni dell’art. 101 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea per effetto delle norme contenute nel codice
deontologico dei geologi;
- la delibera dell’AGCM adottata nell’adunanza del 23 giugno 2010, con la
quale è stato ritenuto che l’Ordine Nazionale dei Geologi ha posto in essere
un’intesa restrittiva della concorrenza ai sensi dell’articolo 101 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione Europea (già art. 81 del Trattato CEE), ordinando
di assumere misure atte a porre termine all’illecito riscontrato ed irrogando
la sanzione amministrativa pecuniaria nella misura di euro 14.254.
2. Il Tar adito, riuniti i due ricorsi, li ha respinti con la sentenza in
epigrafe (Tar Lazio – Roma, sez. I, 25 febbraio 2011 n. 1757), nella quale,
peraltro, ritiene viziato il provvedimento dell’Autorità nella parte in cui
ritiene che il riferimento, nel codice deontologico, al “decoro professionale”
quale criterio di commisurazione del compenso del professionista, costituisca
restrizione della concorrenza.
3. La sentenza è stata appellata dal Consiglio Nazionale dei Geologi, con
appello che ripropone espressamente tutti i motivi del ricorso di primo grado e
muove motivate critiche alla sentenza.
4. La sentenza è stata appellata anche dall’AGCM, con riferimento al capo
di sentenza che ha ritenuto in parte erronea la motivazione del provvedimento
dell’Autorità, laddove dispone che il Consiglio dell’Ordine debba eliminare dal
codice deontologico il parametro del decoro professionale quale criterio di
determinazione del compenso del professionista.
Riunione degli appelli
5. Va anzitutto disposta la riunione dei due appelli perché proposti
contro la medesima sentenza.
I fatti di causa
6. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha ravvisato una
intesa restrittiva della concorrenza posta in essere mediante la disciplina
deontologica adottata dal Consiglio Nazionale dei Geologi, applicabile agli
appartenenti al relativo Ordine, relativa alla determinazione del compenso dei
geologi, come dettata dagli artt. 17, 18 e 19 del Codice Deontologico nella
versione risultante nel testo emendato, da ultimo, in data 26 marzo 2010,
mediante modifiche apportate al fine di adeguare le relative disposizioni
all’art. 2 d.l. n. 223/2006, che ha abrogato
l’obbligatorietà delle tariffe minime e fisse.
In particolare, l’Autorità ha ritenuto che le norme del Codice
Deontologico relative alla determinazione del compenso per i geologi induca gli
stessi a non assumere condotte autonome nell’individuazione dei prezzi delle
proprie prestazioni professionali, spingendoli ad uniformare i propri
comportamenti economici mediante l’applicazione della tariffa professionale,
così determinando una restrizione della concorrenza in violazione dell’art. 101
del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea.
In dettaglio, ai sensi dell’art. 17 del codice deontologico, intitolato ai
parametri tariffari, “Nella determinazione dei compensi professionali il
geologo deve attenersi a quanto stabilito dal d.l. n.
223/2006; al principio di adeguatezza di cui all’art. 2233 comma 2 codice civile
e, comunque, al complesso delle vigenti disposizioni di legge regolanti la
materia. La tariffa professionale approvata con d.m.
18 novembre 1971 e la tariffa in materia di lavori pubblici approvata con d.m. 4 aprile 2001 per la parte applicabile ai geologi,
costituiscono legittimo ed oggettivo elemento di riferimento
tecnico-professionale nella considerazione, determinazione e definizione dei
compensi tra le parti”.
In relazione a tale disposizione, l’Autorità ne ha ritenuto la capacità di
orientare il comportamento economico dei geologi, ai quali viene richiesto di
fissare il proprio compenso in conformità a quanto indicato nella tariffa
professionale, nonostante che i vincoli normativi all’inderogabilità della
tariffa professionale siano stati eliminati dall’art. 2, comma 1, lettera a), d.l. n. 223/2006, ritenendo altresì inidoneo, alla luce del
complesso della auto-regolamentazione in cui è inserito, il richiamo formale a
tale decreto ed alla relativa legge di conversione ad indicare ai professionisti
la possibilità di individuare il compenso professionale sulla base del libero
accordo tra le parti.
L’Autorità ha, altresì, ritenuto censurabile la qualificazione della
tariffa professionale come legittimo elemento di riferimento nelle
determinazione dei compensi, in quanto ritenuta idonea ad indurre i geologi a
dover determinare il proprio compenso in conformità alla tariffa professionale.
La ritenuta introduzione dell’obbligatorietà delle tariffe fisse è stata
dall’Autorità ancorata anche al rinvio formale, contenuto nella descritta norma
deontologica, all’art. 2233 codice civile, il quale prevede, in materia di
professioni intellettuali, che la misura del compenso deve essere adeguata
anche al decoro della professione.
Analogo rilievo viene formulato con riferimento al richiamo al decoro
contenuto nell’art. 18 codice deontologico, intitolato alla commisurazione
della parcella, il quale stabilisce che “Nell’ambito della normativa vigente, a
garanzia della qualità delle prestazioni, il geologo che esercita attività
professionale nelle varie forme (…) deve sempre commisurare la propria parcella
all’importanza e difficoltà dell’incarico, al decoro professionale, alle
conoscenze tecniche e all’impegno richiesti.
L’Ordine, tenuto conto dei principi di concorrenzialità professionale,
vigila sull’osservanza”.
Il medesimo richiamo al decoro è contenuto anche nell’art. 19, dedicato
all’evidenza pubblica, il quale prevede che “Per le procedure ad evidenza
pubblica, ove la pubblica amministrazione legittimamente non utilizzi quale
parametro compensativo la tariffa professionale, il geologo dovrà comunque
commisurare la propria offerta all’importanza e difficoltà dell’incarico, al
decoro professionale, alle conoscenze tecniche ed all’impegno richiesti”.
I motivi dei ricorsi di primo grado
7. I ricorsi di primo grado contengono, complessivamente, ventisei diverse
censure. In ossequio alle istruzioni della C. giust.
CE i ricorsi saranno trasmessi alla Corte in allegato alla presente ordinanza e
potranno da essa essere consultati, se ritenuto necessario.
Di seguito si sintetizzano le sole censure pertinenti ai fini della
presente ordinanza di rinvio pregiudiziale:
1) (quarto motivo del primo ricorso e sesto motivo del secondo ricorso)
violazione dell’art. 1 e dell’art. 2, commi 1 e 2, l. n. 287/1990 e dell’art.
17 l. n. 616/1966: la legge - che fa riferimento alle intese poste in essere da
imprese – sarebbe inapplicabile al CNG, stante la differenza tra impresa
commerciale e lavoro autonomo e tra Consigli ed Ordini Professionali ed
associazioni di imprese.
Inoltre, laddove l’art. 17 del nuovo Codice Deontologico richiama il D.M.
del 18 novembre 1971, farebbe riferimento al legittimo procedimento di
formazione della tariffa professionale, come previsto da una specifica e vigente
norma, ovvero dall’art. 17 l. n. 616/1966, che prevede che la tariffa
professionale è stabilita con decreto del Ministro della giustizia di concerto
con il Ministro dello sviluppo economico su proposta del Consiglio Nazionale
dei Geologi.
Non potrebbe, quindi, ricondursi la procedura di determinazione della
tariffa ad una fattispecie di accordo o pratica concordata sottoposta a
sanzione.
2) (quinto motivo del primo ricorso e settimo motivo del secondo ricorso)
Violazione dell’art. 3 d.lgs. n. 30/2006. Il perseguimento delle finalità della
concorrenza dovrebbe avvenire, con riferimento alle professioni intellettuali,
con l’osservanza della relativa disciplina, la quale fa espresso riferimento ai
principi di dignità e decoro della professione, che quindi non potrebbero
essere espunti dalla deontologia professionale, di per sé non orientata a
realizzare effetti distorsivi della concorrenza.
3) (sesto motivo del primo ricorso e ottavo motivo del secondo ricorso)
Violazione dell’art. 9 l. n. 112/1993 e dell’art. 5 l. n. 339/1990. Tra le
attribuzioni normativamente assegnate al Consiglio Nazionale dei Geologi non
figura lo svolgimento di attività economico-commerciale tesa al conseguimento
di profitto, con conseguente preclusione alla induzione a comportamenti
predeterminati anticoncorrenziali o al controllo orizzontale dei prezzi.
L’Autorità non avrebbe rispettato le funzioni ed i poteri del Consiglio,
né avrebbe tenuto in debito conto il suo carattere istituzionale di ente
pubblico non economico, che, come tale, non svolge attività tipiche delle
associazioni di imprese, ma solo quelle regolanti le proprie funzioni e compiti
istituzionali.
4) (settimo motivo del primo ricorso e nono motivo del secondo ricorso)
Violazione dell’art. 2 d.l. n. 223/2006. L’Autorità
avrebbe illegittimamente equiparato attività professionale ed attività
commerciale di impresa, in violazione del d.l. n.
223/2006 che distingue le attività libero professionali e intellettuali
dall’attività di impresa.
5) (decimo motivo del primo ricorso e dodicesimo motivo del secondo
ricorso) Violazione dell’art. 2233 codice civile e dell’art. 2 d.l. n. 223/2006.
Sulla base dell’art. 2233 codice civile il compenso per la prestazione
professionale dovrebbe essere commisurato sulla base della tariffa, stabilita
secondo il principio di adeguatezza all’importanza dell’opera ed al decoro
professionale, senza che il riferimento al decoro – previsto per legge - possa
essere inteso come obbligatorietà della tariffa minima, come erroneamente ritenuto
dall’Autorità.
6) (quattordicesimo motivo del primo ricorso e tredicesimo motivo del
secondo ricorso) Violazione della normativa europea e, in particolare, del
regolamento CEE 2137/85, della direttiva 2005/36/CE, della direttiva
2006/123/CE e della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea.
Sulla base del quadro normativo europeo sarebbero salvaguardate le
disposizioni di legge esistenti nei vari Stati in materia di professioni
intellettuali e di organismi rappresentativi legittimati alla definizione dei
principi deontologici ed alla vigilanza sulla loro osservanza.
L’Autorità avrebbe, quindi, violato la normativa comunitaria e si
porrebbe, altresì, in contrasto con le pronunce della Corte di giustizia
favorevoli alla inderogabilità dei minimi tariffari, costituente legittima
modulazione della tariffa professionale laddove vi sia comunque la presenza
dell’intervento dello Stato che non rinuncia ad esercitare poteri di controllo
e decisione sulla tariffa.
7) (quinto motivo del secondo ricorso) Equiparazione tra attività di
impresa commerciale ed attività professionale. Plurime violazioni di legge.
Eccesso di potere per intrinseca illogicità ordinamentale.
Contesta parte ricorrente l’equiparazione, effettuata dall’Autorità, tra
l’impresa commerciale ed il lavoro autonomo intellettuale e professionale e la
conseguente assimilazione del Consiglio Nazionale ad una associazione di
imprese.
Potendo, pertanto, un’intesa restrittiva della concorrenza intercorrere
solo tra imprese, la stessa non sarebbe ipotizzabile nei confronti del
Consiglio Nazionale dei Geologi, stante il mancato svolgimento da parte di
questi di attività economico-commerciale volta esclusivamente al profitto ed
alla dinamica del mercato e stante la mancanza di un’organizzazione in forma di
impresa con annesso fatturato, estranea alla natura giuridica degli ordini
Professionali.
8) (ventiquattresimo motivo del secondo ricorso) Violazione della
normativa comunitaria. Art. 23 Regolamento CE 17/2003. Eccesso di potere per
errata e deviata interpretazione della normativa.
Manca, secondo parte ricorrente, lo svolgimento di attività intenzionale o
negligente tesa alla ripartizione o al dominio del mercato, né il Consiglio
potrebbe essere considerato un’associazione di imprese, svolgendo esso funzioni
istituzionali, essendo illegittimo il riferimento ai relativi dati di bilancio,
costituito dai contributi versati per legge, ai fini della determinazione della
sanzione.
La motivazione della sentenza del Tar Lazio - Roma
8. In ossequio alle istruzioni della C. giust.
CE la sentenza di primo grado sarà trasmessa alla Corte in allegato alla
presente ordinanza e potrà da essa essere consultata, se ritenuto necessario.
Di seguito si sintetizzano i soli capi della sentenza di primo grado
pertinenti ai fini della presente ordinanza di rinvio pregiudiziale:
- la disciplina delle professioni intellettuali non prevale su quella
antitrust, che anzi trova “applicazione trasversale a tutti i settori di
relativa rilevanza”;
- il d.l. n. 223/2006 indirizza le professioni
verso una liberalizzazione ispirata al principio di concorrenza, rispetto al
quale le precedenti normative mantengono vigore solo nei limiti di
compatibilità, sulla base degli ordinari criteri ermeneutici delineati in
materia di successione delle leggi nel tempo;
- la disciplina antitrust si applica anche agli esercenti le professioni
liberali intellettuali, soggetti ai principi di concorrenza;
- sia a livello comunitario che nazionale si è assistito ad una
progressiva liberalizzazione delle professioni, a tutela della concorrenza,
come si evince anche dalla Comunicazione della Commissione europea n. 2004/83
del 9 febbraio 2004, recante la «Relazione sulla concorrenza nei servizi
professionali»; cita, in particolare, il Tar la Comunicazione della Commissione
europea n. 2004/83 del 9 febbraio 2004, recante la «Relazione sulla concorrenza
nei servizi professionali>>, in cui si considerano come limitazioni della
concorrenza tra l’altro la fissazione di prezzi minimi per le prestazioni
professionali;
- è corretta la ricostruzione dell’Autorità laddove ritiene che anche gli
esercenti professioni intellettuali possono essere qualificati, ai fini del
diritto della concorrenza, come “impresa”, in quanto offrono sul mercato in
modo indipendente e stabile i propri servizi professionali, e che
conseguentemente gli Ordini professionali possano essere qualificati come
“associazioni di imprese”, e il codice deontologico come una “deliberazione di
un’associazione di imprese”, suscettibile di essere sindacata ai sensi del diritto
antitrust; non rileva che in base al codice civile vi sia una differenza tra
impresa ed esercente lavoro autonomo, perché prevale il diritto comunitario
antitrust e la nozione larga di impresa in esso accolta; la giurisprudenza
comunitaria ha già riconosciuto la natura di impresa anche a liberi
professionisti e la natura di associazione di imprese agli ordini professionali
(C. giust. CE 18 giugno 1998 C-35/96; 12 settembre
2000, CC- da 180/98 a 184/98; 19 febbraio 2002 C-35/99; 19 febbraio 2002 C-309/99;
5 dicembre 2006, CC-94/04 e 202/04; 23 aprile 1991 C-41/90; 10 gennaio 2006 n.
222);
- correttamente l’Autorità ha ritenuto che gli artt. 17, 18 e 19 del
codice deontologico inducono gli iscritti a ritenere l’obbligatorietà delle
tariffe professionali fissate nei decreti ministeriali espressamente richiamati
all’art. 17, qualificati come legittimo ed oggettivo elemento di riferimento
per la determinazione del compenso; inoltre il codice deontologico non contiene
una espressa indicazione della abolizione delle tariffe fisse e minime e della
libertà dei geologi di determinare il corrispettivo per le proprie prestazioni,
non potendo tale carenza trovare compensazione nel generico richiamo al d.l. n. 223/2006, contenuto nel citato art. 17. Ed infatti,
tale decreto legge costituisce un articolato e complesso corpo normativo
disciplinante varie fattispecie ed incidente su diversi ambiti di materie, con
la conseguenza che un generico rinvio a tale normativa nel complesso
considerata, quale quello recato dall’art. 17 codice deontologico, senza
neanche un richiamo alla disposizione di interesse – ovvero l’art. 2 che ha
abolito l’obbligatorietà delle tariffe minime e fisse – risulta assolutamente
inidoneo a rappresentare agli appartenenti all’Ordine professionale la
derogabilità delle tariffe, le quali sono invece espressamente richiamate nelle
relative fonti normative e qualificate quali legittimi elementi di riferimento
per la determinazione del compenso, in modo da farne ritenere l’obbligatorietà;
- è invece erronea la censura dell’Autorità al codice deontologico nella
parte in cui parametra il compenso al “decoro professionale”, in quanto,
secondo il Tar non vi sarebbe alcuna diretta corrispondenza tra decoro
professionale ed obbligatorietà delle tariffe;
- la contestata intesa restrittiva non trova giustificazione alcuna, non
sussistendo alcuna correlazione tra uniformità dei compensi e qualità delle
prestazioni professionali, e pertanto non supera positivamente il test di
proporzionalità, anche alla luce di quanto statuito nella citata Comunicazione
del 9 febbraio 2004 sui servizi professionali;
- in particolare non è ragionevolmente ravvisabile una asimmetria
informativa tra professionista e cliente, stante la presenza di una domanda di
servizi professionali evoluta e quindi più qualificata che in passato, con la
conseguenza che non ricorrono, nella fattispecie, le condizioni che integrano
una delle ipotesi che consentono di ritenere giustificate le restrizioni
imposte dalla regolamentazione professionale;
- la valenza restrittiva della concorrenza delle previsioni che
rappresentano la tariffa come obbligatoria è aggravata e rafforzata alla luce
della previsione del potere sanzionatorio attribuito dall’art. 40 codice
deontologico al Consiglio Nazionale dei Geologi, da leggersi congiuntamente con
la previsione di cui all’art. 18 del medesimo testo che affida all’Ordine, con
riferimento alla commisurazione della parcella, il compito di vigilare sulla
relativa osservanza;
- né rileva che al Consiglio Nazionale dei Geologi non sia attribuito
l’esercizio del potere disciplinare, al quale spetta invece il potere di
decidere unicamente sui ricorsi avverso i provvedimenti disciplinari deliberati
dagli Organi Regionali, non modificando tale distribuzione interna all’Ordine delle
competenze in materia disciplinare il rilievo delle esaminate previsioni quanto
all’operato condizionamento sui geologi relativamente alla determinazione dei
compensi professionali;
- in sintesi non rileva la perdurante vigenza delle tariffe, ma che il
codice deontologico abbia surrettiziamente reintrodotto la obbligatorietà delle
stesse, espressamente abrogata dalla normativa nazionale;
- sono irrilevanti le censure di cui ai motivi 19 e 20 del secondo ricorso,
oltre che di oscura utilità;
- infondate sono le censure sulla misura della sanzione amministrativa
atteso che la circostanza che il bilancio del CNG sia costituito dai contributi
versati dagli iscritti all’Ordine al solo fine di sostegno dell’attività
istituzionale, e non a fine di lucro, non esclude la condotta
anticoncorrenziale e la sua sanzionabilità; inoltre
sarebbe provata la volontarietà se non la intenzionalità della condotta;
- legittimamente l’Autorità ha qualificato l’intesa come “grave”;
- infine correttamente l’Autorità, ai fini della commisurazione della
sanzione, ha fatto riferimento al totale delle entrate riportate nel bilancio
dell’anno 2008, ultimo bilancio approvato, dell’Ordine nazionale dei geologi,
avuto riguardo agli orientamenti contenuti nella Comunicazione della
Commissione Europea 2006/C 210/02; deve ritenersi corretta la determinazione
della sanzione da irrogarsi, ai sensi dell’art. 15 l. n. 287/1990, a carico di
un ente di tipo associativo assumendo quale base di computo le entrate
contributive ad esso proprie, per quanto queste non ineriscano ad un fatturato
in senso stretto.
Le questioni pregiudiziali sollevate dalla parte appellante, Consiglio
Nazionale dei Geologi
9. Va anzitutto esaminato l’appello n. 4584/2011 proposto dal Consiglio
Nazionale dei Geologi.
9.1. Con il primo motivo di appello viene chiesto al Consiglio di Stato,
come giudice di ultima istanza, un rinvio pregiudiziale alla C. giust. CE.
9.2. Il quesito pregiudiziale viene formulato dall’appellante nei seguenti
termini che si riportano testualmente con relativa enfasi a cura
dell’appellante:
“Fermi, in punto di diritto, tutti i motivi di ricorso e del presente atto
d’appello, come di seguito formulati, ai sensi dell’art. 267 (ex art. 234)
T.F.U.E. lettera a e comma 3, si propone alla Corte di Giustizia Europea
domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 101 del
Trattato (già art. 81) in relazione alla normativa di legge e deontologica
regolante la professione di geologo ed i compiti istituzionali e norme di
funzionamento del Consiglio Nazionale dei Geologi, afferente la fattispecie,
che di seguito si riporta, al fine di riscontro e coerenza e legittimità con la
normativa europea (detto art. 101) attinente la disciplina della concorrenza.
Con rinvio della presente causa di appello.
Art. 9, con particolare riguardo alla lettera g, legge 112/1963 <<
SPAN>
Art. 14, comma 1, legge 616/1966 secondo cui <>.
Art. 17, legge 616/1966 secondo cui <<>
Art. 6 del Nuovo Codice Deontologico del 19 dicembre 2006 (deliberazione
n. 143/2006) emendato con deliberazione n. 65 del 24 marzo 2010 sulla
“prestazione professionale” secondo cui “l’efficienza e l’efficacia della
prestazione è data essenzialmente: dalla intrinseca difficoltà tecnica;
dall’ampiezza della responsabilità assunta: dalla originalità della richiesta;
dalla sussistenza o meno di precedenti soluzioni tecniche riferibili al caso di
specie; dall’importanza degli elementi tecnici oggetto di valutazione;
dall’entità degli elementi tecnici da coordinare; dall’originalità della
soluzione; dalla quantità del tempo e dall’intensità dell’impegno profuso;
dalla capacità di interazione con la committenza e con gli altri soggetti,
anche imprenditoriali, coinvolti nella prestazione; dal valore dell’opera>>.
Art. 7 del Nuovo Codice Deontologico del 19 dicembre 2006 (deliberazione
n. 143/2006) emendato con deliberazione n. 65 del 24 marzo 2010 su <>
secondo cui <>.
Art. 17 del Nuovo Codice Deontologico del 19 dicembre 2006 (deliberazione
n. 143/2006) emendato con deliberazione n. 65 del 24 marzo 2010 sui “Parametri
tariffari” secondo cui <>. In particolare, sul punto, dica la Corte
Europea adita se determina contrasto con l’art. 101 del Trattato l’aver
indicato, quale vigente norma di legge obbligatoria nel suo intero contenuto,
il D.L. 223/2006 con il sistema numerico-cronologico, unico sistema storico e
legittimo, tanto a livello interno che comunitario, che di certo non incide
minimamente sulla conoscibilità e sulla portata obbligatoria della norma
giuridica.
Art. 18 del Nuovo Codice Deontologico del 19 dicembre 2006 (deliberazione
n. 143/2006) emendato con deliberazione n. 65 del 24 marzo 2010 sulla <>
secondo cui <>.
Art. 19 del Nuovo Codice Deontologico del 19 dicembre 2006 (deliberazione
n. 143/2006) emendato con deliberazione n. 65 del 24 marzo 2010 sull’<>
secondo cui <>.
In relazione a :
- Regolamento CEE 2137/85 del Consiglio, relativo all’istituzione del
“Gruppo Europeo di interesse economico (GEIE) con lo scopo di facilitare o
sviluppare l’attività economica dei suo membri” stabilisce, al “sesto
considerando” <<>
- Direttiva Europea 2005/36/CE del Parlamento e del Consiglio relativa al
“riconoscimento delle qualifiche professionali” al “considerando n° 43”
stabilisce <<> da parte di coloro che forniscono servizi
intellettuali e di concetto nell’interesse dei clienti e del pubblico. L’esercizio
della professione negli Stati membri può essere oggetto, a norma del trattato,
di specifici limiti legali sulla base della legislazione nazionale e sulle
disposizione di legge stabilite autonomamente nell’ambito di tale contesto dai
rispettivi organismi professionali rappresentativi, salvaguardando e
sviluppando la loro professionalità e la qualità del servizio e la riservatezza
dei rapporti con i clienti>>.
Direttiva 2006/123/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa
<> nota come direttiva servizi al considerando n° 115 dispone che <
Si esprima infime l’Ill.ma Corte di Giustizia Europea adita sulla
compatibilità con l’art. 101 del Trattato della delineata distinzione, in punto
di diritto e di organizzazione ordinamentale, tra impresa professionale ed
impresa commerciale, nonché tra concorrenza professionale e concorrenza
commerciale”.
9.3. Nell’ambito dell’appello proposto dall’AGCM, il CNG con memoria di
costituzione ha sollevato ulteriori questioni pregiudiziali comunitarie, oltre
a quella riportata sub 9.2., articolata con l’atto di appello e riproposta
anche con la memoria di costituzione nell’appello dell’AGCM.
In particolare, le ulteriori questioni pregiudiziali sono state dal CNG
così testualmente formulate:
<<a) se l’art. 101 TFUE o altra norma europea vieta e/o inibisca il
riferimento alle componenti di dignità e decoro del professionista – nella
fattispecie geologo – nella composizione del compenso professionale;
b) se ai sensi dell’art. 101 TFUE, o altra norma europea, il riferimento
alle componenti di dignità e decoro professionale comportino effetti
restrittivi della concorrenza professionale;
c) se l’art. 101 TFUE o altra norma europea stabilisca o meno che i
requisiti di dignità e decoro, quali componenti del compenso del professionista
in connessione con tariffe definite espressamente come derogabili nei minimi –
atteso l’espresso e formale richiamo, di cui all’art. 17 del Nuovo Codice
Deontologico dei Geologi, alla normativa di legge che tale deroga consente
(D.L. . n. 223/2006 convertito in legge 248/2006) possa ritenersi quale
induzione a comportamenti restrittivi della concorrenza;
d) se l’art. 101 TFUE o altra norma europea vieti il riferimento alla
tariffa professionale – stabilita, per i geologi, da provvedimento statuale,
D.M. del Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro delle Attività
Produttive e derogabile nei minimi per effetto, ripetesi,
dell’espresso e formale richiamo al D.L. n. 223/2006 di cui all’art. 17 del
Nuovo Codice Deontologio – quale semplice elemento
tecnico-professionale di riferimento per la determinazione dei compensi;
e) se l’art. 101 TFUE o altra norma europea vieti la corrispondenza tra
l’importanza delle prestazioni, i requisiti di dignità e decoro così come anche
definiti negli artt. 6 e 7 del nuovo codice deontologico dei geologi con il
compenso professionale, così come previsto dall’art. 2233 c.c. comma 2 secondo
cui “in ogni caso la misura del compenso (n.d.r.
professionale) deve essere adeguata all’importanza dell’opera ed al decoro
della professione”;
f) se dunque secondo l’art. 101 TFUE il riferimento all’art. 2233, comma 2
c.c. possa ritenersi legittimo e non induzione di effetti restrittivi della
concorrenza;
g) se l’art. 101 TFUE, o altra norma europea, stabilisca, nell’ambito
della disciplina della concorrenza, l’eguaglianza giuridica tra Ordine
Professionale, nella specie dei geologi, così come regolato da specifiche norme
dello Stato poste per il perseguimento dei fini istituzionali, e le intese e
concentrazioni di imprese commerciali costituenti intesa anticoncorrenziale;
h) se l’art. 101 TFUE, o altra norma europea, consenta o meno di stabilire
l’equiparazione tra contributo ordinistico
obbligatorio per legge – posto per il perseguimento delle funzioni e fini
istituzionali – con l’attività di vendita di beni e servizi e con il profitto
economico effettuati ed ottenuti mediante comportamenti anticoncorrenziali da parte
di concentrazioni di imprese commerciali;
i) se l’art. 101 TFUE, o altra norma europea, giustifichi o meno
l’applicazione, nella fattispecie, di sanzione;
j) se l’art. 101 TFUE, o altra norma europea, legittimi o meno
l’assoggettamento a prelievo forzoso su contributo ordinistico,
obbligatorio per legge, eguagliando tale contributo a profitto ed entrata
frutto di intesa economico-commerciale anticoncorrenziale.
Chiedesi pertanto che l’Ill.mo Consiglio di Stato emetta sentenza/ordinanza di
rinvio alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee>>.
La disciplina comunitaria sul rinvio pregiudiziale
9.4. Dispone l’art. 267 TFUE (ex articolo 234 del TCE)
“La Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a pronunciarsi, in
via pregiudiziale:
a) sull'interpretazione dei trattati;
b) sulla validità e l'interpretazione degli atti compiuti dalle
istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione.
Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad un organo
giurisdizionale di uno degli Stati membri, tale organo giurisdizionale può,
qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo
punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente
davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non
possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo
giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti
a un organo giurisdizionale nazionale e riguardante una persona in stato di
detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile”.
9.5. In ordine alla portata dell’“obbligo” del giudice nazionale di ultima
istanza di sollevare “pregiudiziale comunitaria”, la C. giust.
CE ha chiarito che tale obbligo non sussiste se:
a) la questione di interpretazione di norme comunitarie non è pertinente
al giudizio (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo
influire sull'esito della lite);
b) la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla Corte o
comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso;
c) la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale
evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da
dare alla questione sollevata [C. giust. CE, 6
ottobre 1982 C-283/81, Cilfit] (c.d. atto chiaro).
9.6. Laddove si configuri un obbligo di rinvio pregiudiziale alla C. giust. CE, la sua violazione è ritenuta dalla C. Giust. CE sanzionabile mediante la responsabilità degli
Stati membri, che sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle
violazioni del diritto dell’Unione riconducibili ad organi giudiziari, e in
particolare quando questi ultimi omettano di ottemperare all’obbligo di rinvio
pregiudiziale [C. giust. CE, 30 settembre 2003
C-224/01, Kobler; Id. 13 giugno 2006 C-173/03,
Traghetti del Mediterraneo; Id., sez. III 24 novembre 2011 C 379/10 Commissione
europea c. Repubblica italiana].
9.7. I requisiti formali del provvedimento di rinvio pregiudiziale e le
modalità di formulazione dei quesiti sono chiariti nella nota 2011/C 160/01 in
G.U.C.E. 28 maggio 2011, peraltro dichiaratamente di valore non vincolante.
Rinvio di questioni pregiudiziali sulla corretta interpretazione dell’art.
267 TFUE
9.8. Rileva il Collegio che le questioni pregiudiziali sollevate da parte
appellante, (e attinenti, in estrema sintesi, alla interpretazione del diritto
comunitario della concorrenza e delle professioni, in ordine alla compatibilità
con esso di codici deontologici professionali che commisurino il compenso al
decoro e dignità professionale, alla qualità e quantità del lavoro svolto, con
il risultato che compensi al di sotto dei minimi tariffari potrebbero essere
sanzionati, sul piano disciplinare, per violazione di regole deontologiche),
sono, secondo i parametri indicati dalla Corte:
- questioni di interpretazione del diritto comunitario;
- questioni rilevanti al fine della decisione del giudizio;
- questioni non perfettamente identiche ad altre già decise dalla Corte di
giustizia CE;
- questioni sulle quali la corretta applicazione del diritto comunitario
non si impone con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole
dubbio sulla soluzione da dare alle questioni sollevate.
Alla luce di tali parametri, si configura, in astratto e in tesi,
l’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui al citato art. 267, par. 3, TFUE.
9.9. La questione è tuttavia formulata, nell’appello principale del CNG,
in termini generici o con riferimento a norme comunitarie palesemente non
pertinenti al caso specifico (come è il riferimento alla direttiva sul GEIE).
Pertanto, secondo il diritto processuale nazionale, potrebbe essere dichiarata
irrilevante o inammissibile, ovvero, si imporrebbe, per una corretta rimessione
alla C. giust. CE, una integrale riformulazione da
parte del giudice. Infatti la parte si limita ad elencare le norme comunitarie,
le disposizioni nazionali e le norme deontologiche, senza evidenziare quale
sarebbe la questione interpretativa rilevante per la soluzione del caso.
Quanto alle questioni pregiudiziali sollevate, sempre dal CNG, ma
nell’atto di costituzione in relazione all’appello dell’AGCM, che in parte sono
identiche a quelle contenute nell’appello principale, in parte sono ulteriori,
valgono, per i profili di identità, le considerazioni di cui sopra.
Le ulteriori questioni pregiudiziali, pur apparentemente specifiche, si
prestano (sulla scorta del diritto processuale nazionale) a tre rilievi di
inammissibilità per difetto di rilevanza:
a) si chiede l’interpretazione de “l’art. 101 TFUE o altra norma europea”;
il riferimento generico ad “altra norma europea” andrebbe dichiarato
inammissibile, perché la questione di interpretazione del diritto comunitario
deve riferirsi a ben individuate norme comunitarie;
b) sotto forma di richiesta di interpretazione del diritto comunitario, in
realtà si chiede la soluzione del caso specifico alla C. giust.
CE, che invece esula dalle competenze della stessa (secondo la giurisprudenza
della C. giust. CE, nel procedimento di rinvio
pregiudiziale, basato su una netta separazione delle funzioni tra i giudici
nazionali e la Corte, ogni valutazione dei fatti di causa rientra nella
competenza del giudice nazionale: C. giust. CE 8
maggio 2008 C-491/06; 9 giugno 2005, cause riunite C-211/03, C-299/03 e da
C-316/03 a C-318/03; 18 luglio 2007, C-119/05; in particolare, la Corte può
pronunciarsi unicamente sull’interpretazione o sulla validità di un testo
comunitario in base ai fatti indicati dal giudice nazionale: v. C. giust. CE 16 marzo 1978 C-104/77; 28 settembre 2006
C-467/04);
c) nella formulazione dei quesiti di “interpretazione del diritto
comunitario”, proprio perché ciò che si chiede è la soluzione del caso
specifico, vengono forniti elementi della fattispecie concreta, ma talora in
modo parziale e non rispondente alla portata del provvedimento dell’AGCM; ad
es. laddove si afferma di aver richiamato, nel codice deontologico,
l’abolizione legale dei minimi tariffari, circostanza di fatto non rispondente
al vero, perché il codice deontologico non richiama l’art. 2 d.l. n. 223/2006 (che abolisce i minimi tariffari), ma
richiama l’intero d.l. n. 223/2006, che ha contenuto
plurimo ed eterogeneo;
d) nella formulazione dei quesiti di “interpretazione del diritto
comunitario”, proprio perché ciò che si chiede è la soluzione del caso
specifico, viene chiesta l’interpretazione dell’art. 101 TFUE anche con
riferimento alla nozione di “impresa” ai fini antitrust, su cui la
giurisprudenza comunitaria si è già ampiamente pronunciata, sicché non vi è
propriamente una questione di “interpretazione del diritto comunitario” ma solo
di applicazione del diritto comunitario, già reiteratamente interpretato, al
caso specifico.
9.10. Ritiene il Collegio di dover anzitutto sollevare una questione
pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulla interpretazione dello stesso
art. 267, par. 3, TFUE, in ordine alla portata dell’“obbligo” di rinvio
pregiudiziale, atteso che i chiarimenti sinora forniti dalla giurisprudenza
della C. giust. CE non paiono del tutto esaustivi.
9.10.1. Anzitutto, il citato art. 267, par. 3, TFUE, configura un obbligo
di rinvio pregiudiziale sulla interpretazione del diritto comunitario, quando
una tale questione “è sollevata”.
La formulazione della disposizione sembra pertanto configurare un obbligo
di rinvio ogni qual volta una questione sia sollevata da una o più delle parti
di causa.
La giurisprudenza della Corte, sopra citata, ha ipotizzato una sorta di
“filtro”, per il caso di questioni non rilevanti, o già decise, o già chiare
oltre ogni ragionevole dubbio.
Sembra trattarsi di un filtro a maglie larghe che lascia poco margine ad
un sindacato valutativo del giudice nazionale, atteso che, da un lato, il dato
testuale dell’art. 267, par. 3, TFUE sembra prevedere un “obbligo”
incondizionato, sicché eventuali deroghe devono essere tassative, e atteso che
le questioni interpretative “chiare” sono evenienza rara e che la stessa
valutazione di “rilevanza” della questione può presupporre la soluzione di
questioni interpretative del diritto comunitario.
Il sistema del rinvio pregiudiziale alla C. giust.
CE sembra pertanto differire nettamente dal sistema nazionale italiano di
rinvio alla Corte costituzionale, nel quale anche il giudice di ultima istanza
non ha un obbligo di rinvio, ma solo una facoltà, previa valutazione di
rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale. In siffatta valutazione di “non manifesta infondatezza” il
giudice può interpretare sia la legge ordinaria, sia la Costituzione.
Invece, nel sistema del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia,
sembra esclusa, in capo al giudice nazionale di ultima istanza, qualsiasi
competenza ad interpretare il diritto comunitario, potendo il giudice nazionale
escludere il rinvio pregiudiziale solo se la norma comunitaria sia chiara al di
là di ogni ragionevole dubbio.
9.10.2. In ogni caso, né l’art. 267, par. 3, TFUE, né la giurisprudenza
della C. giust. CE che lo ha interpretato, forniscono
chiarimenti sul rapporto tra l’obbligo di rinvio pregiudiziale e le regole
processuali nazionali.
Nel sistema del processo amministrativo italiano, come risulta dal cod. proc. amm., vige il principio
della domanda di parte, il principio della specificità dei motivi di ricorso
con conseguente inammissibilità dei motivi generici, il divieto di modifica dei
motivi in corso di causa; in ossequio al principio della domanda, il giudice
non può modificare una domanda di parte, pena la violazione del principio del
contraddittorio.
Alla luce delle regole del processo amministrativo sopra enunciate, la
“domanda pregiudiziale” proposta dall’appellante come primo motivo di appello,
dovrebbe essere valutata, anzitutto, come “motivo di ricorso” alla stregua
delle regole processuali nazionali.
Tale domanda pregiudiziale di parte si correla ai motivi del ricorso di
primo grado e, in particolare, al 14° motivo del primo ricorso di primo grado e
al 13° motivo del secondo ricorso di primo grado, come sopra sintetizzati; si
lamenta che il provvedimento dell’AGCM avrebbe violato i citati parametri
comunitari, che consentirebbero sia i minimi tariffari inderogabili, sia
l’adozione di codici deontologici che impongono minimi tariffari a tutela della
qualità e quantità del lavoro del professionista e del decoro e dignità della
professione.
Secondo le regole processuali nazionali, la censura di contrasto dell’atto
amministrativo impugnato con il diritto comunitario va trattata come un
ordinario motivo di ricorso, e dunque va proposta dalla parte entro i termini
di impugnazione dell’atto amministrativo, con motivo specifico, da articolarsi
sin dal primo grado di giudizio; tale censura non può essere formulata per la
prima volta in appello.
In base a tale valutazione, questo Consesso dovrebbe affermare che tale
motivo di ricorso è inammissibile per genericità, in quanto, in relazione alla
dedotta censura di contrasto dell’atto amministrativo impugnato con il diritto
comunitario, solleva una questione di interpretazione del diritto comunitario
limitandosi a elencare norme nazionali e disposizioni comunitarie, e a
dichiarare che vi è una “questione di interpretazione”, ma non chiarisce in
cosa consisterebbe siffatta questione di interpretazione.
Inoltre tale “motivo di ricorso” formula la “questione pregiudiziale” in
termini non conformi alle citate istruzioni della C. giust.
CE.
Si tratta allora di comprendere se l’art. 267, par. 3, TFUE faccia salvi i
sistemi processuali nazionali, e segnatamente le citate regole in tema di
principio della domanda, specificità dei motivi, divieto per il giudice di
esercitare un potere di soccorso nel senso di correggere e modificare la
domanda di parte, così consentendo al giudice di “filtrare” le domande
pregiudiziali anche in base a parametri della legge processuale nazionale senza
incorrere in responsabilità per violazione del citato art. 267, par. 3, TFUE, o
se invece imponga al giudice nazionale, a fronte di una domanda di parte che
solleva una pregiudiziale comunitaria, e a dispetto delle regole processuali
nazionali, di interpretare, modificare e adattare la domanda di parte, in modo
che il quesito pregiudiziale sollevato dalla parte rispetti i requisiti formali
e sostanziali di cui alle citate istruzioni della C. giust.
CE.
9.10.3. Ancora, a fronte della portata letterale dell’art. 267, par. 3,
TFUE, che impone al giudice nazionale di ultima istanza un “obbligo”
incondizionato di rinvio pregiudiziale, ogni qualvolta vi sia una domanda di
parte che pone una questione di interpretazione, si pone la questione interpretativa
di quale sia l’ambito del potere di filtro del giudice nazionale – enunciato
dalla C. giust. CE – nello stabilire che
l’interpretazione del diritto comunitario è chiara al di là di ogni ragionevole
dubbio. Dato, infatti, che l’interpretazione del diritto comunitario è
riservata alla C. giust. CE, e dato che l’art. 267,
par. 3, TFUE prevede un obbligo incondizionato di rinvio se la parte solleva
questione pregiudiziale, sembrerebbe che il giudice nazionale non abbia alcun
potere di stabilire che “il diritto comunitario è chiaro” e non dà adito a
dubbi interpretativi, e conseguentemente non abbia alcun potere di rifiutare il
rinvio pregiudiziale.
9.10.4. Nemmeno è chiara la portata e l’ambito del giudizio di “rilevanza”
della sollevata questione pregiudiziale, ai fini del decidere: la C. giust. CE non ha indicato in modo univoco se il giudizio di
rilevanza sia riservato al giudice nazionale, o possa essere sindacato dalla
stessa C. giust. CE.
In ogni caso, sinora, quando la C. giust. CE ha
sindacato il giudizio di rilevanza reso dal giudice nazionale, lo ha fatto per
escludere la rilevanza invece ritenuta dal giudice a quo.
Non è invece chiaro quale è l’ambito del potere del giudice nazionale di
escludere la rilevanza, se per valutare la rilevanza occorra comunque stabilire
se il diritto comunitario è o no applicabile al caso concreto, né quali sono le
conseguenze giuridiche, anche in termini di responsabilità dello Stato per
violazione del diritto comunitario, se il giudice a quo esclude la rilevanza
della questione di interpretazione del diritto comunitario, errando nel
valutare se il diritto comunitario è o meno applicabile al caso concreto.
D’altro canto, il giudizio di rilevanza da parte del giudice nazionale
sembrerebbe precluso dal tenore letterale dell’art. 267, par. 3, TFUE, perché
ogni qual volta vengano in considerazione, nel giudizio, norme comunitarie, per
ciò solo la questione interpretativa dovrebbe essere rilevante.
9.10.5. Il tenore letterale dell’art. 267, par. 3, TFUE sembrerebbe dunque
configurare un dovere incondizionato di rinvio pregiudiziale da parte del
giudice nazionale di ultima istanza, tutt’al più con un filtro a maglie larghe
che farebbe venire meno l’obbligo del rinvio solo in casi limiti e
particolarmente eclatanti.
Non può tuttavia tacersi che una siffatta interpretazione rischia, da un
lato, di incoraggiare il proliferare di richieste di rinvii pregiudiziali in
modo emulativo, e dall’altro lato di creare un imbuto alla rovescia con un
aggravio del carico di lavoro della C. giust. CE
oltre ogni ragionevole limite.
9.10.6. Inoltre, l’assenza di qualsivoglia filtro, o la sussistenza di un
filtro a maglie larghe, e l’affermazione di un dovere incondizionato del
giudice di ultima istanza di effettuare il rinvio pregiudiziale, rischia di
impattare negativamente su un altro principio processuale del diritto italiano
e dello stesso diritto comunitario e internazionale pattizio, quello della
ragionevole durata del processo.
Si tratta allora di comprendere se l’obbligo incondizionato di rinvio
pregiudiziale con il conseguente allungamento dei tempi processuali possa far
escludere, dal computo dei termini di ragionevole durata del processo interno,
la fase di rinvio e decisione della pregiudiziale comunitaria, e anche questa è
una questione di interpretazione del diritto comunitario, atteso che la Carta
di Nizza, che fa parte del Trattato, comprende tra i diritti fondamentali
dell’Unione anche quello alla ragionevole durata del processo (v. art. 47 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, avente lo stesso valore
giuridico dei Trattati, ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea
TUE).
9.10.7. Non può essere trascurato, poi, il risvolto del mancato rinvio
pregiudiziale in termini di responsabilità del giudice nazionale e dello Stato
di appartenenza, atteso che, nella prassi italiana, a fondamento di azioni di
responsabilità civile nei confronti dei magistrati ai sensi della l. n.
117/1988 viene posta l’asserita inosservanza della giurisprudenza Cilfit [C. giust. CE, 6 ottobre
1982 C-283/81].
Sicché, sembra anche necessario che sia chiarito dalla C. giust. CE, alla luce della interpretazione dell’art. 267,
par. 3, TFUE, in quali casi il mancato rinvio pregiudiziale dà luogo a
“manifesta violazione del diritto comunitario” [C. giust.
CE, 30 settembre 2003 C-224/01, Kobler; Id., sez. III
24 novembre 2011 C 379/10 Commissione europea c. Repubblica italiana] e se tale
nozione possa essere di diversa portata e ambito ai fini dell’azione speciale
nei confronti dello Stato ai sensi della legge 13 aprile 1988 n.117 per
“risarcimento danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e
responsabilità civile dei magistrati” e dell’azione generale nei confronti
dello Stato per violazione del diritto comunitario, e tanto, anche al fine di
evitare che i giudici nazionali, nel timore di incorrere in violazione del
diritto comunitario, aggravino la C. giust. CE con
rinvii puramente “difensivi” finalizzati a prevenire azioni di responsabilità
civile contro i magistrati.
9.10.8. Il punto di vista del Collegio sulla soluzione da dare alle
questioni pregiudiziali sottoposte, che viene espresso ai sensi del par. 23
delle istruzioni della C. Giust. CE 160/01 del 2011,
è che l’art. 267, par. 3 TFUE non dovrebbe ostare alle regole processuali
nazionali in tema di termini di ricorso, specificità dei motivi di ricorso,
principio della domanda, divieto di modifica della domanda in corso di causa,
divieto per il giudice di soccorso della parte nella formulazione delle
domande, in violazione della parità delle armi, sicché quando la parte solleva
una questione pregiudiziale comunitaria davanti al giudice nazionale dovrebbe
farlo in termini sufficientemente chiari e specifici, e coerenti con i
parametri richiesti dalla C. giust. CE.
Inoltre secondo il giudice rimettente, in ossequio ai principi di
ragionevole durata del processo, divieto di abuso del diritto di difesa, lealtà
processuale, l’art. 267, par. 3 TFUE andrebbe interpretato nel senso che
l’obbligo di rinvio pregiudiziale non impedisce un vaglio critico da parte del
giudice a quo della questione di interpretazione del diritto comunitario, e
consente al giudice a quo di non rinviare la questione non solo nel caso di
“assoluta chiarezza” della norma comunitaria, ma anche nel caso in cui il
giudice nazionale ritenga, in base ad un parametro di ragionevolezza e
diligenza professionale, che la norma comunitaria sia “ragionevolmente chiara”
e non necessiti di ulteriore chiarificazione.
9.10.9. In conclusione, si rimettono alla C. giust.
CE le seguenti questioni pregiudiziali di interpretazione dell’art. 267, par.
3, TFUE:
a) se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, par. 3, TFUE, in
relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di
una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte
in causa, la disciplina processuale nazionale che preveda un sistema di
preclusioni processuali, quali termini di ricorso, specificità dei motivi,
divieto di modifica della domanda in corso di causa, divieto per il giudice di
modificare la domanda di parte;
b) se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, par. 3, TFUE, in
relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di
una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte
in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla
rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma
comunitaria;
c) se l’art. 267, par. 3, TFUE, ove interpretato nel senso di imporre al
giudice nazionale di ultima istanza un obbligo incondizionato di rinvio
pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario
sollevata da una parte in causa, sia o meno coerente con il principio di
ragionevole durata del processo, del pari enunciato dal diritto comunitario;
d) in presenza di quali circostanze di fatto e di diritto l’inosservanza
dell’art. 267, par. 3, TFUE configuri, da parte del giudice nazionale, una
“violazione manifesta del diritto comunitario”, e se tale nozione possa essere
di diversa portata e ambito ai fini dell’azione speciale nei confronti dello
Stato ai sensi della legge 13 aprile 1988 n.117 per “risarcimento danni
cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei
magistrati” e dell’azione generale nei confronti dello Stato per violazione del
diritto comunitario.
Rinvio della questione pregiudiziale come formulata dal CNG
9.11. Per il caso in cui la C. giust. CE dovesse
accedere alla tesi del “filtro a maglie larghe” come sopra esposta, ostativa
dell’applicazione delle regole processuali nazionali in ordine alla specificità
dei motivi di ricorso, la pregiudiziale comunitaria deve essere rimessa alla C.
giust. CE negli esatti termini in cui è stata
formulata da parte appellante, e sopra riportati.
Rinvio subordinato di questioni pregiudiziali come riformulate dal giudice
a quo
9.12. Ove, poi, la C. giust. CE dovesse ritenere
che il giudice nazionale ha un potere-dovere di soccorso della parte, nella
formulazione del quesito pregiudiziale, le questioni pregiudiziali vengono, da
questo giudice, formulate nei termini che seguono.
9.12.1. Si pone anzitutto la questione se il diritto comunitario della
concorrenza e delle professioni, e in particolare le disposizioni comunitarie
invocate da parte appellante nel suo quesito, ostino o meno all’adozione di
codici deontologici professionali che commisurino il compenso al decoro e
dignità professionale, alla qualità e quantità del lavoro svolto, con il
risultato che compensi che si collocano al di sotto dei minimi tariffari (e che
pertanto sono concorrenziali) potrebbero essere sanzionati, sul piano
disciplinare, per violazione di regole deontologiche.
9.12.2. Si pone poi la questione se il diritto comunitario della
concorrenza e in particolare la disciplina che vieta le intese restrittive
possa o meno essere interpretato nel senso che una intesa restrittiva può
essere configurata da regole deontologiche stabilite da Ordini professionali,
laddove tali regole, nell’indicare il decoro e la dignità professionale, nonché
la qualità e quantità del lavoro svolto, quali parametri di quantificazione del
compenso del professionista, sortiscano l’effetto della inderogabilità dei
minimi tariffari, e pertanto anche un effetto restrittivo della concorrenza a
causa di detta inderogabilità.
9.12.3. Si pone poi la questione pregiudiziale se, laddove il diritto
nazionale ponga regole di tutela della concorrenza più severe di quelle
comunitarie, in particolare stabilendo che i minimi tariffari delle tariffe
professionali possono essere derogati, laddove il diritto comunitario sembra
invece ancora consentire a certe condizioni la inderogabilità dei minimi
tariffari, e conseguentemente laddove una condotta dell’Ordine professionale
che imponga la inderogabilità dei minimi tariffari costituisca, per il diritto
nazionale, una intesa restrittiva della concorrenza mentre potrebbe non esserlo
per il diritto comunitario, il diritto comunitario della concorrenza, e
segnatamente la disciplina comunitaria delle intese restrittive della
concorrenza, osti o meno a siffatto risultato di ritenere una data condotta
sanzionabile come intesa restrittiva in base alla disciplina nazionale e non
anche in base alla disciplina comunitaria, ogni qualvolta le regole nazionali
di tutela della concorrenza siano più severe di quelle comunitarie.
9.12.4. Non sembra, infine, che ci sia una questione di “interpretazione”
sulla nozione di “impresa” ai fini del diritto comunitario antitrust, avendo
già la C. giust. CE più volte chiarito che anche enti
pubblici o professionisti possono ricondursi a tale nozione, e che consigli di
ordini professionali possono costituire associazioni di imprese.
E, invero, secondo la giurisprudenza della C. giust.
CE, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un'attività
economica consistente nell'offerta di beni o servizi sul mercato,
indipendentemente dallo statuto giuridico e dalle modalità di finanziamento, o
dalla sussistenza o meno del fine di lucro (C. giust.
CE 26 marzo 2009 C-113/07, Selex; C. giust. CE, 12 settembre 2000 C-180/98, Pavlov) ed è
operatore economico un qualsivoglia soggetto, pubblico o privato, che offre
beni o servizi sul mercato, anche se non ha istituzionalmente fine di lucro
(direttiva 2004/18/CE; C. giust. CE, 23 dicembre 2009
C-305/08, Conisma).
Anche attività di carattere intellettuale possono essere qualificate come
impresa (C. giust. CE 18 giugno 1998 C-35/96,
Commissione c. Italia), e in particolare sono imprese ai fini del diritto
antitrust gli avvocati, e pertanto un Ordine degli Avvocati, anche se abbia
natura giuridica pubblica, può costituire una associazione di imprese quando
emana atti di interesse della categoria degli iscritti (C. giust.
CE 19 febbraio 2002 C-309/1999 Wouters).
9.12.5. Il punto di vista del Collegio sulla soluzione da dare alle
questioni pregiudiziali sottoposte, che viene espresso ai sensi del par. 23
delle istruzioni della C. Giust. CE 160/01 del 2011,
è che:
a) il diritto comunitario citato da parte appellante, nel far salve le discipline
nazionali sulle professioni intellettuali e le norme deontologiche delle libere
professioni, tutt’al più consente, ma non certo impone, possibili deroghe alla
concorrenza a tutela della qualità, prestigio e decoro delle professioni; la
giurisprudenza comunitaria si è già dichiarata non favorevole ai minimi
professionali inderogabili con riferimento alla tariffa forense italiana,
osservando che una inderogabilità assoluta può ostacolare la concorrenza, e che
la inderogabilità deve trovare giustificazioni oggettive (C. Giust. CE 5 dicembre 2006 CC 94/04 e 202/04, Cipolla + 1);
b) per l’effetto, il diritto nazionale ben può, nel disciplinare le
professioni, dettare regole proconcorrenziali più
rigorose di quelle imposte dal diritto comunitario, e ben può consentire la
deroga dei minimi tariffari e per converso vietare la inderogabilità dei
minimi; si noti che lo ius superveniens,
e segnatamente il d.l. 24 gennaio 2012 n. 1, ha da
ultimo abrogato tutte le tariffe professionali con riferimento alle professioni
regolamentate nel sistema ordinistico;
c) se il diritto nazionale – nella specie il diritto italiano – vieta i
minimi tariffari delle professioni e conseguentemente consente che tali minimi
possano essere derogati dai singoli professionisti, ne consegue che possono, in
astratto, essere qualificati come intese restrittive della concorrenza accordi
o condotte parallele o decisioni di ordini professionali, che siano finalizzati
ad aggirare il divieto legislativo di minimi tariffari inderogabili; in tal caso,
non si configura un contrasto tra art. 2, l. n. 287/1990 e diritto comunitario
antitrust, perché non può ritenersi che la nozione italiana di intesa
restrittiva della concorrenza sia diversa dalla nozione comunitaria, ben
potendo essere diverso il parametro normativo per valutare se vi è o no
violazione della concorrenza, tutte le volte in cui il diritto nazionale tuteli
la concorrenza in misura maggiore rispetto al diritto comunitario;
d) ove si condividano gli assunti sub a), b), c), costituisce mera questione
di fatto, riservata al giudice nazionale, la questione di verificare se, nel
caso concreto, configurino o meno intesa restrittiva della concorrenza le norme
deontologiche fissate dal CNG, laddove (i) richiamano genericamente il d.l. n. 223/2006, anziché puntualmente l’art. 2, d.l. n. 223/2006, e senza esplicitare che i minimi
tariffari sono per legge derogabili, e laddove (ii) configurano il decoro
professionale come parametro di determinazione del compenso del professionista,
al contempo prevedendo che costituisce illecito disciplinare la condotta
contraria al decoro professionale, e dunque in ipotesi la condotta di richiesta
di un compenso al di sotto dei minimi tariffari ritenuta lesiva del decoro
professionale.
9.12.5. Vanno pertanto sottoposte alla Corte le seguenti questioni in via
subordinata rispetto alle precedenti:
a) in via subordinata, per il caso in cui la Corte risolva le questioni di
interpretazione dell’art. 267, par. 3, TFUE nel senso della ininfluenza delle
regole processuali nazionali e della sussistenza di un dovere di soccorso del
giudice nazionale, e la questione pregiudiziale come sollevata dall’appellante
nel senso della genericità del quesito di parte, la questione pregiudiziale se
il diritto comunitario della concorrenza e delle professioni, e in particolare
le disposizioni comunitarie invocate da parte appellante nel suo quesito,
ostino o meno all’adozione di codici deontologici professionali che commisurino
il compenso al decoro e dignità professionale, alla qualità e quantità del
lavoro svolto, con il risultato che compensi che si collocano al di sotto dei
minimi tariffari (e che pertanto sono concorrenziali) potrebbero essere
sanzionati, sul piano disciplinare, per violazione di regole deontologiche;
b) in via subordinata, per il caso in cui la Corte risolva le questioni di
interpretazione dell’art. 267, par. 3, TFUE nel senso della ininfluenza delle
regole processuali nazionali e della sussistenza di un dovere di soccorso del
giudice nazionale, e la questione pregiudiziale come sollevata dall’appellante
nel senso della genericità del quesito di parte, la questione pregiudiziale se
il diritto comunitario della concorrenza, e in particolare la disciplina che
vieta le intese restrittive, possa o meno essere interpretato nel senso che una
intesa restrittiva può essere configurata da regole deontologiche stabilite da
ordini professionali, laddove tali regole, nell’indicare il decoro e la dignità
professionale, nonché la qualità e quantità del lavoro svolto, quali parametri
di quantificazione del compenso del professionista, sortiscano l’effetto della
inderogabilità dei minimi tariffari, e per tanto anche un effetto restrittivo
della concorrenza a causa di detta inderogabilità;
c) in via subordinata, per il caso in cui la Corte risolva le questioni di
interpretazione dell’art. 267, par. 3, TFUE nel senso della ininfluenza delle
regole processuali nazionali e della sussistenza di un dovere di soccorso del
giudice nazionale, e la questione pregiudiziale come sollevata dall’appellante nel
senso della genericità del quesito di parte, la questione pregiudiziale se,
laddove il diritto nazionale ponga regole di tutela della concorrenza più
severe di quelle comunitarie, in particolare stabilendo che i minimi tariffari
delle tariffe professionali possono essere derogati, laddove il diritto
comunitario sembra invece ancora consentire a certe condizioni la
inderogabilità dei minimi tariffari, e conseguentemente laddove una condotta
dell’Ordine professionale che imponga la inderogabilità dei minimi tariffari
costituisca, per il diritto nazionale, una intesa restrittiva della concorrenza
mentre potrebbe non esserlo per il diritto comunitario, il diritto comunitario
della concorrenza, e segnatamente la disciplina comunitaria delle intese
restrittive della concorrenza, osti o meno a siffatto risultato di ritenere una
data condotta sanzionabile come intesa restrittiva in base alla disciplina
nazionale e non anche in base alla disciplina comunitaria, ogni qualvolta le
regole nazionali di tutela della concorrenza siano più severe di quelle
comunitarie.
Atti da trasmettere alla Corte di giustizia CE
10. In conclusione, alla luce di quanto esposto, si rimettono all’esame
della C. giust. CE:
a) le sopra esposte questioni di corretta interpretazione dell’art. 267,
par. 3, TFUE;
b) la questione pregiudiziale come sollevata dalla parte appellante e
sopra riportata tra virgolette;
c) le sopra esposte questioni pregiudiziali sul diritto comunitario della
concorrenza e delle professioni.
10.1. Ai sensi della «nota informativa riguardante la proposizione di
domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali» 2011/C
160/01 in G.U.C.E. 28 maggio 2011, vanno trasmessi alla cancelleria della Corte
mediante plico raccomandato in copia i seguenti atti:
- provvedimenti impugnati con il ricorso di primo grado e, in particolare:
- - nota del 26 maggio 2009 con cui l’AGCM ha comunicato l’avvio
dell’istruttoria;
- - determinazione dell’AGCM in data 22 dicembre 2009 recante rigetto
degli impegni;
- - delibera dell’AGCM del 23 giugno 2010;
- i due ricorsi di primo grado;
- sentenza del T.a.r. appellata;
- atto di appello del Consiglio Nazionale dei Geologi;
- atto di appello dell’AGCM;
- presente ordinanza;
- copia delle seguenti norme nazionali:
- - artt. 2, 39 comma 1, 40 (in particolare comma 1, lett.
c), 41, 43, 101 cod. proc. amm.;
- - artt.
99, 101, 112 cod. proc. civ.;
- - artt.
1, 2 e 21 l. n. 287/1990;
- - art. 2 d.l. n. 223/2006 conv.
in l. n. 248/2006;
- - artt.14 e 17 l. n. 616/1966;
- - artt. 2229, 2230, 2232, 2233, 2238, 2061 cod. civ.;
- - nonché, quale ius superveniens,
l’art. 9 d.l. n. 1/2012, che abolisce le tariffe
professionali e indica i criteri di determinazione dei compensi professionali.
11. Il presente giudizio viene sospeso nelle more della definizione
dell’incidente comunitario, e ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle
spese, è riservata alla pronuncia definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) non
definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, dispone:
1) a cura della segreteria, la trasmissione degli atti alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea, nei sensi e con le modalità di cui in
motivazione, e con copia degli atti ivi indicati;
2) la sospensione del presente giudizio;
3) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito,
in merito e in ordine alle spese.