CONSULTA ONLINE 

N. 4207/05

Reg. Sent.

N. 10778 Reg. Ric.

ANNO 2004

Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

SENTENZA

sul ricorso n. 10778 del 2004, proposto dalla Società ADMENTA Italia, rappresentata e difesa dagli avv.ti Costantino Tessarolo Nicola Alessandri e Renzo Costi, elettivamente domiciliata presso il primo in Roma, Via Cola di Rienzo 271

contro

FEDERFARMA – Federazione Unitaria dei Titolari di Farmacia Italiani, FEDERFARMA LOMBARDIA – Unione Regionale delle Associazioni Provinciali dei Titolari di Farmacia della Lombardia, ASSOCIAZIONE CHIMICA FARMACEUTICA LOMBARDA FRA TITOLARI DI FARMACIE, Unione Nazionale Consumatori, dr. Wanda Cosco, dr. Paola Umbertini, sig.na Maria Nadia Nigro, tutti rappresentate e difese  dagli avv.ti Agostino Gambino, Lorenzo Acquarone e Massimo Luciani, elettivamente domiciliate   presso il primo in Roma, via dei Tre Orologi 14/

e nei confronti

della Regione Lombardia, non costituita, e

del Comune di Milano, rappresentato e difeso dagli avvocati Elisabetta D’Auria, Maria Rita Surano, Maria Teresa Maffy e  Raffaele Izzo, elettivamente domiciliato nello studio dell’avv. Izzo in Roma via Cicerone 28       

con l’intervento ad adjuvandum di e A.F.M. Azienda Farmacie Municipali di Milano s.p.a., rappresentati e difesi dagli avvocati Mario Golda Perini e Massimo Colarizi, elettivamente domiciliata in Roma via Panama 12      

e

sul ricorso n. 10788 del 2004, proposto dal Comune di Milano, rappresentato e difeso dagli avvocati Elisabetta D’Auria, Maria Rita Surano, Maria Teresa Maffy e  Raffaele Izzo, elettivamente domiciliato nello studio dell’avv. Izzo in Roma via Cicerone 28                 

contro

FEDERFARMA – Federazione Unitaria dei Titolari di Farmacia Italiani, FEDERFARMA LOMBARDIA – Unione Regionale delle Associazioni Provinciali dei Titolari di Farmacia della Lombardia, ASSOCIAZIONE CHINICA FARMACEUTICA LOMBARDA FRA TITOLARI DI FARMACIE, Unione Nazionale Consumatori, dr. Wanda Cosco, dr. Paola Umbertini, sig.na Maria Nadia Nigro, tutti rappresentate e difese  dagli avv.ti Agostino Gambino, Lorenzo Acquarone e Massimo Lucani, elettivamente domiciliate   presso il primo in Roma, via dei Tre Orologi 14/

e nei confronti

della Regione Lombardia e A.F.M. Azienda Farmacie Milano, non costituite, e

della Società ADMENTA Italia, rappresentata e difesa dagli avv.ti Costantino Tessarolo Nicola Alessandri e Renzo Costi, elettivamente domiciliata presso il primo in Roma, Via Cola di Rienzo 271

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Milano, 29 settembre 2004 n. 4195, resa tra le parti.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli  atti di costituzione in giudizio delle parti  appellate;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del  19 aprile 2005 il consigliere Marzio Branca,  e uditi gli avv.ti Tessarolo, Alessandri, Izzo, Surano, D’Auria, Ranieri per delega di Guarino, Acquarone, Luciani, Colarizi, Radicati di Brozolo; 

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO

La Federazione Unitaria dei Titolari di Farmacia Italiani,  FEDERFARMA, con altri soggetti collettivi, come FEDERFARMA Lombardia, l’Unione Italiana Consumatori nonché singoli cittadini, farmacisti e non, titolari e non di farmacia, hanno proposto ricorso e motivi aggiunti dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia per l’annullamento delle sequenza procedimentale con la quale il Comune di Milano, attraverso la trasformazione dell’azienda municipalizzata che gestiva le farmacie di proprietà comunale in società per azioni, e la cessione dell’80%  del pacchetto azionario di quest’ultima,  è pervenuto all’affidamento del controllo della società che gestisce le farmacie comunali alla Gehe Italia  s.p.a., poi Admenta Italia s.p.a..

I ricorrenti,  hanno censurato la procedura anzidetta sotto diversi profili. In particolare, con l’ottavo motivo di ricorso i ricorrenti hanno prospettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991 per contrasto con gli artt. 3 e 32 della costituzione, poiché la norma primaria, pur prevedendo l’incompatibilità tra la gestione societaria delle farmacie private e qualsiasi altra attività nel “settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco”, nulla prevede quanto alle farmacie comunali, per la cui gestione da parte di soggetti societari, appunto, non era indicata alcuna incompatibilità in caso di contemporaneo svolgimento da parte della società affidataria di quelle altre attività, vietate invece per la gestione di farmacie private.

Il TAR ha ritenuto la questione rilevante e non manifestamente infondata e ne ha investito la Corte costituzionale. Il giudice delle leggi, con sentenza 24 luglio 2003 n. 275, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella norma primaria censurata, accogliendo la tesi del giudice a quo.

Dopo la rituale riassunzione del ricorso lo stesso TAR, con la sentenza 29 settembre 2004 n. 4195, respinte tutte le questioni pregiudiziali sollevate dalla parti resistenti, ha anche respinto tutti i motivi di ricorso tranne l’ottavo di cui si è detto. Alla stregua della decisione costituzionale i primi giudici hanno pronunciato l’illegittimità del bando nella parte in cui ha consentito la partecipazione della Admenta Italia alla gara per la scelta del socio della società che avrebbe gestito le farmacie comunali e tutti gli atti conseguenti, compresa la aggiudicazione.

Sia la Società Admenta sia il Comune di Milano hanno presentato separati appelli per la riforma della sentenza, previa  sospensione dell’efficacia.

Federfarma e le altre ricorrenti in primo grado si sono costituite nei due giudizi per resistere al gravame, proponendo altresì appello incidentale per contestare le proposizioni con le quali la sentenza ha respinto le eccezioni pregiudiziali e i motivi di ricorso dal primo al settimo.

Alla camera di consiglio del 25 gennaio 2005 la Sezione ha respinto le domande cautelari.

Entrambe le appellanti, ribadite le difese svolte in primo grado, hanno denunciato il contrasto nella norma modificata dalla Corte costituzionale con i principi del diritto comunitario di cui agli artt. 12, 43, 56 del Trattato di Roma, e  concludono nel senso che, ove sussista il dubbio circa la fondatezza delle riferite contestazioni, la Sezione rimetta agli atti alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato, non senza aver ricordato che – per principio comunemente condiviso – la norma nazionale contrastante con diritto comunitario non richiede di essere deferita per l’annullamento ad una apposita giurisdizione ma deve essere disapplicata dal giudice procedente.

Il tema è stato ulteriormente illustrato dalla appellante Admenta nelle memorie prodotte per l’udienza odierna anche mediante il deposito di un parere pro veritate. Si sottolinea che, a norma dell’art. 234, comma 3, del Trattato, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia è obbligatorio quando una questione di interpretazione sorge dinanzi ad una giurisdizione di ultima istanza.

Inoltre, la Admenta, preso atto del rigetto della domanda cautelare alla camera di consiglio del 25 gennaio scorso, ha ritenuto di riproporre la domanda di sospensione della sentenza, in relazione agli esiti seguiti in sede di Commissione CEE agli esposti presentati dagli odierni appellanti in merito alla vicenda qui in discussione. E’ accaduto infatti che con nota del marzo scorso la Commissione ha invitato il Governo Italiano, a norma dell’art. 226 del Trattato, a presentare osservazioni in merito al possibile contrasto dell’art. 8 delle legge n. 362 del 1991 con gli articoli 43 e 56 del Trattato medesimo. In tal modo, mentre il profilo del danno dovrebbe considerarsi provato, risulterebbe suffragata la sussistenza del fumus boni juris delle doglianze esposte.

A sostegno dei motivi di appello ha esplicato intervento la Azienda Farmacie Milanesi s.p.a..

La parte appellata, che aveva presentato un’ampia memoria per la camera di consiglio del 25 gennaio scorso, ha poi ribadito con nuovo scritto difensivo le proprie tesi per contrastare i motivi di appello e sostenere la sentenza impugnata.

Con appello incidentale Federfarma e gli altri soggetti appellati hanno contestato il rigetto dei motivi di ricorso diversi da quello accolto.

Con riguardo alla nuova istanza di sospensione Federfarma  fa rilevare che nessun fatto nuovo giustificherebbe un capovolgimento dell’orientamento già espresso dalla Sezione con le ordinanze del gennaio scorso, posto che la richiesta di osservazioni al Governo Italiano lascia del tutto impregiudicata, allo stato, la valutazione della Commissione circa la sussistenza del denunciato contrasto con i principi del Trattato.

Alla pubblica udienza del 19 aprile 2005 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. I due appelli, proposti avverso la stessa sentenza, vanno riuniti e decisi congiuntamente, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2.1. In entrambi gli atti una prima e cospicua parte è dedicata alla trattazioni delle eccezioni pregiudiziali, già avanzate nelle difese di primo grado, per contestare le statuizioni negative della sentenza appellata.

Si ribadisce, in primo luogo, con riguardo alla reiterata deduzione di motivi aggiunti, che non sarebbe stata osservata la regola di cui all’art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971 che dispone, per le materie come quella in esame, il dimezzamento dei  termini processuali salvo quelli per la proposizione del ricorso, sicché la deduzione di motivi aggiunti, da configurare come atto processuale diverso dal ricorso, doveva avvenire entro il termine abbreviato.

La giurisprudenza ha affrontato più volte il tema e, sebbene non sempre sia pervenuta a conclusioni omogenee, ha tuttavia individuato un nucleo di principi che induce a confermare l’avviso espresso dal primo giudice nel caso in esame.

Un primo elemento è quello che riguarda il dato testuale di cui all’art. 23 bis, comma 2, della legge n. 1034/1971. L’avviso espresso dall’Adunanza Plenaria 31 maggio 2002 n. 5 circa il valore non tassativo del riferimento al “ricorso” contenuto nella detta disposizione, e la conseguente l’applicabilità del termine ordinario anche alla proposizione del ricorso incidentale, ha incontrato generale consenso, per l’evidente coincidenza della ratio che sorregge, in entrambi i casi la deroga al principio della dimidiazione. L’indirizzo, infatti, è stato confermato con la decisione dell’Adunanza Plenaria 18 marzo 2004 n. 5, in materia di ricorso per regolamento di competenza, così individuando, peraltro, una nuova eccezione alla regola. E neppure può ignorarsi che la dottrina più attenta si sia già espressa in favore di un ulteriore allargamento della deroga con riguardo all’atto di intervento.

Ma all’estensione del criterio derogatorio ai motivi aggiunti si oppone il rilievo che le stesse esigenze di tipo difensivo riscontrate nelle ipotesi suddette non ricorrerebbero per questi ultimi, perché in tal caso l’interessato già dispone di un difensore, cui la controversia è nota, per avere curato l’originaria impugnazione.

L’obiezione non è senza fondamento ma non appare al Collegio decisiva, dovendosi meglio indagare quale delle due contrapposte soluzioni risulti più omogenea ed armonica rispetto al favor per il simultaneus processus accolto dal sistema processuale amministrativo con la introduzione ad opera dall’art.1 della legge n. 205 del 2000 all’art. 21 della legge n. 1034 del 1971, di un tipo di motivi aggiunti nuovo rispetto a quello già noto al diritto processuale amministrativo.

E la novità sta nel fatto che con i motivi aggiunti della legge n. 205/2000 non si adducono  nuove ragioni di illegittimità di un atto già impugnato, ma nuove impugnazioni di provvedimenti sopravvenuti connessi alla vicenda già pendente. Già questo elemento esercita un effetto riduttivo rispetto alla argomentazione, vista più sopra, secondo cui, per queste impugnazioni, non si presenterebbero le medesime difficoltà che giustificano la deroga del termine per la proposizione del ricorso. Se, infatti, si eccettua l’ipotesi dell’atto meramente consequenziale, invalido per illegittimità derivata, la cui impugnazione può essere omessa, in forza del c.d. effetto caducante, l’atto connesso, ma affetto da vizi propri richiede di una attività difensiva del tutto assimilabile a quella tipica del ricorso principale.

Ma rilievo ancor maggiore, in favore della deroga al principio della dimidiazione, assume la circostanza che l’interessato, che non abbia potuto osservare il termine (in ipotesi) dimezzato per proporre i “motivi aggiunti”, ha la facoltà di impugnare il provvedimento sopravvenuto mediante nuovo e autonomo ricorso, così fruendo del più ampio termine ordinario, non senza allegare istanza di riunione dei due procedimenti per conseguire il necessario ampliamento dell’originaria materia del contendere (vedi per l’alternatività dei due percorsi, Cons. St., Sez. IV 22 ottobre 2004 n. 6959). Si ha quindi che il mancato rispetto del termine non produce l’effetto tipico della decadenza dal potere di impugnare, ma apre la via alla proposizione del ricorso ordinario.

Tale svolgimento processuale consente di rilevare che l’imposizione del termine  dimezzato per una impugnazione esperibile mediante motivi aggiunti, se in apparenza soddisfa l’esigenza di celerità,  finisce però  per neutralizzare la finalità di concentrazione che è propria dei motivi aggiunti nella la novella del 2000,  tutte le volte che, a causa dell’inutile  decorso del termine abbreviato, l’interessato dovrà proporre un nuovo ricorso.

La realizzazione del simultaneus processus, infatti, mentre è certa se vengono proposti i motivi aggiunti, è alquanto aleatoria se lo stesso contenzioso si ripartisce in due distinti ricorsi, la trattazione unitaria venendo a dipendere dall’esame e dall’accoglimento dell’istanza di riunione. D’altra parte, il ricorso contro il nuovo atto, accompagnato dall’istanza di riunione, provocherà il rinvio della trattazione del primo gravame, così frustrando l’esigenza di celerità presidiata dalla dimidiazione del termine.

Sembra pertanto preferibile la tesi che, in una considerazione complessiva della questione, e valorizzando la identità sostanziale tra ricorso principale e motivi aggiunti, estende alla proposizione di questi ultimi la deroga alla regola del termine dimezzato, che rappresenta comunque un impedimento all’esercizio del diritto di difesa, seppure non costituzionalmente illegittimo  (Corte cost., n. 427 del 1999, cit), neppure capace di effetti benefici sull’efficienza della giurisdizione.

2.2. L’appellante Admenta censura la sentenza anche per l’affermazione relativa alla sussistenza delle condizioni per la concessione dell’errore scusabile, con riguardo alla mancata osservanza del termine dimezzato, di cui paragrafo precedente.

La censura non appare sorretta da argomenti condivisibili, ove si tenga presente l’ampio esame delle oscillazioni giurisprudenziali sul punto, condotto negli scritti difensivi. Ma valore tranciante assume in proposito la prossimità temporale delle impugnazioni all’emanazione della novella di cui alla legge n. 205 del 2000, in tema di dimezzamenti dei termini processuali nelle materie di cui all’art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971.

2.3. Ancora una eccezione di tardività è stata sollevata in primo grado, assumendo l’inosservanza del termine ordinario, con riguardo all’impugnazione della deliberazione del Consiglio comunale milanese 22 giugno 2000 n. 56, non approvata dall’organo di controllo, e della deliberazione 24 luglio 2000 n. 72, aventi ad oggetto la trasformazione dell’azienda speciale in società per azioni, lo statuto, il contratto di servizio e i criteri per la scelta del socio privato.

I motivi aggiunti recanti l’impugnazione di tali atti sono stati notificati il 14 novembre 2000 e quindi, secondo l’assunto, oltre il termine di 60 giorni, scaduto il 26 ottobre 2000 in quanto decorrente dall’ultimo giorno, 12 luglio 2000, della pubblicazione all’albo pretorio della deliberazione 22 giugno 2000 n. 56.

Il TAR ha disatteso l’eccezione osservando che quest’ultima deliberazione non è mai divenuta efficace e, come tale, benché pubblicata, non era suscettibile di impugnazione in quanto inidonea a ledere un interesse tutelato. Ha  ritenuto, pertanto, che il gravame è stato tempestivamente proposto nel termine decorrente dal giorno successivo all’ultimo di pubblicazione della successiva deliberazione 24 luglio 2000 n. 72, che ha dato notizia della avvenuta approvazione della deliberazione n. 56 da parte dell’O.RE.CO.

Ritiene il Collegio che i primi giudici abbiano fatto corretta applicazione dei principi enunciati dall’Adunanza Plenaria con la fondamentale decisione n. 20 del 1985, costantemente confermata dalla successiva giurisprudenza (Cons. St., Sez. VI, 17 ottobre 1997 n. 1497; Sez. V, 28 gennaio 1997 n. 92; C.G.A. 24 gennaio 2000 n. 3).

Si afferma costantemente, infatti, che nel caso in cui un provvedimento sia sottoposto a controllo e non abbia il carattere della immediata esecutività, la conoscenza piena da parte del soggetto contemplato nell’atto si realizza solo nel momento in cui egli acquista la notizia dell’intervenuto controllo positivo. Nella specie, trattandosi di atto non diretto a soggetti determinati, la notizia del controllo positivo e della conseguente acquisita esecutività poteva realizzarsi solo mediante la pubblicazione dell’atto che recava la relativa notizia, ossia della deliberazione n. 72 del 24 luglio 2000. Il termine per impugnare la deliberazione n. 56 decorreva, dunque, dal giorno successivo all’ultimo di pubblicazione della deliberazione n. 72.

2.4.1. E’ stato proposto in entrambi gli appelli un articolato gruppo di censure avverso le proposizioni della sentenza che hanno respinto le eccezioni di difetto di legittimazione di tutti i ricorrenti ad impugnare la procedura di affidamento della gestione delle farmacie comunali.

Con una prima argomentazione di carattere generale si è rilevato, da parte del Comune di Milano, che la scelta della privatizzazione della gestione delle farmacie comunali non sarebbe suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale, in quanto attinente alla modalità di esercizio del servizio pubblico e come tale rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione.

Si tratta di asserzione non condivisibile.  Il nostro sistema giuridico è fondato sul principio di legalità e sulla soggezione dell’Amministrazione alla legge, e dunque qualunque manifestazione dell’azione amministrativa è passibile del controllo da parte della competente giurisdizione per verificarne la conformità alla normativa, anche sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza.

La censura tuttavia viene specificata denunciando il difetto,  in tutti i ricorrenti, di una posizione soggettiva sostanziale suscettibile di lesione ad opera della procedura impugnata, per i cui ricorrenti erano privi della legittimazione a ricorrere.

2.4.2.Sulla Unione nazionale consumatori italiani si afferma che, pur ammettendo la riconducibilità, tra le finalità statutarie, della tutela degli utenti dei servizi pubblici, ai sensi delle leggi 28 luglio 1998 n. 281 e 7 dicembre 2000 n. 383, la facoltà di promuovere azioni giudiziarie sarebbe circoscritta alle controversie su “singoli rapporti di utenza”.

Al riguardo può sinteticamente affermarsi che la tesi è contraddetta dal disposto delle leggi citate sopra (art. 1 l. n. 281; art. 27 l. n.383), le quali chiariscono come lo scopo delle associazioni degli utenti e dei consumatori sia proprio quello di tutelare gli interessi individuali e collettivi, come anche riconosciuto dalla giurisprudenza con orientamento ormai risalente.

La tutela del diritto alla salute, d’altra parte, è esplicitamente menzionato tra quelli di natura collettiva che possono essere difesi con iniziative giudiziarie dalle associazioni dei consumatori (art. 1 della legge n. 281 del 1998) e l’incidenza negativa sul predetto diritto del contemporaneo svolgimento della distribuzione e della vendita al pubblico nelle farmacie private da parte della medesima società era già attestato dal divieto di cui all’art. 8 della legge n. 362 del 1991.

Ma nei confronti del ricorso dell’Unione nazionale consumatori si avanzano anche motivi di inammissibilità di ordine processuale.

Si assume da parte della appellante Admenta che il detto soggetto non ha sottoscritto i motivi aggiunti notificati il 14 novembre 2000, specificamente dedicati, per la prima volta, all’ottavo motivo di ricorso, concernente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 362 del 1991.

Le parti resistenti replicano che il motivo venne dedotto già con il ricorso principale, e che venne poi meglio specificato ed illustrato con i primi e con i terzi motivi aggiunti. Pare al Collegio che la tematica del conflitto di interessi tra le posizioni qui in discussione non sia stata ignorata nell’atto introduttivo del giudizio, con conseguente infondatezza dell’eccezione.

Altra censura di ordine preliminare attiene alla omessa impugnazione da parte della A..N.C. del provvedimento di aggiudicazione definitiva, facendo leva sull’orientamento giurisprudenziale secondo cui il ricorso contro l’aggiudicazione provvisoria non esonera dalla contestazione della aggiudicazione definitiva.

Al riguardo è da rilevare che la fattispecie qui in esame non coincide con quella presa in considerazione dalla giurisprudenza citata dall’appellante, che afferma la necessità di impugnare la aggiudicazione definitiva sebbene si sia già impugnata l’aggiudicazione provvisoria. Il ricorso contro l’aggiudicazione provvisoria, infatti, è rivolto verso un atto endoprocedimentale, il quale, benché impugnabile se immediatamente lesivo, non può rivestire il valore del provvedimento recante la volontà definitiva dell’Amministrazione, che viene comunque assunto in base ad una nuova valutazione di legittimità della procedura.

Nel caso in esame invece si tratta di stabilire se sussistano i presupposti perché si verifichi il fenomeno della caducazione automatica dell’atto invalido per vizio dell’atto presupposto, con conseguente esonero dall’impugnazione dell’atto successivo.

A tale riguardo la giurisprudenza, in coerenza con i principi appena ricordati in tema di aggiudicazione provvisoria,  afferma che quando l’atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile, perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di terzi soggetti, la immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale. L’impugnazione dell’atto finale, invece, non è necessaria se, impugnato quello presupposto, fra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione – consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti (Cons. St., Sez. VI, 11 febbraio 2002 n. 785, Sez. V, 23 marzo 2004 n. 1519; 11 novembre 2004 n. 7346; 4 maggio 2005 n. 2168). Tale ipotesi ricorre certamente nella vicenda in esame perché l’annullamento del bando di gara non può non travolgere l’aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di quest’ultima non determina l’improcedibilità del ricorso.

2.4.3. E’ stato poi sostenuto il difetto di interesse delle associazioni dei farmacisti (Federfarma nazionale, Federfarma Lombardia,  Associazione chimica farmaceutica lombarda), del singolo farmacista titolare di farmacia privata e di altro farmacista non titolare di farmacia.

Le associazioni di categoria avrebbero fatto valere un interesse commerciale dei propri  iscritti, qualificabile come interesse di mero fatto, posto che la pretesa ad un nuovo bando ed in genere ad un diverso modo di affidamento della gestione delle farmacie comunali risulterebbe del tutto estraneo alla tutela della salute, mentre non sarebbe ammissibile una azione volta ad impedire il libero giuoco della concorrenza.

Ad avviso del Collegio non è seriamente contestabile che i soggetti operanti in un determinato settore economico abbiano interesse a rimuovere, in vista di una rinnovazione più favorevole, le procedure di affidamento di un servizio pubblico rientrante nel medesimo settore economico. E quindi appare arduo sostenere che i farmacisti privati non siano titolari di un interesse differenziato e qualificato, rispetto alla generalità, a contestare gli atti relativi alla privatizzazione della gestione delle farmacie comunali.

E’ sufficiente osservare che lo stesso bando della gara in questione prevedeva la partecipazione alla gara dei farmacisti sotto forma di società per azioni con un determinato capitale sociale, così differenziando la loro posizione e certificandone la legittimazione alla tutela giurisdizionale. L’appellante sembra confondere, in questo caso, la tutela della salute, che viene invocata nelle censure di merito, con la posizione idonea a far valere una pretesa in giudizio.

2.4.4.In tale ordine di idee va anche affermata l’infondatezza della tesi con la quale si è sostenuto, dalla appellante Admenta, che non sussisterebbe la legittimazione al ricorso del singolo farmacista a tutela dell’interesse di vedere modificata la disciplina della partecipazione alla gara, perché la relativa censura (settimo motivo) è stato dichiarata infondata. La reiezione del motivo, che, oltre tutto, costituisce un posterius rispetto al gravame, non può che essere ininfluente sulla sussistenza dell’interesse a proporlo. A tal fine è sufficiente verificare che, attraverso la rimozione dell’assetto degli interessi realizzato con la procedura impugnata, ma anche in esito alla prevedibile partecipazione al successivo procedimento amministrativo rinnovatorio, potrebbe pervenirsi alla eliminazione del pregiudizio sofferto. E’ corretto il rilievo dei primi giudici secondo cui anche il semplice ritorno allo status quo ante può rappresentare un interesse meritevole di tutela del singolo farmacista.

E se questa era la situazione in cui versavano i singoli farmacisti, identica legittimazione potevano vantare le loro associazioni di categoria, in omaggio a comuni principi già ricordati e sui quali non occorre indugiare in questa sede.

Il difetto di presentazione della domanda di partecipazione alla gara non può considerarsi elemento preclusivo dell’impugnazione, posto che la presentazione della domanda, nella specie, si sarebbe risolta in un inutile formalismo a causa delle evidente carenza di un requisito di partecipazione (Cons. St. Sez. V, 11 novembre 2004 n. 7341)

3.1. Entrambi gli appellanti svolgono la censura di merito secondo una linea argomentativa che può così sintetizzarsi.

L’art. 8 della legge n. 362 del 1991 è stato modificato dalla Corte costituzionale che, con una sentenza di tipo additivo, ha inserito nel testo della disposizione preesistente la previsione che la partecipazione a società di gestione di farmacie comunali è incompatibile con qualsiasi altra attività nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco. La norma così introdotta nell’ordinamento positivo italiano si porrebbe in contrasto con alcuni principi del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, e precisamente con gli articoli 12, principio di non discriminazione, 43 libertà di stabilimento e 56 libera circolazione dei capitali.

In virtù del principio di prevalenza e di efficacia diretta del diritto comunitario sul diritto dei paesi membri, il suddetto contrasto dovrebbe essere risolto dal giudice nazionale, nella specie dal Consiglio di Stato, disapplicando la norma interna incompatibile con la norma del Trattato, quindi nella specie, riformando la sentenza appellata e rigettando il ricorso di primo grado.

Ove sussistessero dubbi circa il menzionato contrasto della norma introdotta dalla Corte costituzionale con il Trattato, la Sezione sarebbe tenuta a rimettere gli atti alla Corte di giustizia della Comunità Europea, a norma dell’art. 234, comma 4,  del Trattato medesimo, per la soluzione della relativa questione pregiudiziale.

La tesi impugnatoria è contestata dagli appellati, i quali hanno osservato che l’efficacia diretta del diritto comunitario nell’ordinamento degli Stati membri non è senza limiti, dovendo riconoscersi ad ogni Stato la facoltà di salvaguardare quei diritti che, secondo l’ordinamento interno di ciascuno Stato, sono qualificati come fondamentali. Non sussisterebbe nella specie l’obbligo di disapplicare la norma introdotta dalla sentenza costituzionale perché, secondo la medesima pronuncia,  la nuova incompatibilità costituisce presidio del diritto alla salute che l’art. 32 della Costituzione Italiana qualifica come fondamentale.

In tale ordine di idee non vi sarebbe spazio neppure per il richiesto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato, perché l’eventuale avviso dei Giudici del Lussemburgo di segno favorevole alla illegittimità comunitaria della norma, non potrebbe comunque valicare la barriera innalzata dalla Corte costituzionale italiana, affermando l’essenzialità della modifica introdotta per la salvaguardia del diritto alla salute.       

3.2. La censura proposta muove dall’affermazione del contrasto dell’art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991, come modificato  dalla Corte costituzionale,  con i principi del Trattato CE, e fa leva sull’obbligo del giudice nazionale di disapplicare la norma viziata, in ossequio ai principi comunemente accolti in tema di rapporti tra il diritto della Comunità europea e quello degli Stati membri secondo l’assetto scaturito dalla fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 1984.

Rispetto all’esame della fondatezza della tesi impugnatoria appare pregiudiziale la verifica, richiesta dalla controparte, dell’effettivo ambito di incidenza del diritto comunitario sulle materie che coinvolgono principi e diritti fondamentali secondo l’ordinamento nazionale, e per conseguenza i ruoli rispettivi della Corte di giustizia di Lussemburgo e della Corte costituzionale italiana.  Si tratta, come è evidente di tematiche di notevole ampiezza e complessità, che, in queste sede, potranno essere soltanto richiamate per brevi ed essenziali accenni.

Va detto subito che non è oggetto di discussione il nucleo essenziale della innovazione introdotta dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 170 del 1984. Secondo l’orientamento precedente, espresso nelle sentenze n. 14 del 1964, n. 98 del 1965 e soprattutto n. 183 del 1973, infatti, la Corte si considerava competente a conoscere della eventuale illegittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge di cui si denunciasse il contrasto con norme comunitarie, e la relativa competenza non poteva che svolgersi a seguito della “rimessione” degli atti da parte di un giudice di merito. Con la sentenza n. 170 del 1984, invece, come è largamente noto, i giudici comuni sono stati abilitati ad applicare il diritto comunitario immediatamente e a preferenza delle norme interne che lo contraddicono. Il contrasto non dà più luogo ad una questione di legittimità costituzionale per indiretta violazione dell’art 11 Cost.; la norma nazionale confliggente si ritrae e lascia spazio al diritto di fonte comunitaria. Il principio, inizialmente affermato per i regolamenti comunitari, è stato poi esteso con successive pronunce alle statuizioni contenute in sentenze interpretative  della Corte del Lussenburgo ex art. 177, oggi art. 234 del Trattato (sent. n. 113 del 1985) e delle sentenze di condanna ex art. 169, oggi art 226 (sent. n. 389 del 1989), ed in fine alle direttive c.d. dettagliate (sent. n. 168 del 1991).

Questo assetto del controllo di legittimità delle norme interne in materie disciplinate da fonti comunitarie direttamente applicabili ha determinato una consistente contrazione del contenzioso di diritto comunitario di competenza della Corte costituzionale, essendo ad essa subentrato il sindacato diffuso svolto dai giudici comuni, e quello della stessa Corte del Lussemburgo o in sede di impugnativa diretta o nell’esercizio della funzione interpretativa ex art. 234 del Trattato.

La dottrina costituzionalistica, peraltro, pur dando atto del ridimensionamento delle aree del controllo sulla legittimità delle fonti proprio della Corte costituzionale, è concorde nel negare, sulla base dei dati emergenti dall’ordinamento, che si sia compiuta una completa estromissione della Corte costituzionale dalla gestione del diritto comunitario.

La Corte,  infatti, in primo luogo, conosce dei conflitti tra norma comunitaria e norme interne in tutte le  ipotesi che si pongono fuori del giudizio di costituzionalità in via incidentale. Si tratta dei casi di accesso diretto alla Corte, quali il giudizio di costituzionalità in via principale proposto dallo Stato o da una Regione contro la legge della Regione o  contro la legge dello Stato, il conflitto di attribuzioni nelle diverse ipotesi conosciute, il giudizio sulla ammissibilità del referendum.

Una diversa occasione di intervento, di interesse essenzialmente teorico, è stata individuata dalla stessa Corte nella sent. n. 170 del 1984, citata sopra, ed attiene al caso che siano denunciate, in via incidentale, per violazione dell’art. 11 Cost., norme di “legge statale che si assumono costituzionalmente illegittime in quanto dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema e al nucleo essenziale dei suoi principi”.  

Né va dimenticato quel filone della giurisprudenza costituzionale, noto alla dottrina come afferente alle c.d. discriminazioni a rovescio, che si concretizzano in situazioni di disparità in danno di cittadini o delle imprese italiani che sono effetto indiretto di un più favorevole trattamento stabilito dal diritto comunitario (sentenze n. 249 del 1995, sui lettori di lingua straniera; n. 61 del 1996, sui procuratori legali; n. 447 del 1997 sulla pasta). In tali casi la Corte, in deroga all’autolimitazione delle proprie attribuzioni in favore della disapplicazione di cui alla sent. n. 170 del 1984, sopra ricordata, è stata chiamata a valutare la legittimità costituzionale di norme italiane dalle quali derivi una posizione di svantaggio per il cittadino italiano rispetto alla disciplina delle medesime situazioni fissata dal diritto comunitario.

Concerne in fine l’area comunitaria, ad assume un rilievo centrale  nella presente controversia, quel tipo di competenza che la Corte costituzionale ha costantemente rivendicato, seppure non concretamente esercitato, che riguarda la tutela dei principi e diritti fondamentali del nostro ordinamento nei confronti della Comunità Europea.

La prima affermazione della volontà di non abdicare al ruolo istituzionale di garante del sistema costituzionale si fa risalire alla sent. n. 98 del 1965, con la quale è stata giudicata non contrastante con gli artt. 102 e 113 Cost. l’attribuzione di competenze giurisdizionali ad organi diversi da quelli dello Stato (nella specie, alla Corte di giustizia), purché ciò avvenga “senza pregiudizio del diritto del singolo alla tutela giurisdizionale” perché questo diritto è tra quelli inviolabili dell’uomo “che la Costituzione garantisce all’art. 2.”.

Con espressioni assai più incisive la Corte si è pronunciata nella sent. n. 183 del 1973, già citata, e poi nella sent. n. 170 del 1984, anch’essa citata. Si è osservato, nel primo arresto, che “in base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana. Ed è ovvio che qualora dovesse mai darsi dell’art. 189 una si aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali.”.

Le proposizioni della seconda decisione sono particolarmente significative, perché pronunciate contestualmente alla svolta definitiva in  tema di efficacia diretta del diritto comunitario. La Corte ha avvertito: “le osservazioni fin qui svolte non implicano tuttavia che l’intero settore dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte” che ha già affermato come “la legge di esecuzione del trattato possa andare soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana.”.

Tali fondamentali statuizioni sono state costantemente richiamate dalla Corte in numerose successive pronunce (sentenze nn. 1146 del 1988, 203 del 1989, 232 del 1989, 168 del 1991, 117 del 1994, 509 del 1995, 126 del 1996, 93 del 1997,  73 del 2001). Emblematica tra queste può considerarsi  la sentenza 21 aprile 1989 n. 232 la quale, pur concludendosi con un dispotivo di inammissibilità, svolse un approfondito esame della (in)compatibilità dell’art. 174, comma 2, (ora 231) del Trattato con gli artt 24, 24 e 41 Cost., con riguardo al potere conferito alla Corte di Giustizia di limitare nel tempo gli effetti delle proprie pronunce.

3.3. Così delineato il quadro di riferimento va affrontato il quesito proposta dalla censura, con la quale si chiede di disapplicare (rectius, non applicare, secondo la sottile precisazione operata dalla Corte costituzionale con la sent. n. 168 del 1991) la norma di cui all’art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991, come modificato  dalla Corte costituzionale,  di cui si assume il contrasto con gli artt. 12, 43 e 56 del Trattato, ossia di considerarla tamquam non esset , ovvero, in subordine, operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi del 234, comma 3,  del Trattato.

Osserva in primo luogo il Collegio che nella specie si prospetta il conflitto di una norma dell’ordinamento interno, che disciplina una specifica ipotesi incompatibilità tra lo svolgimento contemporaneo di due diverse attività, con principi generali del Trattato, e non con una normativa di settore emessa dagli organi comunitari competenti. In tale situazione l’ipotesi della “disapplicazione” da parte del giudice nazionale non appare percorribile, per difetto di una disciplina comunitaria direttamente applicabile. Per principio risalente alla ricordata sentenza n. 170 del 1984 della Corte costituzionale, ed in conformità alla sentenza della Corte di Giustizia 9 marzo 1978, in causa 106/77 (c.d. sentenza Simmenthal), infatti, il giudice nazionale è tenuto ad applicare direttamente la normativa comunitaria che regoli la materia in maniera difforme dalla legge nazionale, ma a tale fine non può utilizzarsi il principio generale di non discriminazione, o quello sulla libera circolazione dei capitali. In questo caso si richiede una attività di interpretazione del principio generale enunciato dal Trattato, e di verifica della compatibilità della norma interna con il principio medesimo, che dovrebbe essere devoluto alla  Corte di Giustizia a norma del citato art. 234. In caso contrario il giudice nazionale, anziché risolvere il caso secondo la disciplina comunitaria adottata dagli organi competenti, finirebbe per creare esso stesso la norma mancante, con inammissibile stravolgimento della distinzione e della separazione  tra le fondamentali potestà di creazione e applicazione del diritto.

Né pare possibile, nel caso qui in esame, accedere alla tesi secondo cui il giudice nazionale, che non disponga di una normativa comunitaria direttamente applicabile a preferenza di quella dello Stato membro, potrebbe adottare una interpretazione della norma contestata in senso conforme ai principi del Trattato. Tale soluzione può ammettersi quando la lettura conforme al Trattato sia tra quelle possibili, cioè sia compatibile con il testo della disposizione e non da questo manifestamente impedita.

Ma questo è proprio il caso che ricorre nella fattispecie, poiché la norma inserita nell’art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991, non può che essere interpretata nel senso della incompatibilità del contemporaneo svolgimento delle due attività considerate, e la pretesa disapplicazione del detto precetto non rientrerebbe nel fenomeno della preferenza per la norma comunitaria, che non esiste, ma  equivarrebbe ad una vera e propria abrogazione da parte del giudice, con disapplicazione della sentenza della Corte costituzionale.

Consegue da quanto detto che le argomentazioni delle appellanti volte a dimostrare il contrasto della norma introdotta dalla Corte costituzionale con principi del Trattato non hanno rilievo ai fini della domanda di disapplicazione, dovendo nuovamente rammentarsi che questo potere del giudice scatta in presenza di una disciplina di fonte comunitaria suscettibile di applicazione diretta. L’apprezzamento del detto contrasto compete certamente alla Corte di Giustizia ove ne fosse ritualmente investita.

3.4. Viene quindi in considerazione la domanda, avanzata invero  in termini insolitamente  perentori, di rinvio pregiudiziale della questione alla Corte del Lussemburgo, facendo leva sulla formulazione dell’art. 234, comma 3, del Trattato, che imporrebbe, immancabilmente, il rinvio alla Corte della questione di interpretazione che si ponga dinanzi ad una giurisdizione di ultima istanza quale è innegabilmente il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.

Il Collegio deve osservare che secondo la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia l’obbligo di rinvio della questione proposta davanti ad un giudice nazionale di ultima istanza non è assoluto ed inderogabile. A partire dalla nota sentenza 6 ottobre 1982 in C.283/81 (Cilfit) si è ammesso che l’obbligo di rinvio venga meno quando l’applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciare adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Alla detta a statuizione, conosciuta ormai come teoria dell’atto chiaro, ha fatto seguito nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. sez. lav. 25 ottobre 2002 n. 15105; 23 novembre 2001, n. 14880; sez. I, 7 giungo 2000 n. 7699; 18 febbraio 2000, n. 1804; sez. lav., 1 febbraio 2000 n. 1105; sez. civ. I, 9 maggio 1999 n. 4564; 9 giugno 1998 n. 5673) e del Consiglio di Stato (Sez. VI, 20 ottobre 2004 n. 6884; Sez. IV, 19 giugno 2003 n. 3475; 31 maggio 2003 n. 3047; Sez. VI, 4 ottobre 2002 n. 5255; 1 aprile 2000 n.1885; Sez. V, 23 aprile 1998 n. 478) l’enucleazione di ulteriori casi di esenzione dall’obbligo di rinvio, con riguardo sia alla esistenza di una precedente decisione della Corte comunitaria che abbia già risolto il dubbio interpretativo, sia alla irrilevanza della questione ai fini della definizione della causa.  Più precisamente si è affermato che “i giudici di ultima istanza non sono tenuti a sottoporre alla Corte una questione di interpretazione di norme comunitarie se questa non è pertinente (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull’esito della lite) ..” (Sez. VI, n. 6884/2004, cit).

Nella fattispecie in esame si versa in situazione di irrilevanza della questione interpretativa sollevata dagli appellanti.

Occorre richiamare l’attenzione sulla circostanza che la norma, della quale sarebbe dubbia la compatibilità con alcuni principi del Trattato CE, non scaturisce dalla attività del potere legislativo, ma è il frutto di un giudizio di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 134 della Costituzione. Come è del tutto evidente, la Corte costituzionale ha accertato nella norma rimessa al suo esame il vizio di violazione degli artt. 3 e 32 Cost., e, utilizzando una modalità di intervento ormai acquisita da anni al processo costituzionale, ha imposto al giudice remittente, ed a tutti gli operatori del diritto, quella modificazione additiva ritenuta   idonea ad eliminare il pregiudizio arrecato dal vecchio testo ai diritti fondamentali dell’eguaglianza e della tutela della salute.

Ritiene il Collegio che la matrice costituzionale della norma in questione assuma rilievo decisivo per il problema, che qui si pone, del dovere del giudice procedente di investire la Corte di Giustizia.

Va richiamata la giurisprudenza citata sopra sub 3.2. a proposito della competenza in materia di salvaguardia dei diritti fondamentali cui la Corte costituzionale non ha mai inteso rinunciare neppure a fronte delle limitazioni di sovranità decise dallo Stato con la ratifica del Trattato in applicazione dell’art. 11 Cost.. La posizione della Corte italiana sul punto ha determinato l’elaborazione da parte della  dottrina costituzionalistica della teoria c.d. dei “controlimiti”,  che rappresenta il  naturale svolgimento del modo di intendere il diritto comunitario nel suo rapporto con l’ordinamento interno. Mentre la Corte di Giustizia (sentenza Simmenthal, citata sopra) si è orientata per una impostazione monista di tale rapporto, basata sulla capacità della norma comunitaria di “abrogare” quella dello Stato, come se si fosse verificata una integrazione tra gli ordinamenti, la Corte costituzionale ha seguito inflessibilmente la tesi dualista, fondata sulla separazione tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale: essi, sebbene coordinati e comunicanti, sono ordinamenti autonomi e distinti “secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato” (sent. 170 del 1984, già citata). In altri termini, nelle materie di loro competenza le fonti comunitarie ricevono diretta applicazione nel territorio italiano, rimanendo del tutto estranee al sistema delle fonti interne: la norma comunitaria, quindi, pur non abrogando né modificando né invalidando la norma interna incompatibile, prevale su di essa “se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con una normazione compiuta e immediatamente applicabile” (stessa sentenza). Si è così pervenuti ad una sorta di “armonia tra diversi”, secondo la felice definizione di un illustre  giurista, che ha avuto il pregio di garantire la conservazione del nostro ordinamento e con esso della sovranità statale, che, lungi dall’essere assorbita all’interno di una sovranità superiore, risulta essere soltanto limitata, ai sensi dell’art. 11 Cost.. In tal modo è stato, ed è, concepibile conservare  uno spazio giuridico statale del tutto sottratto all’influenza del diritto comunitario, uno spazio nel quale lo Stato continua ad essere interamente sovrano, vale a dire indipendente, e perciò libero di disporre della proprie fonti normative. E’ appunto l’area dei diritti fondamentali, la cui tutela funge da insopprimibile “controlimite” alle limitazioni spontaneamente accettate con il Trattato.

Ad avviso del Collegio, in questo contesto si deve collocare la sentenza costituzionale n. 257 del 2003, secondo cui è indispensabile alla  tutela di un diritto fondamentale dell’ordinamento, il diritto alla salute, la indicata modificazione dell’art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991. La Corte infatti  è intervenuta in un’area riservata alla sua giurisdizione che non è stata intaccata dal trasferimento a favore della Corte di Giustizia delle competenze interpretative sul Trattato CEE, e pertanto rimane insensibile al paventato contrasto della modifica introdotta con principi comunitari.

Potrebbe obiettarsi  che la Corte costituzionale non ha preso in esame il problema del possibile conflitto tra la modifica introdotta e il Trattato, e che, pertanto, il quesito proposto dagli appellanti attende ancora la soluzione da parte dall’Autorità comunitaria competente, e ad essa deve essere rimesso.

A tale riguardo il Collegio non ha motivo di pronunciarsi sulla possibilità che si svolga  nel futuro,  anche prossimo, un giudizio della Corte di giustizia sulla compatibilità della norma italiana con il Trattato, a seguito dell’esercizio delle competenze proprie degli organi comunitari. Ritiene invece non consentito che il giudice nazionale in presenza di una statuizione della Corte costituzionale che lo vincola alla applicazione della norma appositamente modificata in funzione della tutela di un diritto fondamentale, possa prospettare alla Corte del Lussemburgo un quesito pregiudiziale della cui soluzione non potrà comunque tenere conto, perché assorbita dalla decisione della Corte italiana, incidente  nell’area della tutela dei diritti ad essa riservata.

Il Collegio non ignora la tendenza invalsa nel diritto comunitario, e nella giurisprudenza della Corte del Lussemburgo, specie dopo la firma del Trattato di Nizza, ad assicurare la salvaguardia dei diritti soggettivi in ambiti sempre più ampi, anche estranei alla vocazione prettamente economica che ha caratterizzato le origini e una larga parte della storia della Comunità e ora dell’Unione. Non è controverso, tuttavia, che si tratti ancora di manifestazioni di valenza quasi sperimentale della aspirazione ad una unione più stretta tra i Paesi membri, che però  allo stato non hanno assunto un significato giuridico vincolante, tale da determinare il superamento delle sovranità nazionali e delle loro prerogative costituzionali.

In conclusione gli appelli debbono essere rigettati.

Sussistono valide ragioni per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta,    rigetta gli appelli in epigrafe, previamente riuniti;

dispone la compensazione delle spese;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella  camera di consiglio del 19 aprile 2005 con l'intervento dei magistrati:

Raffaele Iannotta                 Presidente

Giuseppe Farina                   Consigliere

Aldo Fera                              Consigliere

Claudio    Marchitiello         Consigliere

Marzio Branca                      Consigliere est.

 

L'ESTENSORE                                     IL PRESIDENTE

F.to Marzio Branca                      F.to Raffaele Iannotta

 

IL SEGRETARIO

F.to Agatina Maria Vilardo

(depositata in segreteria l’8 agosto 2005)