N. 4207/05
Reg. Sent.
N. 10778 Reg. Ric.
ANNO 2004
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
SENTENZA
sul ricorso n. 10778 del 2004, proposto dalla Società ADMENTA Italia, rappresentata e difesa dagli avv.ti Costantino Tessarolo Nicola Alessandri e Renzo Costi, elettivamente domiciliata presso il
primo in Roma, Via Cola di Rienzo 271
contro
FEDERFARMA – Federazione Unitaria dei Titolari di
Farmacia Italiani, FEDERFARMA LOMBARDIA – Unione Regionale delle Associazioni
Provinciali dei Titolari di Farmacia della Lombardia, ASSOCIAZIONE CHIMICA
FARMACEUTICA LOMBARDA FRA TITOLARI DI FARMACIE,
Unione Nazionale Consumatori, dr. Wanda Cosco, dr.
Paola Umbertini, sig.na Maria Nadia Nigro, tutti rappresentate e difese dagli avv.ti Agostino Gambino, Lorenzo Acquarone e
Massimo Luciani, elettivamente domiciliate presso il primo in Roma, via dei Tre Orologi 14/
e nei confronti
della Regione Lombardia, non costituita, e
del Comune di Milano, rappresentato e difeso dagli
avvocati Elisabetta D’Auria, Maria Rita Surano, Maria Teresa Maffy e Raffaele Izzo, elettivamente domiciliato
nello studio dell’avv. Izzo in Roma via Cicerone 28
con l’intervento ad adjuvandum
di e A.F.M. Azienda Farmacie Municipali di Milano
s.p.a., rappresentati e difesi dagli avvocati Mario Golda
Perini e Massimo Colarizi,
elettivamente domiciliata in Roma via Panama 12
e
sul ricorso
n. 10788 del 2004, proposto dal Comune di Milano, rappresentato e difeso
dagli avvocati Elisabetta D’Auria, Maria Rita Surano, Maria Teresa Maffy e Raffaele Izzo, elettivamente domiciliato
nello studio dell’avv. Izzo in Roma via Cicerone 28
contro
FEDERFARMA – Federazione Unitaria dei Titolari di
Farmacia Italiani, FEDERFARMA LOMBARDIA – Unione Regionale delle Associazioni
Provinciali dei Titolari di Farmacia della Lombardia, ASSOCIAZIONE CHINICA
FARMACEUTICA LOMBARDA FRA TITOLARI DI FARMACIE,
Unione Nazionale Consumatori, dr. Wanda Cosco, dr.
Paola Umbertini, sig.na Maria Nadia Nigro, tutti rappresentate e difese dagli avv.ti Agostino Gambino, Lorenzo Acquarone e
Massimo Lucani, elettivamente domiciliate presso il primo in Roma, via dei Tre Orologi 14/
e nei confronti
della Regione Lombardia e A.F.M.
Azienda Farmacie Milano, non costituite, e
della Società ADMENTA Italia, rappresentata e difesa dagli avv.ti Costantino Tessarolo Nicola Alessandri e Renzo Costi, elettivamente domiciliata presso il
primo in Roma, Via Cola di Rienzo 271
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo
Regionale per la Lombardia, Milano, 29 settembre 2004 n. 4195, resa tra le parti.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio
delle parti appellate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno
delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del 19 aprile 2005 il consigliere Marzio
Branca, e uditi gli avv.ti Tessarolo, Alessandri, Izzo, Surano, D’Auria, Ranieri per
delega di Guarino, Acquarone,
Luciani, Colarizi, Radicati
di Brozolo;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto
segue.
FATTO
La Federazione Unitaria dei Titolari di Farmacia
Italiani, FEDERFARMA, con altri soggetti
collettivi, come FEDERFARMA Lombardia, l’Unione Italiana Consumatori nonché
singoli cittadini, farmacisti e non, titolari e non di farmacia, hanno proposto
ricorso e motivi aggiunti dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia per l’annullamento delle sequenza procedimentale con la quale il
Comune di Milano, attraverso la trasformazione dell’azienda municipalizzata che
gestiva le farmacie di proprietà comunale in società per azioni, e la cessione
dell’80% del pacchetto azionario di
quest’ultima, è pervenuto
all’affidamento del controllo della società che gestisce le farmacie comunali
alla Gehe Italia
s.p.a., poi Admenta Italia s.p.a..
I ricorrenti,
hanno censurato la procedura anzidetta sotto diversi profili. In
particolare, con l’ottavo motivo di ricorso i ricorrenti hanno prospettato la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lett. a) della
legge n. 362 del 1991 per contrasto con gli artt. 3 e 32 della costituzione,
poiché la norma primaria, pur prevedendo l’incompatibilità tra la gestione
societaria delle farmacie private e qualsiasi altra attività nel “settore della produzione, distribuzione,
intermediazione e informazione scientifica del farmaco”, nulla prevede quanto
alle farmacie comunali, per la cui gestione da parte di soggetti societari,
appunto, non era indicata alcuna incompatibilità in caso di contemporaneo
svolgimento da parte della società affidataria di quelle altre attività,
vietate invece per la gestione di farmacie private.
Il TAR
ha ritenuto la questione rilevante e non manifestamente infondata e ne ha
investito la Corte costituzionale. Il giudice delle leggi, con sentenza 24
luglio 2003 n. 275, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella norma
primaria censurata, accogliendo la tesi del giudice a quo.
Dopo
la rituale riassunzione del ricorso lo stesso TAR, con la sentenza 29 settembre
2004 n. 4195, respinte tutte le questioni pregiudiziali sollevate dalla parti
resistenti, ha anche respinto tutti i motivi di ricorso tranne l’ottavo di cui
si è detto. Alla stregua della decisione costituzionale i primi giudici hanno
pronunciato l’illegittimità del bando nella parte in cui ha consentito la
partecipazione della Admenta Italia alla gara per la
scelta del socio della società che avrebbe gestito le farmacie comunali e tutti
gli atti conseguenti, compresa la aggiudicazione.
Sia la
Società Admenta sia il Comune di Milano hanno
presentato separati appelli per la riforma della sentenza, previa sospensione dell’efficacia.
Federfarma
e le altre ricorrenti in primo grado si sono costituite nei due giudizi per
resistere al gravame, proponendo altresì appello incidentale per contestare le
proposizioni con le quali la sentenza ha respinto le eccezioni pregiudiziali e
i motivi di ricorso dal primo al settimo.
Alla
camera di consiglio del 25 gennaio 2005 la Sezione ha respinto le domande
cautelari.
Entrambe
le appellanti, ribadite le difese svolte in primo grado, hanno denunciato il
contrasto nella norma modificata dalla Corte costituzionale con i principi del
diritto comunitario di cui agli artt. 12, 43, 56 del Trattato di Roma, e concludono nel senso che, ove sussista il
dubbio circa la fondatezza delle riferite contestazioni, la Sezione rimetta
agli atti alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato, non
senza aver ricordato che – per principio comunemente condiviso – la norma
nazionale contrastante con diritto comunitario non richiede di essere deferita
per l’annullamento ad una apposita giurisdizione ma deve essere disapplicata
dal giudice procedente.
Il
tema è stato ulteriormente illustrato dalla appellante Admenta
nelle memorie prodotte per l’udienza odierna anche mediante il deposito di un
parere pro veritate.
Si sottolinea che, a norma dell’art. 234, comma 3, del Trattato, il rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia è obbligatorio quando una questione di
interpretazione sorge dinanzi ad una giurisdizione di ultima istanza.
Inoltre,
la Admenta, preso atto del rigetto della domanda
cautelare alla camera di consiglio del 25 gennaio scorso, ha ritenuto di
riproporre la domanda di sospensione della sentenza, in relazione agli esiti
seguiti in sede di Commissione CEE agli esposti presentati dagli odierni
appellanti in merito alla vicenda qui in discussione. E’ accaduto infatti che
con nota del marzo scorso la Commissione ha invitato il Governo Italiano, a
norma dell’art. 226 del Trattato, a presentare osservazioni in merito al
possibile contrasto dell’art. 8 delle legge n. 362 del 1991 con gli articoli 43
e 56 del Trattato medesimo. In tal modo, mentre il profilo del danno dovrebbe
considerarsi provato, risulterebbe suffragata la sussistenza del fumus boni juris delle doglianze esposte.
A
sostegno dei motivi di appello ha esplicato intervento la Azienda Farmacie
Milanesi s.p.a..
La
parte appellata, che aveva presentato un’ampia memoria per la camera di
consiglio del 25 gennaio scorso, ha poi ribadito con nuovo scritto difensivo le
proprie tesi per contrastare i motivi di appello e sostenere la sentenza
impugnata.
Con
appello incidentale Federfarma e gli altri soggetti
appellati hanno contestato il rigetto dei motivi di ricorso diversi da quello
accolto.
Con
riguardo alla nuova istanza di sospensione Federfarma fa rilevare che nessun fatto nuovo
giustificherebbe un capovolgimento dell’orientamento già espresso dalla Sezione
con le ordinanze del gennaio scorso, posto che la richiesta di osservazioni al
Governo Italiano lascia del tutto impregiudicata, allo stato, la valutazione
della Commissione circa la sussistenza del denunciato contrasto con i principi
del Trattato.
Alla pubblica udienza del 19 aprile 2005 la causa veniva trattenuta in
decisione.
DIRITTO
1. I
due appelli, proposti avverso la stessa sentenza, vanno riuniti e decisi
congiuntamente, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
2.1.
In entrambi gli atti una prima e cospicua parte è dedicata alla trattazioni
delle eccezioni pregiudiziali, già avanzate nelle difese di primo grado, per
contestare le statuizioni negative della sentenza appellata.
Si
ribadisce, in primo luogo, con riguardo alla reiterata deduzione di motivi
aggiunti, che non sarebbe stata osservata la regola di cui all’art. 23 bis
della legge n. 1034 del 1971 che dispone, per le materie come quella in esame,
il dimezzamento dei termini processuali
salvo quelli per la proposizione del ricorso, sicché la deduzione di motivi
aggiunti, da configurare come atto processuale diverso dal ricorso, doveva avvenire
entro il termine abbreviato.
La
giurisprudenza ha affrontato più volte il tema e, sebbene non sempre sia
pervenuta a conclusioni omogenee, ha tuttavia individuato un nucleo di principi
che induce a confermare l’avviso espresso dal primo giudice nel caso in esame.
Un
primo elemento è quello che riguarda il dato testuale di cui all’art. 23 bis,
comma 2, della legge n. 1034/1971. L’avviso espresso dall’Adunanza Plenaria 31
maggio 2002 n. 5 circa il valore non tassativo del riferimento al “ricorso”
contenuto nella detta disposizione, e la conseguente l’applicabilità del
termine ordinario anche alla proposizione del ricorso incidentale, ha
incontrato generale consenso, per l’evidente coincidenza della ratio che
sorregge, in entrambi i casi la deroga al principio della dimidiazione.
L’indirizzo, infatti, è stato confermato con la decisione dell’Adunanza
Plenaria 18 marzo 2004 n. 5, in materia di ricorso per regolamento di
competenza, così individuando, peraltro, una nuova eccezione alla regola. E
neppure può ignorarsi che la dottrina più attenta si sia già espressa in favore
di un ulteriore allargamento della deroga con riguardo all’atto di intervento.
Ma
all’estensione del criterio derogatorio ai motivi aggiunti si oppone il rilievo
che le stesse esigenze di tipo difensivo riscontrate nelle ipotesi suddette non
ricorrerebbero per questi ultimi, perché in tal caso l’interessato già dispone
di un difensore, cui la controversia è nota, per avere curato l’originaria
impugnazione.
L’obiezione
non è senza fondamento ma non appare al Collegio decisiva, dovendosi meglio
indagare quale delle due contrapposte soluzioni risulti più omogenea ed
armonica rispetto al favor per il simultaneus processus
accolto dal sistema processuale amministrativo con la introduzione ad opera
dall’art.1 della legge n. 205 del 2000 all’art. 21 della legge n. 1034 del
1971, di un tipo di motivi aggiunti nuovo rispetto a quello già noto al diritto
processuale amministrativo.
E la
novità sta nel fatto che con i motivi aggiunti della legge n. 205/2000 non si
adducono nuove ragioni di illegittimità
di un atto già impugnato, ma nuove impugnazioni di provvedimenti sopravvenuti
connessi alla vicenda già pendente. Già questo elemento esercita un effetto
riduttivo rispetto alla argomentazione, vista più sopra, secondo cui, per
queste impugnazioni, non si presenterebbero le medesime difficoltà che
giustificano la deroga del termine per la proposizione del ricorso. Se,
infatti, si eccettua l’ipotesi dell’atto meramente consequenziale, invalido per
illegittimità derivata, la cui impugnazione può essere omessa, in forza del
c.d. effetto caducante, l’atto connesso, ma affetto
da vizi propri richiede di una attività difensiva del tutto assimilabile a
quella tipica del ricorso principale.
Ma
rilievo ancor maggiore, in favore della deroga al principio della dimidiazione, assume la circostanza che l’interessato, che
non abbia potuto osservare il termine (in ipotesi) dimezzato per proporre i
“motivi aggiunti”, ha la facoltà di impugnare il provvedimento sopravvenuto
mediante nuovo e autonomo ricorso, così fruendo del più ampio termine
ordinario, non senza allegare istanza di riunione dei due procedimenti per
conseguire il necessario ampliamento dell’originaria materia del contendere
(vedi per l’alternatività dei due percorsi, Cons.
St., Sez. IV 22 ottobre 2004 n. 6959). Si ha quindi che il mancato rispetto del
termine non produce l’effetto tipico della decadenza dal potere di impugnare,
ma apre la via alla proposizione del ricorso ordinario.
Tale
svolgimento processuale consente di rilevare che l’imposizione del termine dimezzato per una impugnazione esperibile
mediante motivi aggiunti, se in apparenza soddisfa l’esigenza di celerità, finisce però
per neutralizzare la finalità di concentrazione che è propria dei motivi
aggiunti nella la novella del
2000, tutte le volte che, a causa
dell’inutile decorso del termine
abbreviato, l’interessato dovrà proporre un nuovo ricorso.
La
realizzazione del simultaneus processus,
infatti, mentre è certa se vengono proposti i motivi aggiunti, è alquanto
aleatoria se lo stesso contenzioso si ripartisce in due distinti ricorsi, la
trattazione unitaria venendo a dipendere dall’esame e dall’accoglimento
dell’istanza di riunione. D’altra parte, il ricorso contro il nuovo atto,
accompagnato dall’istanza di riunione, provocherà il rinvio della trattazione
del primo gravame, così frustrando l’esigenza di celerità presidiata dalla dimidiazione del termine.
Sembra
pertanto preferibile la tesi che, in una considerazione complessiva della
questione, e valorizzando la identità sostanziale tra ricorso principale e
motivi aggiunti, estende alla proposizione di questi ultimi la deroga alla
regola del termine dimezzato, che rappresenta comunque un impedimento
all’esercizio del diritto di difesa, seppure non costituzionalmente
illegittimo (Corte cost., n. 427 del
1999, cit), neppure capace di effetti benefici
sull’efficienza della giurisdizione.
2.2.
L’appellante Admenta censura la sentenza anche per
l’affermazione relativa alla sussistenza delle condizioni per la concessione
dell’errore scusabile, con riguardo alla mancata osservanza del termine
dimezzato, di cui paragrafo precedente.
La
censura non appare sorretta da argomenti condivisibili, ove si tenga presente
l’ampio esame delle oscillazioni giurisprudenziali sul punto, condotto negli
scritti difensivi. Ma valore tranciante assume in proposito la prossimità
temporale delle impugnazioni all’emanazione della novella di cui alla legge n. 205 del 2000, in tema di dimezzamenti
dei termini processuali nelle materie di cui all’art. 23 bis della legge n.
1034 del 1971.
2.3.
Ancora una eccezione di tardività è stata sollevata in primo grado, assumendo
l’inosservanza del termine ordinario, con riguardo all’impugnazione della
deliberazione del Consiglio comunale milanese 22 giugno 2000 n. 56, non
approvata dall’organo di controllo, e della deliberazione 24 luglio 2000 n. 72,
aventi ad oggetto la trasformazione dell’azienda speciale in società per
azioni, lo statuto, il contratto di servizio e i criteri per la scelta del
socio privato.
I
motivi aggiunti recanti l’impugnazione di tali atti sono stati notificati il 14
novembre 2000 e quindi, secondo l’assunto, oltre il termine di 60 giorni, scaduto
il 26 ottobre 2000 in quanto decorrente dall’ultimo giorno, 12 luglio 2000,
della pubblicazione all’albo pretorio della deliberazione 22 giugno 2000 n. 56.
Il TAR ha disatteso l’eccezione osservando che
quest’ultima deliberazione non è mai divenuta efficace e, come tale, benché
pubblicata, non era suscettibile di impugnazione in quanto inidonea a ledere un
interesse tutelato. Ha ritenuto,
pertanto, che il gravame è stato tempestivamente proposto nel termine decorrente
dal giorno successivo all’ultimo di pubblicazione della successiva
deliberazione 24 luglio 2000 n. 72, che ha dato notizia della avvenuta
approvazione della deliberazione n. 56 da parte dell’O.RE.CO.
Ritiene il Collegio che i primi giudici abbiano
fatto corretta applicazione dei principi enunciati dall’Adunanza Plenaria con
la fondamentale decisione n. 20 del 1985, costantemente confermata dalla
successiva giurisprudenza (Cons. St., Sez. VI, 17
ottobre 1997 n. 1497; Sez. V, 28 gennaio 1997 n. 92; C.G.A.
24 gennaio 2000 n. 3).
Si afferma costantemente, infatti, che nel caso in
cui un provvedimento sia sottoposto a controllo e non abbia il carattere della
immediata esecutività, la conoscenza piena da parte del soggetto contemplato
nell’atto si realizza solo nel momento in cui egli acquista la notizia
dell’intervenuto controllo positivo. Nella specie, trattandosi di atto non
diretto a soggetti determinati, la notizia del controllo positivo e della
conseguente acquisita esecutività poteva realizzarsi solo mediante la
pubblicazione dell’atto che recava la relativa notizia, ossia della
deliberazione n. 72 del 24 luglio 2000. Il termine per impugnare la
deliberazione n. 56 decorreva, dunque, dal giorno successivo all’ultimo di
pubblicazione della deliberazione n. 72.
2.4.1. E’ stato proposto in entrambi gli appelli un
articolato gruppo di censure avverso le proposizioni della sentenza che hanno
respinto le eccezioni di difetto di legittimazione di tutti i ricorrenti ad
impugnare la procedura di affidamento della gestione delle farmacie comunali.
Con una prima argomentazione di carattere generale
si è rilevato, da parte del Comune di Milano, che la scelta della
privatizzazione della gestione delle farmacie comunali non sarebbe suscettibile
di sindacato in sede giurisdizionale, in quanto attinente alla modalità di
esercizio del servizio pubblico e come tale rimessa alla discrezionalità
dell’Amministrazione.
Si tratta di asserzione non condivisibile. Il nostro sistema giuridico è fondato sul
principio di legalità e sulla soggezione dell’Amministrazione alla legge, e
dunque qualunque manifestazione dell’azione amministrativa è passibile del
controllo da parte della competente giurisdizione per verificarne la conformità
alla normativa, anche sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza.
La censura tuttavia viene specificata denunciando il
difetto, in tutti i ricorrenti, di una
posizione soggettiva sostanziale suscettibile di lesione ad opera della
procedura impugnata, per i cui ricorrenti erano privi della legittimazione a
ricorrere.
2.4.2.Sulla Unione nazionale consumatori italiani si
afferma che, pur ammettendo la riconducibilità, tra le finalità statutarie,
della tutela degli utenti dei servizi pubblici, ai sensi delle leggi 28 luglio
1998 n. 281 e 7 dicembre 2000 n. 383, la facoltà di promuovere azioni
giudiziarie sarebbe circoscritta alle controversie su “singoli rapporti di
utenza”.
Al riguardo può sinteticamente affermarsi che la
tesi è contraddetta dal disposto delle leggi citate sopra (art. 1 l. n. 281;
art. 27 l. n.383), le quali chiariscono come lo scopo delle associazioni degli
utenti e dei consumatori sia proprio quello di tutelare gli interessi
individuali e collettivi, come anche riconosciuto dalla giurisprudenza con
orientamento ormai risalente.
La tutela del diritto alla salute, d’altra parte, è
esplicitamente menzionato tra quelli di natura collettiva che possono essere
difesi con iniziative giudiziarie dalle associazioni dei consumatori (art. 1
della legge n. 281 del 1998) e l’incidenza negativa sul predetto diritto del
contemporaneo svolgimento della distribuzione e della vendita al pubblico nelle
farmacie private da parte della medesima società era già attestato dal divieto
di cui all’art. 8 della legge n. 362 del 1991.
Ma nei confronti del ricorso dell’Unione nazionale
consumatori si avanzano anche motivi di inammissibilità di ordine processuale.
Si assume da parte della appellante Admenta che il detto soggetto non ha sottoscritto i motivi
aggiunti notificati il 14 novembre 2000, specificamente dedicati, per la prima
volta, all’ottavo motivo di ricorso, concernente la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 8 della legge n. 362 del 1991.
Le parti resistenti replicano che il motivo venne
dedotto già con il ricorso principale, e che venne poi meglio specificato ed
illustrato con i primi e con i terzi motivi aggiunti. Pare al Collegio che la
tematica del conflitto di interessi tra le posizioni qui in discussione non sia
stata ignorata nell’atto introduttivo del giudizio, con conseguente
infondatezza dell’eccezione.
Altra censura di ordine preliminare attiene alla
omessa impugnazione da parte della A..N.C. del provvedimento di aggiudicazione
definitiva, facendo leva sull’orientamento giurisprudenziale secondo cui il
ricorso contro l’aggiudicazione provvisoria non esonera dalla contestazione
della aggiudicazione definitiva.
Al riguardo è da rilevare che la fattispecie qui in
esame non coincide con quella presa in considerazione dalla giurisprudenza
citata dall’appellante, che afferma la necessità di impugnare la aggiudicazione
definitiva sebbene si sia già impugnata l’aggiudicazione provvisoria. Il
ricorso contro l’aggiudicazione provvisoria, infatti, è rivolto verso un atto endoprocedimentale, il quale, benché impugnabile se
immediatamente lesivo, non può rivestire il valore del provvedimento recante la
volontà definitiva dell’Amministrazione, che viene comunque assunto in base ad
una nuova valutazione di legittimità della procedura.
Nel caso in esame invece si tratta di stabilire se
sussistano i presupposti perché si verifichi il fenomeno della caducazione automatica dell’atto invalido per vizio
dell’atto presupposto, con conseguente esonero dall’impugnazione dell’atto
successivo.
A tale riguardo la giurisprudenza, in coerenza con i
principi appena ricordati in tema di aggiudicazione provvisoria, afferma che quando l’atto finale, pur facendo
parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto
preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile, perché la sua
adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di terzi
soggetti, la immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la
necessità di impugnare l’atto finale. L’impugnazione dell’atto finale, invece,
non è necessaria se, impugnato quello presupposto, fra i due atti vi sia un
rapporto di presupposizione – consequenzialità immediata, diretta e necessaria,
nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello
precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né
del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti (Cons. St., Sez. VI, 11 febbraio 2002 n. 785, Sez. V, 23 marzo 2004 n. 1519;
11 novembre 2004 n. 7346; 4 maggio 2005 n. 2168). Tale ipotesi ricorre
certamente nella vicenda in esame perché l’annullamento del bando di gara non
può non travolgere l’aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di
quest’ultima non determina l’improcedibilità del ricorso.
2.4.3. E’ stato poi sostenuto il difetto di
interesse delle associazioni dei farmacisti (Federfarma
nazionale, Federfarma Lombardia, Associazione chimica farmaceutica lombarda),
del singolo farmacista titolare di farmacia privata e di altro farmacista non
titolare di farmacia.
Le associazioni di categoria avrebbero fatto valere
un interesse commerciale dei propri
iscritti, qualificabile come interesse di mero fatto, posto che la
pretesa ad un nuovo bando ed in genere ad un diverso modo di affidamento della
gestione delle farmacie comunali risulterebbe del tutto estraneo alla tutela
della salute, mentre non sarebbe ammissibile una azione volta ad impedire il
libero giuoco della concorrenza.
Ad avviso del Collegio non è seriamente contestabile
che i soggetti operanti in un determinato settore economico abbiano interesse a
rimuovere, in vista di una rinnovazione più favorevole, le procedure di
affidamento di un servizio pubblico rientrante nel medesimo settore economico.
E quindi appare arduo sostenere che i farmacisti privati non siano titolari di
un interesse differenziato e qualificato, rispetto alla generalità, a
contestare gli atti relativi alla privatizzazione della gestione delle farmacie
comunali.
E’ sufficiente osservare che lo stesso bando della
gara in questione prevedeva la partecipazione alla gara dei farmacisti sotto
forma di società per azioni con un determinato capitale sociale, così
differenziando la loro posizione e certificandone la legittimazione alla tutela
giurisdizionale. L’appellante sembra confondere, in questo caso, la tutela
della salute, che viene invocata nelle censure di merito, con la posizione
idonea a far valere una pretesa in giudizio.
2.4.4.In tale ordine di idee va anche affermata
l’infondatezza della tesi con la quale si è sostenuto, dalla appellante Admenta, che non sussisterebbe la legittimazione al ricorso
del singolo farmacista a tutela dell’interesse di vedere modificata la
disciplina della partecipazione alla gara, perché la relativa censura (settimo
motivo) è stato dichiarata infondata. La reiezione del motivo, che, oltre
tutto, costituisce un posterius
rispetto al gravame, non può che essere ininfluente sulla sussistenza
dell’interesse a proporlo. A tal fine è sufficiente verificare che, attraverso
la rimozione dell’assetto degli interessi realizzato con la procedura
impugnata, ma anche in esito alla prevedibile partecipazione al successivo
procedimento amministrativo rinnovatorio, potrebbe
pervenirsi alla eliminazione del pregiudizio sofferto. E’ corretto il rilievo
dei primi giudici secondo cui anche il semplice ritorno allo status quo ante può rappresentare un
interesse meritevole di tutela del singolo farmacista.
E se questa era la situazione in cui versavano i
singoli farmacisti, identica legittimazione potevano vantare le loro
associazioni di categoria, in omaggio a comuni principi già ricordati e sui quali
non occorre indugiare in questa sede.
Il difetto di presentazione della domanda di
partecipazione alla gara non può considerarsi elemento preclusivo
dell’impugnazione, posto che la presentazione della domanda, nella specie, si
sarebbe risolta in un inutile formalismo a causa delle evidente carenza di un
requisito di partecipazione (Cons. St. Sez. V, 11 novembre 2004 n. 7341)
3.1. Entrambi gli appellanti svolgono la censura di
merito secondo una linea argomentativa che può così sintetizzarsi.
L’art. 8 della legge n. 362 del 1991 è stato modificato dalla Corte costituzionale che, con una sentenza di
tipo additivo, ha inserito nel testo della disposizione preesistente la
previsione che la partecipazione a società di gestione di farmacie comunali è
incompatibile con qualsiasi altra attività nel settore della produzione,
distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco. La norma
così introdotta nell’ordinamento positivo italiano si porrebbe in contrasto con
alcuni principi del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, e precisamente con gli articoli 12, principio di non discriminazione,
43 libertà di stabilimento e 56 libera circolazione dei capitali.
In virtù del principio di prevalenza e di efficacia
diretta del diritto comunitario sul diritto dei paesi membri, il suddetto
contrasto dovrebbe essere risolto dal giudice nazionale, nella specie dal
Consiglio di Stato, disapplicando la norma interna incompatibile con la norma
del Trattato, quindi nella specie, riformando la sentenza appellata e
rigettando il ricorso di primo grado.
Ove sussistessero dubbi circa il menzionato
contrasto della norma introdotta dalla Corte costituzionale con il Trattato, la
Sezione sarebbe tenuta a rimettere gli atti alla Corte di giustizia della
Comunità Europea, a norma dell’art. 234, comma 4, del Trattato medesimo, per la soluzione della
relativa questione pregiudiziale.
La tesi impugnatoria è
contestata dagli appellati, i quali hanno osservato che l’efficacia diretta del
diritto comunitario nell’ordinamento degli Stati membri non è senza limiti,
dovendo riconoscersi ad ogni Stato la facoltà di salvaguardare quei diritti
che, secondo l’ordinamento interno di ciascuno Stato, sono qualificati come
fondamentali. Non sussisterebbe nella specie l’obbligo di disapplicare la norma
introdotta dalla sentenza costituzionale perché, secondo la medesima
pronuncia, la nuova incompatibilità
costituisce presidio del diritto alla salute che l’art. 32 della Costituzione
Italiana qualifica come fondamentale.
In tale ordine di idee non vi sarebbe spazio neppure
per il richiesto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi
dell’art. 234 del Trattato, perché l’eventuale avviso dei Giudici del
Lussemburgo di segno favorevole alla illegittimità comunitaria della norma, non
potrebbe comunque valicare la barriera innalzata dalla Corte costituzionale
italiana, affermando l’essenzialità della modifica introdotta per la
salvaguardia del diritto alla salute.
3.2.
La censura proposta muove dall’affermazione del contrasto dell’art. 8, comma 1,
lett. a) della legge n. 362 del 1991, come modificato dalla Corte costituzionale, con i principi del Trattato CE, e fa leva
sull’obbligo del giudice nazionale di disapplicare la norma viziata, in
ossequio ai principi comunemente accolti in tema di rapporti tra il diritto
della Comunità europea e quello degli Stati membri secondo l’assetto scaturito
dalla fondamentale sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 1984.
Rispetto
all’esame della fondatezza della tesi impugnatoria
appare pregiudiziale la verifica, richiesta dalla controparte, dell’effettivo
ambito di incidenza del diritto comunitario sulle materie che coinvolgono
principi e diritti fondamentali secondo l’ordinamento nazionale, e per
conseguenza i ruoli rispettivi della Corte di giustizia di Lussemburgo e della
Corte costituzionale italiana. Si
tratta, come è evidente di tematiche di notevole ampiezza e complessità, che,
in queste sede, potranno essere soltanto richiamate per brevi ed essenziali
accenni.
Va
detto subito che non è oggetto di discussione il nucleo essenziale della
innovazione introdotta dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 170
del 1984. Secondo l’orientamento precedente, espresso nelle sentenze n. 14 del
1964, n. 98 del 1965 e soprattutto n. 183 del 1973, infatti, la Corte si
considerava competente a conoscere della eventuale illegittimità delle leggi e
degli atti aventi forza di legge di cui si denunciasse il contrasto con norme
comunitarie, e la relativa competenza non poteva che svolgersi a seguito della
“rimessione” degli atti da parte di un giudice di merito. Con la sentenza n.
170 del 1984, invece, come è largamente noto, i giudici comuni sono stati
abilitati ad applicare il diritto comunitario immediatamente e a preferenza
delle norme interne che lo contraddicono. Il contrasto non dà più luogo ad una
questione di legittimità costituzionale per indiretta violazione dell’art 11
Cost.; la norma nazionale confliggente si ritrae e
lascia spazio al diritto di fonte comunitaria. Il principio, inizialmente
affermato per i regolamenti comunitari, è stato poi esteso con successive
pronunce alle statuizioni contenute in sentenze interpretative della Corte del Lussenburgo
ex art. 177, oggi art. 234 del Trattato (sent. n. 113 del 1985) e delle
sentenze di condanna ex art. 169, oggi art 226 (sent. n. 389 del 1989), ed in
fine alle direttive c.d. dettagliate
(sent. n. 168 del 1991).
Questo
assetto del controllo di legittimità delle norme interne in materie
disciplinate da fonti comunitarie direttamente applicabili ha determinato una
consistente contrazione del contenzioso di diritto comunitario di competenza
della Corte costituzionale, essendo ad essa subentrato il sindacato diffuso
svolto dai giudici comuni, e quello della stessa Corte del Lussemburgo o in
sede di impugnativa diretta o nell’esercizio della funzione interpretativa ex
art. 234 del Trattato.
La
dottrina costituzionalistica, peraltro, pur dando atto del ridimensionamento
delle aree del controllo sulla legittimità delle fonti proprio della Corte
costituzionale, è concorde nel negare, sulla base dei dati emergenti
dall’ordinamento, che si sia compiuta una completa estromissione della Corte
costituzionale dalla gestione del diritto comunitario.
La
Corte, infatti, in primo luogo, conosce
dei conflitti tra norma comunitaria e norme interne in tutte le ipotesi che si pongono fuori del giudizio di
costituzionalità in via incidentale. Si tratta dei casi di accesso diretto alla
Corte, quali il giudizio di costituzionalità in via principale proposto dallo
Stato o da una Regione contro la legge della Regione o contro la legge dello Stato, il conflitto di
attribuzioni nelle diverse ipotesi conosciute, il giudizio sulla ammissibilità
del referendum.
Una
diversa occasione di intervento, di interesse essenzialmente teorico, è stata
individuata dalla stessa Corte nella sent. n. 170 del 1984, citata sopra, ed
attiene al caso che siano denunciate, in via incidentale, per violazione
dell’art. 11 Cost., norme di “legge
statale che si assumono costituzionalmente illegittime in quanto dirette ad
impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al
sistema e al nucleo essenziale dei suoi principi”.
Né va
dimenticato quel filone della giurisprudenza costituzionale, noto alla dottrina
come afferente alle c.d. discriminazioni
a rovescio, che si concretizzano in situazioni di disparità in danno di
cittadini o delle imprese italiani che sono effetto indiretto di un più
favorevole trattamento stabilito dal diritto comunitario (sentenze n. 249 del
1995, sui lettori di lingua straniera; n. 61 del 1996, sui procuratori legali;
n. 447 del 1997 sulla pasta). In tali casi la Corte, in deroga
all’autolimitazione delle proprie attribuzioni in favore della disapplicazione
di cui alla sent. n. 170 del 1984, sopra ricordata, è stata chiamata a valutare
la legittimità costituzionale di norme italiane dalle quali derivi una
posizione di svantaggio per il cittadino italiano rispetto alla disciplina
delle medesime situazioni fissata dal diritto comunitario.
Concerne
in fine l’area comunitaria, ad assume un rilievo centrale nella presente controversia, quel tipo di
competenza che la Corte costituzionale ha costantemente rivendicato, seppure
non concretamente esercitato, che riguarda la tutela dei principi e diritti
fondamentali del nostro ordinamento nei confronti della Comunità Europea.
La
prima affermazione della volontà di non abdicare al ruolo istituzionale di
garante del sistema costituzionale si fa risalire alla sent. n. 98 del 1965,
con la quale è stata giudicata non contrastante con gli artt. 102 e 113 Cost.
l’attribuzione di competenze giurisdizionali ad organi diversi da quelli dello
Stato (nella specie, alla Corte di giustizia), purché ciò avvenga “senza pregiudizio del diritto del singolo
alla tutela giurisdizionale” perché questo diritto è tra quelli inviolabili
dell’uomo “che la Costituzione garantisce
all’art. 2.”.
Con
espressioni assai più incisive la Corte si è pronunciata nella sent. n. 183 del
1973, già citata, e poi nella sent. n. 170 del 1984, anch’essa citata. Si è
osservato, nel primo arresto, che “in
base all’art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di
sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve
quindi escludersi che siffatte limitazioni possano comunque comportare per gli
organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona
umana. Ed è ovvio che qualora dovesse mai darsi dell’art. 189 una si aberrante
interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del
sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del
Trattato con i predetti principi fondamentali.”.
Le proposizioni della seconda decisione sono particolarmente
significative, perché pronunciate contestualmente alla svolta definitiva
in tema di efficacia diretta del diritto
comunitario. La Corte ha avvertito: “le
osservazioni fin qui svolte non implicano tuttavia che l’intero settore dei
rapporti tra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla
competenza della Corte” che ha già affermato come “la legge di esecuzione del trattato possa andare soggetta al suo
sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale
e ai diritti inalienabili della persona umana.”.
Tali fondamentali statuizioni sono state
costantemente richiamate dalla Corte in numerose successive pronunce (sentenze nn. 1146 del 1988, 203 del 1989, 232 del 1989, 168 del
1991, 117 del 1994, 509 del 1995, 126 del 1996, 93 del 1997, 73 del 2001). Emblematica tra queste può considerarsi
la sentenza 21 aprile 1989 n. 232 la quale, pur concludendosi con un dispotivo di inammissibilità, svolse un approfondito esame
della (in)compatibilità dell’art. 174, comma 2, (ora 231) del Trattato con gli artt 24, 24 e 41 Cost., con riguardo al potere conferito
alla Corte di Giustizia di limitare nel tempo gli effetti delle proprie
pronunce.
3.3. Così delineato il quadro di riferimento va
affrontato il quesito proposta dalla censura, con la quale si chiede di
disapplicare (rectius,
non applicare, secondo la sottile precisazione operata dalla Corte
costituzionale con la sent. n. 168 del 1991) la norma di cui all’art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991, come
modificato dalla Corte
costituzionale, di cui si assume il
contrasto con gli artt. 12, 43 e 56 del Trattato, ossia di considerarla tamquam non esset ,
ovvero, in subordine, operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
ai sensi del 234, comma 3, del Trattato.
Osserva
in primo luogo il Collegio che nella specie si prospetta il conflitto di una
norma dell’ordinamento interno, che disciplina una specifica ipotesi
incompatibilità tra lo svolgimento contemporaneo di due diverse attività, con
principi generali del Trattato, e non con una normativa di settore emessa dagli
organi comunitari competenti. In tale situazione l’ipotesi della
“disapplicazione” da parte del giudice nazionale non appare percorribile, per
difetto di una disciplina comunitaria direttamente applicabile. Per principio
risalente alla ricordata sentenza n. 170 del 1984 della Corte costituzionale,
ed in conformità alla sentenza della Corte di Giustizia 9 marzo 1978, in causa
106/77 (c.d. sentenza Simmenthal), infatti, il giudice
nazionale è tenuto ad applicare direttamente la normativa comunitaria che
regoli la materia in maniera difforme dalla legge nazionale, ma a tale fine non
può utilizzarsi il principio generale di non discriminazione, o quello sulla
libera circolazione dei capitali. In questo caso si richiede una attività di
interpretazione del principio generale enunciato dal Trattato, e di verifica
della compatibilità della norma interna con il principio medesimo, che dovrebbe
essere devoluto alla Corte di Giustizia
a norma del citato art. 234. In caso contrario il giudice nazionale, anziché
risolvere il caso secondo la disciplina comunitaria adottata dagli organi
competenti, finirebbe per creare esso stesso la norma mancante, con
inammissibile stravolgimento della distinzione e della separazione tra le fondamentali potestà di creazione e
applicazione del diritto.
Né
pare possibile, nel caso qui in esame, accedere alla tesi secondo cui il
giudice nazionale, che non disponga di una normativa comunitaria direttamente
applicabile a preferenza di quella dello Stato membro, potrebbe adottare una
interpretazione della norma contestata in senso conforme ai principi del
Trattato. Tale soluzione può ammettersi quando la lettura conforme al Trattato
sia tra quelle possibili, cioè sia compatibile con il testo della disposizione
e non da questo manifestamente impedita.
Ma
questo è proprio il caso che ricorre nella fattispecie, poiché la norma
inserita nell’art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991, non può
che essere interpretata nel senso della incompatibilità del contemporaneo
svolgimento delle due attività considerate, e la pretesa disapplicazione del
detto precetto non rientrerebbe nel fenomeno della preferenza per la norma
comunitaria, che non esiste, ma
equivarrebbe ad una vera e propria abrogazione da parte del giudice, con
disapplicazione della sentenza della Corte costituzionale.
Consegue
da quanto detto che le argomentazioni delle appellanti volte a dimostrare il
contrasto della norma introdotta dalla Corte costituzionale con principi del
Trattato non hanno rilievo ai fini della domanda di disapplicazione, dovendo
nuovamente rammentarsi che questo potere del giudice scatta in presenza di una
disciplina di fonte comunitaria suscettibile di applicazione diretta. L’apprezzamento
del detto contrasto compete certamente alla Corte di Giustizia ove ne fosse
ritualmente investita.
3.4.
Viene quindi in considerazione la domanda, avanzata invero in termini insolitamente perentori, di rinvio pregiudiziale della
questione alla Corte del Lussemburgo, facendo leva sulla formulazione dell’art.
234, comma 3, del Trattato, che imporrebbe, immancabilmente, il rinvio alla
Corte della questione di interpretazione che si ponga dinanzi ad una
giurisdizione di ultima istanza quale è innegabilmente il Consiglio di Stato in
sede giurisdizionale.
Il
Collegio deve osservare che secondo la giurisprudenza della stessa Corte di
Giustizia l’obbligo di rinvio della questione proposta davanti ad un giudice
nazionale di ultima istanza non è assoluto ed inderogabile. A partire dalla
nota sentenza 6 ottobre 1982 in C.283/81 (Cilfit) si
è ammesso che l’obbligo di rinvio venga meno quando l’applicazione del diritto
comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciare adito a nessun
ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Alla detta
a statuizione, conosciuta ormai come teoria dell’atto chiaro, ha fatto seguito
nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. sez. lav. 25 ottobre 2002 n. 15105; 23 novembre 2001, n. 14880;
sez. I, 7 giungo 2000 n. 7699; 18 febbraio 2000, n. 1804; sez. lav., 1 febbraio 2000 n. 1105; sez. civ. I, 9 maggio 1999
n. 4564; 9 giugno 1998 n. 5673) e del Consiglio di Stato (Sez. VI, 20 ottobre 2004 n. 6884; Sez. IV, 19 giugno 2003 n.
3475; 31 maggio 2003 n. 3047; Sez. VI, 4 ottobre 2002
n. 5255; 1 aprile 2000 n.1885; Sez. V, 23 aprile 1998 n. 478) l’enucleazione di
ulteriori casi di esenzione dall’obbligo di rinvio, con riguardo sia alla
esistenza di una precedente decisione della Corte comunitaria che abbia già
risolto il dubbio interpretativo, sia alla irrilevanza della questione ai fini
della definizione della causa. Più
precisamente si è affermato che “i
giudici di ultima istanza non sono tenuti a sottoporre alla Corte una questione
di interpretazione di norme comunitarie se questa non è pertinente (vale a dire
nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull’esito della
lite) ..” (Sez. VI, n. 6884/2004, cit).
Nella
fattispecie in esame si versa in situazione di irrilevanza della questione
interpretativa sollevata dagli appellanti.
Occorre
richiamare l’attenzione sulla circostanza che la norma, della quale sarebbe
dubbia la compatibilità con alcuni principi del Trattato CE, non scaturisce dalla
attività del potere legislativo, ma è il frutto di un giudizio di legittimità
costituzionale ai sensi dell’art. 134 della Costituzione. Come è del tutto
evidente, la Corte costituzionale ha accertato nella norma rimessa al suo esame
il vizio di violazione degli artt. 3 e 32 Cost., e, utilizzando una modalità di
intervento ormai acquisita da anni al processo costituzionale, ha imposto al
giudice remittente, ed a tutti gli operatori del diritto, quella modificazione
additiva ritenuta idonea ad eliminare
il pregiudizio arrecato dal vecchio testo ai diritti fondamentali
dell’eguaglianza e della tutela della salute.
Ritiene
il Collegio che la matrice costituzionale della norma in questione assuma
rilievo decisivo per il problema, che qui si pone, del dovere del giudice
procedente di investire la Corte di Giustizia.
Va
richiamata la giurisprudenza citata sopra sub 3.2. a proposito della competenza
in materia di salvaguardia dei diritti fondamentali cui la Corte costituzionale
non ha mai inteso rinunciare neppure a fronte delle limitazioni di sovranità
decise dallo Stato con la ratifica del Trattato in applicazione dell’art. 11 Cost.. La posizione della Corte italiana sul punto ha
determinato l’elaborazione da parte della
dottrina costituzionalistica della teoria c.d. dei “controlimiti”, che rappresenta il naturale svolgimento del modo di intendere il
diritto comunitario nel suo rapporto con l’ordinamento interno. Mentre la Corte
di Giustizia (sentenza Simmenthal, citata sopra) si è
orientata per una impostazione monista di tale rapporto, basata sulla capacità
della norma comunitaria di “abrogare” quella dello Stato, come se si fosse
verificata una integrazione tra gli ordinamenti, la Corte costituzionale ha
seguito inflessibilmente la tesi dualista, fondata sulla separazione tra
ordinamento comunitario e ordinamento nazionale: essi, sebbene coordinati e
comunicanti, sono ordinamenti autonomi e distinti “secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal
Trattato” (sent. 170 del 1984, già citata). In altri termini, nelle materie
di loro competenza le fonti comunitarie ricevono diretta applicazione nel
territorio italiano, rimanendo del tutto estranee al sistema delle fonti
interne: la norma comunitaria, quindi, pur non abrogando né modificando né invalidando
la norma interna incompatibile, prevale su di essa “se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con
una normazione compiuta e immediatamente applicabile”
(stessa sentenza). Si è così pervenuti ad una sorta di “armonia tra diversi”,
secondo la felice definizione di un illustre
giurista, che ha avuto il pregio di garantire la conservazione del
nostro ordinamento e con esso della sovranità statale, che, lungi dall’essere
assorbita all’interno di una sovranità superiore, risulta essere soltanto
limitata, ai sensi dell’art. 11 Cost.. In tal modo è
stato, ed è, concepibile conservare uno
spazio giuridico statale del tutto sottratto all’influenza del diritto
comunitario, uno spazio nel quale lo Stato continua ad essere interamente
sovrano, vale a dire indipendente, e perciò libero di disporre della proprie
fonti normative. E’ appunto l’area dei diritti fondamentali, la cui tutela
funge da insopprimibile “controlimite” alle
limitazioni spontaneamente accettate con il Trattato.
Ad
avviso del Collegio, in questo contesto si deve collocare la sentenza
costituzionale n. 257 del 2003, secondo cui è indispensabile alla tutela di un diritto fondamentale
dell’ordinamento, il diritto alla salute, la indicata modificazione dell’art.
8, comma 1, lett. a) della legge n. 362 del 1991. La Corte infatti è intervenuta in un’area riservata alla sua
giurisdizione che non è stata intaccata dal trasferimento a favore della Corte
di Giustizia delle competenze interpretative sul Trattato CEE, e pertanto
rimane insensibile al paventato contrasto della modifica introdotta con
principi comunitari.
Potrebbe
obiettarsi che la Corte costituzionale
non ha preso in esame il problema del possibile conflitto tra la modifica
introdotta e il Trattato, e che, pertanto, il quesito proposto dagli appellanti
attende ancora la soluzione da parte dall’Autorità comunitaria competente, e ad
essa deve essere rimesso.
A tale
riguardo il Collegio non ha motivo di pronunciarsi sulla possibilità che si
svolga nel futuro, anche prossimo, un giudizio della Corte di
giustizia sulla compatibilità della norma italiana con il Trattato, a seguito
dell’esercizio delle competenze proprie degli organi comunitari. Ritiene invece
non consentito che il giudice nazionale in presenza di una statuizione della
Corte costituzionale che lo vincola alla applicazione della norma appositamente
modificata in funzione della tutela di un diritto fondamentale, possa
prospettare alla Corte del Lussemburgo un quesito pregiudiziale della cui
soluzione non potrà comunque tenere conto, perché assorbita dalla decisione
della Corte italiana, incidente
nell’area della tutela dei diritti ad essa riservata.
Il
Collegio non ignora la tendenza invalsa nel diritto comunitario, e nella
giurisprudenza della Corte del Lussemburgo, specie dopo la firma del Trattato
di Nizza, ad assicurare la salvaguardia dei diritti soggettivi in ambiti sempre
più ampi, anche estranei alla vocazione prettamente economica che ha
caratterizzato le origini e una larga parte della storia della Comunità e ora
dell’Unione. Non è controverso, tuttavia, che si tratti ancora di
manifestazioni di valenza quasi sperimentale della aspirazione ad una unione
più stretta tra i Paesi membri, che però
allo stato non hanno assunto un significato giuridico vincolante, tale
da determinare il superamento delle sovranità nazionali e delle loro
prerogative costituzionali.
In
conclusione gli appelli debbono essere rigettati.
Sussistono valide ragioni per disporre la
compensazione tra le parti delle spese di lite
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale,
Sezione Quinta, rigetta gli appelli in epigrafe, previamente riuniti;
dispone la compensazione delle spese;
ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera
di consiglio del 19 aprile 2005 con l'intervento dei magistrati:
Raffaele Iannotta Presidente
Giuseppe Farina Consigliere
Aldo Fera Consigliere
Claudio Marchitiello Consigliere
Marzio Branca Consigliere
est.
L'ESTENSORE IL
PRESIDENTE
F.to Marzio Branca F.to Raffaele Iannotta
IL SEGRETARIO
F.to Agatina
Maria Vilardo
(depositata in segreteria l’8 agosto 2005)