Corte di Cassazione, Sez. unite civili
sentenza 14 marzo 2011, n. 5924
Pres. ff.
De Luca, Rel. Segreto
- T.L. (Avv.ti Pierdominici,
Corsetti e Mantero) c. Ministero della Giustizia e
Procura Generale presso la Corte Suprema di Cassazione (Avv.ra
Stato) - (rigetta il ricorso avverso la sentenza del Consiglio Superiore della
Magistratura del 25 maggio 2010, n. 88).
Svolgimento del
processo
La Sezione disciplinare del CSM procedeva disciplinarmente contro il
magistrato dr. T.L. per l'illecito disciplinare di
cui al R.D. n. 511 del 1946, art. 18, tipizzato a decorrere dal 19.6.2006 - dal
D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, e art. 2 lett. n. ed
r, perché in violazione dei doveri istituzionali e professionali di diligenza e
laboriosità, con grave e reiterata inosservanza delle disposizioni relative
alla prestazione del servizio giudiziario, si sottraeva ingiustificatamente ed
abitualmente dall'attività giurisdizionale, che era chiamato a svolgere,
astenendosi dalla trattazione di 15 udienze nel periodo maggio - luglio 2005 e
successivamente nei giorni 8, 12 e 13 luglio 2005 (proc. disciplinare n.
22/05), nonchè per le condotte innanzi dette fino al
31.1.2006 (quando veniva sospeso dalle funzioni dalla Sezione disciplinare) in
altre 4 udienze (proc. disciplinare n. 37/09), con rifiuto di tenere le udienze
nello stesso giorno o nell'immediata prossimità, così determinando la necessità
delle relative sostituzioni, grave perturbamento dell'attività dell'ufficio ed
estrema difficoltà del prosieguo dell'attività giurisdizionale per i
procedimenti affidati. Il dr. T. veniva incolpato anche perchè,
con tale condotta, assertivamente motivata dalla
presenza del crocefisso nelle aule del tribunale di Camerino e persistita
nonostante la messa a disposizione da parte del presidente del Tribunale di
un'aula priva di simboli religiosi, era venuto meno al dovere fondamentale di
svolgimento della funzione ed aveva compromesso la credibilità personale ed il
prestigio dell'istituzione giudiziaria.
La Sezione, con sentenza depositata il 25.5.2010, affermava la
responsabilità del dr. T. per l'incolpazione
ascrittagli e gli applicava la sanzione della rimozione. Riteneva la Sezione,
ai fini che qui interessano, che era infondata l'eccezione di illegittimità
della sospensione del procedimento disciplinare e la conseguente caducazione dell'azione per decorrenza del termine annuale;
che il proscioglimento in sede penale, perché il fatto non sussiste, atteneva
solo al profilo penale dei fatti contestati, mentre rimaneva autonomo il
profilo della valutazione disciplinare degli stessi fatti, costituiti dal
rifiuto ingiustificato di tenere udienza. Nel merito riteneva la Sezione che oggetto
del procedimento non era la verifica della compatibilità tra i principi di
laicità dello Stato e la presenza del crocifisso nelle aule, ma la
compatibilità del rifiuto del dr. T. di tenere udienza - determinato dal fatto
che in altri luoghi la giustizia era amministrata in presenza del simbolo
religioso - ed il rispetto delle regole organizzative del servizio e delle
esigenze funzionali del corretto svolgimento dell'esercizio delle funzioni
giurisdizionali.
Riteneva la Sezione che la presenza del crocefisso, indipendentemente
dalla legittimità o vigenza della norma regolamentare che la prevede, non
determinava in sè per il solo fatto di essere
generalmente osservata nelle aule giudiziarie della Nazione, una lesione
diretta del fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione
del dr. T., che poteva essere messa in discussione solo se gli si fosse stato
imposto l'obbligo di esercitare la giurisdizione, in contrasto con le sue più
profonde e radicate convinzioni, in un'aula in cui vi era la tutela simbolica
religiosa. La Sezione, quindi, affermava la responsabilità disciplinare del dr.
T. per aver rifiutato di esercitare le funzioni giurisdizionali (finchè l'amministrazione giudiziaria non avesse accolto la
sua richiesta scritta dell'1.5.2005 di rimozione del crocefisso da tutti gli
uffici giudiziarì), anche allorchè
gli era stato formalmente comunicato di esercitarle nel proprio ufficio ovvero,
successivamente, nell'aula predisposta senza simboli religiosi e ritenuta dalla
stessa Sezione egualmente dignitosa e fruibile da tutti magistrati del
tribunale, che lo avessero voluto.
Secondo la Sezione il dr. T. aveva mancato gravemente ai propri doveri,
mostrando faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, pur avendo già
subito 4 condanne disciplinari(3 ammonimenti ed una censura). La Sezione
riteneva di infliggere la sanzione della rimozione, tenendo conto della gravità
del fatto e della determinazione dell'incolpato, che aveva dichiarato di non
deflettere da tale comportamento neanche in futuro, se gli fosse stata data
occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di
esercitarle.
Avverso questa sentenza proponeva 2 ricorsi per cassazione il dr. T..
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1.1. Preliminarmente va dichiarato inammissibile il ricorso proposto
personalmente dal ricorrente dr. T.L., con deposito
in cancelleria del 20.9.2010 e non notificato ad alcuno. Infatti in terna di
procedimento disciplinare nei confronti di magistrati, la disciplina
transitoria di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n.
109, art. 32 bis, introdotto dalla L. n. 269 del 2006, art. 1, comma 3, lett.
q), non riguarda le sentenze emesse dal Consiglio Superiore della Magistratura
nei procedimenti promossi anteriormente al 19 giugno 2006 (data di entrata in
vigore del D.Lgs. n. 109 del 2006), le quali sono
impugnabili innanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, nelle
forme previste dal codice di rito civile e non in quelle previste dal codice di
procedura penale e nel termine di cui al D.P.R. n. 916 del 1958, art. 60, tanto
nel caso in cui il provvedimento sia stato pronunciato prima dell'entrata in
vigore del D.Lgs. n. 109, quanto nel caso in cui esso
sia stato pronunciato successivamente (Cass. Sez. Unite, 01/10/2007, n. 20601;
Cass. Sez. Unite, 03/08/2009, n. 17905; Cass. Sez. Unite, 03/08/2009, n.
17905).
Nella fattispecie correttamente la Sezione disciplinare rileva, quanto al
regime normativo applicabile, che ì fatti contestati al dr. T. vanno dal maggio
2005 al 16 gennaio del 2006 e che l'azione disciplinare è stata promossa con
riferimento al primo procedimento prima del 19 giugno 2006, data del'entrata in
vigore del D.Lgs. e con riferimento al secondo in
data successiva; che tuttavia, poichè si tratta di
comportamenti della stessa natura e tenuti senza soluzione di continuità, non
si può giustificare un'applicazione di regimi sostanziali e processuali diversi
con riferimento ai due procedimenti, che tuttavìa
applicando, a norma dell'art. 32 bis, la disciplina più favorevole, questa
risulta essere quella del R.D. n. 511 del 1946.
Il punto non è stato peraltro fatto oggetto di censura, per cui è alla
disciplina antecedente a quella disposta dal D.Lgs.
n. 109 del 2006, che occorre far riferimento.
1.2. Ciò comporta, in relazione al ricorso proposto personalmente dal dr.
T., che esso è inammissibile per due ordini di ragione.
Anzitutto esso è stato proposto personalmente dall'incolpato. E' invece,
giurisprudenza di queste S.U., che va qui ribadita, che il principio secondo il
quale la difesa personale della parte postula che abbia la qualità necessaria
per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito trova
applicazione pure con riguardo al ricorso per cassazione avverso le decisioni
del Consiglio superiore della magistratura in materia disciplinare (Cass. Sez.
Unite, 12/06/2006, n. 13532).
1.3. Inoltre esso è inammissibile per non essere stato notificato ad
alcuno (Cass. Sez. Unite, 01/10/2007, n. 20601).
1.4. Sennonchè nel caso in cui una sentenza sia
stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, è ammissibile la
proposizione del secondo in sostituzione del primo, purchè
l'improcedibilità o l'inammissibilità di quest'ultimo non sia stata ancora dichiarata,
restando escluso che la mera notificazione del primo ricorso comporti, "ex
se", la consumazione del potere d'impugnazione (Cass. Sez. 3^, 03/03/2009,
n. 5053). Ne consegue che nella fattispecie questa Corte deve passare ad
esaminare il ricorso proposto dai difensori del ricorrente e tempestivamente
notificato il 6 ottobre 2010.
2. Per ragioni di ordine logico-processuale va esaminato, anzitutto, il
motivo quattordicesimo, con il quale il ricorrente lamenta la violazione e
falsa applicazione del D.P.R. n. 916 del 1958, art. 59, commi 9 ed 11, R.D. n.
511 del 1946, art. 28, art. 3 c.p., e art. 185 c.p.p.,
e art. 111 Cost..
Assume il ricorrente che sussiste nella fattispecie la decadenza del
procedimento disciplinare, perchè non era stato
rispettato il termine annuale per la comunicazione all'incolpato del decreto
che fissava la discussione orale davanti alla Sezione disciplinare.
Secondo il ricorrente il primo procedimento disciplinare era stato
attivato il 22.9.2005 ed illegittimamente sospeso dal P.G. il i 14.3.2006 in
attesa della definizione del processo penale per omissione di atti di ufficio;
che in data 17.2.2009 era intervenuta la sentenza definitiva della cassazione
di assoluzione "perchè il fatto non
sussiste", mentre la notifica del decreto di fissazione dell'udienza di
discussione era avvenuta il 22.12.2009. Sostiene, poi, il ricorrente che non
sussiste il presupposto su cui si fonda la sospensione disposta dal P.G., poichè l'incolpazione
disciplinare diverge dall'imputazione penale.
3.1. Il motivo è infondato e va rigettato.
Hanno statuito le S.U. di questa Corte che la norma del D.P.R. 16
settembre 1958, n. 916, art. 59, come modificato dalla L. 3 gennaio 1981, n. 1,
art. 12, - per la quale l'azione disciplinare nei confronti del magistrato non
può essere promossa dopo un anno dal giorno in cui il Ministro o il Procuratore
generale hanno avuto notizia del fatto che forma oggetto dell'addebito
disciplinare - si riferisce solo all'ipotesi di procedimento disciplinare non
ricollegabile ad un procedimento penale, in corso od esaurito; ove invece sia
iniziata l'azione penale nei confronti del magistrato trovano applicazione il
R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, artt. 29 e 31, sui rapporti tra provvedimenti
cautelari e definitivi di natura disciplinare e procedimento penale.
Conseguentemente il Ministro di giustizia - quantunque abbia conosciuto i fatti
contestati al magistrato fin da epoca risalente a più di un anno - può
legittimamente richiedere alla Sezione disciplinare del CSM l'adozione della
misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio essendo in
tal caso l'esercizio dell'azione disciplinare svincolato da termini perentori,
restando collegato solamente alla pronuncia penale di condanna o di
proscioglimento (Cass. civ., Sez. Unite, 08/08/1997, n. 7406).
Inoltre è principio consolidato che in, tema di procedimento disciplinare
a carico di magistrati, l'alternatività - tra
Ministro di Grazia e Giustizia e P.G. presso la Corte di cassazione -
nell'iniziativa del promovimento della relativa azione comporta che l'eventuale
decorso del termine annuale di decadenza per uno dei predetti titolari non
estingue il potere di iniziativa dell'altro (Cass. S.U. n, 316/2007).
3.2. Questa giurisprudenza va condivisa, non essendovi ragioni per
discostarsene e la sezione ne ha fatto corretta applicazione. Sulla base del precedente
sistema normativo (applicabile alla sospensione disposta), la medesima notitia aveva determinato l'instaurazione del procedimento
disciplinare e di quello penale, con la conseguenza che la decorrenza del
termine annuale era computabile esclusivamente dal momento della conclusione
del procedimento penale.
In relazione alla seconda azione disciplinare, come osserva la Sezione
correttamente, le "dichiarazioni di rifiuto" depositate dal T.
nell'udienza dibattimentale risultano indirizzate ai capi degli uffici del
distretto ed al Ministero della Giustizia, e non investono entrambi i titolari
dell'azione disciplinare. E' altresì esatta l'osservazione che la notizia del
fatto non poteva identificarsi nè nelle singole
segnalazioni di astensione dalle udienze, potendo dedursì
la violazione del dovere funzionale solo dalla sistematicità delle astensioni nè dalla mera comunicazione dell'avvio di un procedimento
penale (Cass. S.U. n. 7 94 7 del 2003).
3.3. Egualmente infondata è l'eccezione di illegittimità della sospensione
disposta dal P.G..
Nel precedente sistema normativo, applicabile ratione
temporis alla misura cautelare disposta,
l'orientamento della giurisprudenza riconosceva all'apertura del procedimento
penale per lo stesso fatto materiale oggetto dell'incolpazione
disciplinare, efficacia sospensiva ipso iure del procedimento disciplinare e
natura meramente dichiarativa al formale provvedimento di sospensione emesso
dal Procuratore Generale, con la conseguenza della decorrenza del termine
annuale per l'esercizio dell'azione dall'irrevocabilità della sentenza penale
(Cass. S.U. n. 6613/1993; n. 13860/1991).
3.4. Infondato è anche l'assunto secondo cui nella fattispecie i fatti
oggetto del procedimento penale fossero diversi da quelli posti a base del procedimento
disciplinare.
Va, anzitutto, rilevato che, ai sensi della disposizione transitoria di
cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis, comma 1,
deve ritenersi la persistente unicità dello stesso procedimento disciplinare
promosso in base alla normativa anteriormente in vigore, quando, a seguito
della pronuncia di una sentenza penale (di assoluzione o di condanna), i fatti
oggetto del processo penale, già contestati anche in sede disciplinare, vengano
ivi riformulati sia mediante la riduzione degli addebiti, sia mediante la
valorizzazione di aspetti intrinseci alla vicenda oggetto dell'imputazione in
sede penale, fermo restando in ogni caso che le semplici modificazioni
dell'atto di incolpazione non determinano
l'instaurarsi di un nuovo e diverso procedimento disciplinare (Cass. S.U. n.
17903 del 2009).
In ogni caso nella fattispecie, Cass. pen., Sez.
6^, 17/02/2009, n. 28482, emessa nei confronti del Dr. T., ha annullato senza
rinvio per insussistenza del fatto la sentenza di appello rilevando che "Non
integra il reato di omissione di atti d'ufficio il semplice inadempimento di un
dovere funzionale interno all'organizzazione della P.A., ove non si traduca
nella mancanza di un atto d'ufficio a rilevanza esterna, che sia altresì
qualificato dalle ragioni indicate dalla norma incriminatrice
e da compiersi senza ritardo".
Sulla base di tali principi la Corte ha ritenuto che la mancata
celebrazione, da parte dell'imputato, quale giudice, di alcune udienze cui egli
era tenuto, non abbia integrato il reato, giacchè
tenute, in sua sostituzione, da altri magistrati a ciò appositamente designati.
Ma proprio la corte ha rilevato, altresì, che " la condotta addebitata al
dr. T. si è concretizzata nella violazione di doveri funzionali, riverberatisi
esclusivamente, come la stessa sentenza impugnata riconosce sull'organizzazione
interna dell'ufficio, nonchè che "la condotta
addebitata al dr. T. si è concretizzata nella violazione di doveri funzionali,
riverberatisi esclusivamente, come la stessa sentenza impugnata riconosce,
sull'organizzazione interna all'ufficio...".
Ciò comporta che già dalla motivazione della stessa sentenza penale di
questa Corte emergeva che l'esclusione della rilevanza penale dei fatti
addebitati al dr. T. non comportava anche l'esclusione del rilievo disciplinare
degli stessi. In ogni caso correttamente la Sezione disciplinare ha accertato
che nella fattispecie sussistesse l'identità del fatto contestato sia in sede
penale che in sede disciplinare.
Infatti anche in sede penale era stato contestato al dr. T. il reato di
omissione di atti d'ufficio perchè, quale giudice
presso il Tribunale di Camerino, si era indebitamente astenuto dalle udienze in
cui avrebbe dovuto trattare senza ritardo per ragioni di giustizia procedimenti
a lui assegnati ed aveva motivato tale sua decisione con l'illegittima presenza
nell'aula d'udienza del "crocifisso", simbolo della cristianità, che
si poneva in contraddizione con il principio costituzionale della "libertà
di religione e di coscienza" e mortificava le esigenze di
"neutralità" e "imparzialità" che dovevano, invece, essere
garantite in forza dell'altro principio costituzionale di laicità dello Stato.
In sede disciplinare la materialità dei fatti (il non aver tenuto le
udienze con conseguente disservizio) è la medesima anche se, giusto quanto
indicato dalla stessa sentenza penale, si poneva l'accento sul piano della
conseguenza della condotta e cioè essenzialmente sul grave perturbamento
dell'attività dell'ufficio e sul disservizio conseguente.
4.1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità della
sentenza per violazione dell'art. 185 c.p.p. 1930, n.
3, artt. 145, 305, e 477 c.p.p. 1930, degli artt. 24
e 111 Cost., e degli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'Uomo, ratificata con L. n. 848 del 1955).
Assume il ricorrente che la Sezione disciplinare "aveva l'obbligo di
decidere le eccezioni sollevate dal dr. T. e cioè di decidere se l'ostensione
obbligatoria dei crocifissi nelle aule (di giustizia) ledesse o meno i diritti
e le prerogative inviolabili del dr. T. e giustificasse poi il rifiuto di
tenere le udienze, anche dopo l'allestimento dell'aula "ghetto".
Assume il ricorrente che si era difeso dall'accusa, esponendo le ragioni che lo
avevano costretto a rifiutarsi di tenere le udienze sotto l'imposizione dei
crocifissi e persistere nel rifiuto anche dopo che gli era stata allestita
un'aula senza crocifisso; che erroneamente la Sezione aveva ritenuto di non
poter tener conto di tali giustificazioni, poichè il
P.G. aveva riformulato l'incolpazione, con la
conseguente irrilevanza dei fatti addotti da esso ricorrente.
Il ricorrente lamenta, altresì, il vizio di omessa pronunzia da parte
della Sezione circa le giustificazioni del rifiuto, poichè
questa aveva inflitto la condanna al dr. T. perchè si
era rifiutato di tenere udienza in un'aula senza crocifisso, sia perchè tale rimedio non valeva a preservare il principio di
laicità dello Stato ed i suoi diritti di libertà religiosa e di eguaglianza,
anzi li aggravava perchè si realizzava una forma di
ghettizzazione del non cattolico, sia perchè la
motivazione dell'idoneità del rimedio dell'aula "ghetto" non poteva
riguardare le udienze in data anteriore alla messa a disposizione di tale aula.
4.2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione, circa il punto che manca la
pronunzia sulle pretese sostanziali del dr. T. (se cioè diritti inviolabili o
mere obiezioni di coscienza), e del perchè, in
presenza di lesioni di diritti inviolabili, al funzionario dovrebbe essere
vietato avanzare richieste ed ultimatum, nè perchè il confino in un'aula ghetto del dr. T. fosse idoneo
a salvaguardare il principio supremo di laicità, come sancito anche da Cass.
Pen. n. 4273/2000, con il contestuale divieto di esporre il proprio simbolo (la
menorah ebraica).
4.3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi
per il giudizio.
Assume il ricorrente che, poichè il rimedio al
suo rifiuto era stato considerato l'apprestamento dell'aula senza crocifisso,
ciò comportava che i rifiuti precedenti a tali allestimenti, e riguardanti 19
delle 25 udienze, erano legittimi, mentre egli aveva, riportato condanne per
tutte le udienze non tenute. Secondo il ricorrente se si riteneva che la sua
pretesa di non tenere udienza sotto il crocifisso era infondata, non aveva
senso rimuoverle dalla magistratura, perchè non aveva
accettato la proposta mediatoria di tenere udienza in
un'aula senza crocifisso.
4.4. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'insufficienza
della motivazione circa un fatto controverso, poichè,
contrariamente a quanto ritenuto implicitamente dalla sentenza impugnata, egli
era stato costretto ad esercitare la sua giurisdizione sotto la "tutela
simbolica" dei crocifissi, mentre il contrario poteva trarsi da una
lettera del presidente del tribunale di Camerino del 23.12.2003 nonchè dagli atti del procedimento davanti al Tar Marche,
instaurato dallo stesso dr. T. e conclusosi con la dichiarazione del difetto di
giurisdizione, in merito alla lamentata lesione di diritti soggettivi.
4.5. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.
relativi alla laicità dello Stato. La violazione e falsa applicazione
dell'art. 19 Cost., e della L. n. 848 del 1955, art. 9, (sul diritto di libertà
religiosa) del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2, della
L. n. 654 del 1975, art. 3, del D.Lgs. n. 286 del
1998, art. 43, della L. n. 302 del 1997, artt. 1, 4, 5, 6, 7 ed 8, e della L.
n. 101 del 1989, art. 2, (diritto di eguaglianza e di non discriminazione).
Violazione e falsa applicazione dell'art. 2 Cost., ed artt. 1, 9, 13 e 17
Convenzione dei diritti dell'uomo, degli artt. 52 e 54 c.p., artt. 2044, 2045 e
1460 c.c.. Violazione e falsa applicazione dell'art.
629 c.p..
Assume il ricorrente che, sulla base del principio supremo di laicità
dello Stato e del diritto di libertà religiosa, nonchè
del diritto di eguaglianza e di non discriminazione, egli ben poteva rifiutarsi
di tener udienza finchè non fosse stata disposta la
rimozione dell'ostensione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie, ovvero finchè non fosse permessa l'ostensione di altri simboli
religiosi, quali la menorah ebraica.
Secondo il ricorrente la Sezione disciplinare non aveva correttamente
applicato le suddette norme, che avrebbero dovuto portarla ad affermare che la
presenza del crocifisso cattolico in ogni aula di udienza, indipendentemente da
quella destinata al magistrato, ed il contestuale divieto di esporre altri
simboli religiosi costituiscono giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di
magistrato, in quanto per un verso determinano un conflitto inferiore tra il
dovere civile di svolgere un pubblico ufficio ed il diritto di rivendicare il
rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza
garantito dalla costituzione e peraltro verso determinano la lesione del
diritto di libertà religiosa e di quello di non discriminazione del dipendente
che, a causa del divieto di esporre i propri simboli, viene ad essere trattato
meno favorevolmente dei dipendenti cattolici, sicchè
il comportamento di tale dipendente non è estorsivo nei confronti della P.A.,
ma concretizza il legittimo esercizio di un diritto di difesa ex art. 24 Cost..
4.6. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 97 e 113 Cost., e degli artt. 2727 e 1362 c.c. e
segg., nonchè il vizio motivazionale dell'impugnata
sentenza, perchè la stessa ha affermato il principio
che la pretesa del magistrato di rimozione dei crocifissi da tutte le aule
giudiziarie, anzichè dalla sola aula nella quale
veniva chiamato ad esercitare le proprie funzioni, è infondata e priva di
tutela giudiziaria, mentre egli aveva la possibilità di tutelare i suoi diritti
attraverso la caducazione integrale dell'atto
amministrativo generale.
Secondo il ricorrente costituisce erronea applicazione degli artt. 1327 e
1362 c.c. e segg., da parte della sentenza impugnata l'aver ritenuto che dalla
sentenza del Tar Marche, che disattendeva le sue richieste, egli avrebbe dovuto
ricavare la consapevolezza dell'infondatezza delle sue pretese.
4.7. Con il settimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione
e falsa applicazione degli artt. 97 e 101 Cost., e della L. n. 2248 del 1865,
artt. 4 e 5, all. e, art. 2, 3,7, 8, 19 e 20 Cost., L. n. 848 del 1955, art.
14, D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2, L. n. 654 del
1975, art. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, della
L. n. 654 del 1975, art. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998,
art. 43, L. n. 302 del 1997, artt. 1, 4, 5, 6, 7 e 8, L. n. 101 del 1989, art.
2; art. 1,9,13 e 17 Convenzione dei diritti dell'Uomo, art. 52 e 54 c.p., e
2044 e 2045 c.c., nonchè il vizio motivazionale della
sentenza.
Assume il ricorrente che viola le suddette norme la sentenza della Sezione
disciplinare che ha ritenuto che era valido rimedio a tutela dei diritti
inviolabili di libertà religiosa e di coscienza la disposizione del presidente
del tribunale di Camerino, che aveva disposto la rimozione del crocefisso da
una sola aula, mentre la disapplicazione della circolare ministeriale n. 2134/1867
del 29.5.1926 doveva essere effettuata con portata generale e nel corso di un
giudizio e non al di fuori dello stesso, con funzione di deroga per un singolo
caso. Secondo il ricorrente doveva essere vietata l'esposizione del crocefisso
in ogni aula del tribunale, indipendentemente da quella destinata al
magistrato, perchè altrimenti ciò creava un conflitto
interno al magistrato e contemporaneamente una discriminazione diretta del
dipendente magistrato che utilizza tale aula e una lesione del di ritto di
libertà religiosa per la non necessità di dover dimostrare la propria fede, con
un'inevitabile pubblicizzazione dei propri convincimenti religiosi.
4.8. Con l'ottavo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione
della L. n. 689 del 1981, art. 3, e dell'art. 5 c.p., nonchè
il vizio motivazionale dell'impugnata sentenza per non aver reso alcuna
motivazione in merito alla richiesta applicazione dei principi fissati nella
sentenza penale n. 4273/2000, in tema di legittimo rifiuto dell'ufficio di scrutatore
di seggio elettorale.
5. Tutti i suddetti motivi vanno esaminati congiuntamente, essendo
strettamente connessi.
Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati. Va, anzitutto,
rilevato che, come chiaramente affermato dalla sentenza impugnata, l'oggetto
dell'incolpazione, e quindi del giudizio
disciplinare, non era l'accertamento della liceità della presenza del
crocefisso in tutte le aule giudiziarie, ma più semplicemente la legittimità
della reiterata sottrazione del dr. T. ai suoi doveri di ufficio di prestare
l'attività giudiziale, a cui era tenuto (pag. 7). Specifica altresì la Sezione
che (pag. 14) l'oggetto del giudizio non è stata "la verifica della
compatibilità della laicità dello Stato e di libertà religiosa da una parte e
la collocazione del crocefisso nelle aule di giustizia della nazione, ma la
compatibilità del rifiuto del dr. T. di tenere udienza - determinato dal fatto
che in altro luogo e nello stesso o in altro momento la giustizia sia
amministrata in presenza di un simbolo religioso - ed il rispetto delle regole
organizzative del servizio, dei doveri del magistrato e delle esigenze
funzionali".
La Sezione, quindi, conclude che nella specie "la presenza del
crocefisso nelle aule giudiziarie, indipendentemente dalla legittimità della
norma regolamentare che la prevede, non determina in sè,
per il solo fatto di essere generalmente osservata, una lesione del diritto
soggettivo di libertà religiosa e di opinione del dr. T., che potrebbe essere
messo in discussione solo se gli fosse imposto l'obbligo di esercitare la
giurisdizione sotto la sua tutela simbolica".
In altri termini la Sezione correttamente non pone assolutamente in dubbio
il principio di laicità dello Stato.
6.1. Al riguardo più volte la Corte costituzionale ha riconosciuto nella
laicità un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale, idoneo a
risolvere talune questioni di legittimità costituzionale (ad esempio, tra le
tante pronunce, quelle riguardanti norme sull'obbligatorietà dell'insegnamento
religioso nella scuola, o sulla competenza giurisdizionale per le cause
concernenti la validità del vincolo matrimoniale contratto canonicamente e
trascritto nei registri dello stato civile). Trattasi di un principio non
proclamato expressis verbis
dalla nostra Carta fondamentale; un principio che, ricco di assonanze
ideologiche e di una storia controversa, assume però rilevanza giuridica
potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento. In realtà la
Corte lo trae specificamente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost..
Il principio utilizza un simbolo linguistico ("laicità") che
indica in forma abbreviata profili significativi di quanto disposto dalle
anzidette norme, i cui contenuti individuano le condizioni di uso secondo le
quali esso va inteso ed opera. D'altra parte, senza l'individuazione di tali
specifiche condizioni d'uso, il principio di "laicità" resterebbe
confinato nelle dispute ideologiche e sarebbe difficilmente utilizzabile in
sede giuridica (cfr. Corte cost.,
ordinanza n. 389 del 2004).
6.2. Sennonchè la Sezione disciplinare non ha
ritenuto la responsabilità del dr. T., perchè si era
rifiutato di fare udienza in un'aula ove fosse esposto il crocifisso: anzi ha
specificato che solo in questo caso, e cioè se gli fosse stato imposto di
esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò
poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e
di opinione.
Ne consegue che tutte le censure mosse dal ricorrente in merito alla
tutela del suo diritto di libertà religiosa, di opinione e di coscienza, nonchè, in generale in merito ai diritti inviolabili della
sua persona umana (assolutamente non disconosciuti dalla sentenza impugnata),
sono inconferenti nella fattispecie, in quanto la
Sezione ha cura di specificare che il fatto, posto a base della sua sentenza e
da lei accertato, attiene esclusivamente all'ipotesi di rifiuto di prestare
l'attività giudiziale da parte del dr. T. a decorrere dal maggio 2005, (pag.
22) pur in presenza della possibilità di tenere udienza in altra stanza (il suo
ufficio, come formalmente consigliato dal presidente del Tribunale) o poco dopo
nell'aula senza crocifisso, in cui tale lesione non era ipotizzabile.
6.3. Sotto questo profilo,quindi, i motivi, nella parte in cui attengono
alla pretesa violazione diretta dei diritti inviolabili del dr. T., per la
presenza del crocefisso nell'aula di udienza del ricorrente (con la prospettazione di tale giustificazione del rifiuto), sono
inammissibili, poichè non è in merito a questi fatti
che la Sezione ha fondato la sentenza di colpevolezza.
6.4. La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, statuito
che la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di
specifiche attinenze al "decisum" della
sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi
richiesti dall'art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente
inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d'ufficio (ex multis,
Cass. 07/11/2005, n. 21490; Cass. 24/02/2004, n. 3612; Cass. 23/05/2001, n.
7046).
L'inconferenza del motivo comporta che
l'eventuale accoglimento della censura risulta comunque privo di rilevanza
nella fattispecie, in quanto inidoneo a risolvere la questione decisa con la
sentenza impugnata (Cass. Sez. Unite, 12/05/2008, n. 11650).
6.5. Sono invece, infondati, i ricorsi relativamente alla pretesa
violazione dei suddetti principi di libertà religiosa di opinione e di
coscienza in relazione al punto che il rimedio adottato dell'aula senza
crocefisso finiva per "ghettizzare" il ricorrente. La possibilità di
lesione della libertà religiosa sotto questo profilo rimane esclusa dal rilievo
che l'aula attrezzata senza crocifisso era messa a disposizione di quanti
volessero utilizzarla.
La Sezione ha infatti ritenuto con valutazione di fatto rientrante nelle
esclusive sue competenze di valutazione del merito, che tale aula (priva del
crocefisso) era di pari dignità delle altre e non comportava alcuna
discriminazione (pag. 21).
6.6. Manifestamente infondata è anche la censura per cui il rifiuto del
ricorrente di tenere udienza era giustificato dalla mancata autorizzaizione
ad esporre nelle aule giudiziarie la menorah, simbolo della religione ebraica.
Per poter accogliere tale pretesa, come correttamente rilevato dalla
sentenza impugnata, è necessaria una scelta discrezionale del legislatore, che
allo stato non sussiste.
E' vero che sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia
con un modello di equiparazione verso l'alto (laicità per addizione) che
consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli
della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso
(laicità per sottrazione).
Tale scelta legislativa, però, presuppone che siano valutati una pluralità
di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta ed il bilanciamento tra
l'esercizio della libertà religiosa da parte degli utenti di un luogo pubblico
con l'analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell'ateo o
del non credente, nonchè il bilanciamento tra garanzia
del pluralismo e possibili conflitti tra una pluralità di identità religiose
tra loro incompatibili.
6.7. La Sezione ha ritenuto, invece, che il comportamento del dr. T. fosse
sanzionabile in sede disciplinare, con un iter argomentativo immune dalle
censure che sono poste nei vari motivi.
Sul presupposto fattuale che il dr. T. poteva svolgere le sue funzioni o
in altra stanza priva di simboli religiosi (quale il suo ufficio,
consigliatogli dal presidente del Tribunale) ovvero in una stanza appositamente
attrezzata, la Sezione ha escluso che nella fattispecie si potesse avere una
lesione del diritto fondamentale di libertà di religione e di coscienza e di
opinione del dr. T..
7.1. Il nucleo centrale dell'affermazione della responsabilità
disciplinare del dr. T. è fondato sul fatto che egli si sia sottratto
all'esercizio dell'attività giurisdizionale ingiustificatamente, allorchè egli aveva la possibilità di esercitare le sue
funzioni in ambienti in cui non era affisso il crocifisso.
Il problema che si è posto la Sezione è se il rifiuto dell'attività anche
in tali aule da parte del dr. T. fosse giustificato dal fatto che in varie
altre aule giudiziarie del Paese vi fosse l'ostensione del Crocefisso, con
lesione del principio di laicità dello Stato, e conseguentemente dei diritti di
libertà religiosa e di coscienza degli individui, affermato dalla Costituzione,
dalle convenzioni internazionali e dalle Corti, anche internazionali.
Correttamente la Sezione ritiene che il ricorrente non potesse addurre a giustificazione
del rifiuto delle funzioni giurisdizionali il fatto di principio che nelle
altre aule giudiziarie del Paese vi fossero crocifissi.
La soluzione del problema passa attraverso l'istituto della tutela privata
di diritti propri, di diritti altrui e degli interessi diffusi.
7.2. Anzitutto in materia di rapporto di lavoro, sia pubblico che privato,
si è affermato v colui che è tenuto alla prestazione lavorativa in determinati
casi possa rifiutare la stessa allorchè tale rifiuto
si caratterizzi come forma di legittimo esercizio di autotutela del lavoratore
a fronte di inadempimenti da parte del datore di lavoro, e quindi nella stessa
ottica di cui all'art. 1460 c.c., (Cass. 03/05/2004, n. 8364),segnatamente
quando tali inadempimenti investano diritti inviolabili dell'uomo er quindi, costituzionalmente garantiti (ad es. quello alla
salute: Cass. 17/12/1997, n. 12773).
L'autotutela costituita dal rifiuto della prestazione lavorativa in
presenza della violazione di diritti fondamentali del soggetto, che deve
effettuare la prestazione lavorativa, costituisce una cosiddetta
"autotutela passiva reattiva". Essa consiste in un comportamento di
dichiarata inadempienza, che sarebbe in sè
illegittimo (o addirittura illecito), ma che si assume legittimato dall'accertata
inadempienza della controparte.
Esso è in funzione della reciprocità su cui i rapporti sinallagmatici sono
imperniati.
La disciplina dei poteri di autotutela discende dai precetti sanzionatori
che si inquadrano, mercè il loro carattere permissivo
e senza possibilità di estensione analogica, nell'ordine statale costituzionale
e comunitario. Tali precetti, in previsione di date circostanze, autorizzano il
singolo a tenere un comportamento che solo in quelle circostanze riconosce
legittimo, e che costituisce la difesa di un suo diritto minacciato.
7.3. Le varie forme di iniziativa in cui l'autotutela (intesa come difesa
extragiudiziale) può legittimamente esplicarsi sono oggetto di poteri-mezzi,
coordinati al diritto da tutelare. Essa, quindi, presuppone anzitutto che
sussista la posizione soggettiva di titolarità del diritto tutelato (anche se
in casi determinati l'ordinamento riconosce la possibilità di agire per la
tutela di un diritto di altro soggetto) ed inoltre che tale autotutela si
ispiri a crìteri di idoneità e di proporzionalità tra
la minaccia al diritto e la reazione.
Se il diritto minacciato è un diritto inviolabile (e come tale
costituzionalmente garantito) del soggetto tenuto alla prestazione lavorativa
(in senso ampio), non vi è dubbio che il titolare dello stesso possa espletare
l'autotutela e che questa possa manifestarsi anche attraverso il rifiuto della
prestazione lavorativa, allorchè tale rifiuto è
idoneo ed adeguato ad evitare la lesione del diritto fondamentale
oggettivamente minacciato, lesione non altrimenti evitabile (ovvero evitabile
in modo eccessivamente oneroso).
7.4. Il problema sorge allorchè, come nella
fattispecie, il rifiuto della prestazione lavorativa si pone non a fronte della
lesione di un diritto inviolabile del soggetto tenuto alla prestazione, ma di
un interesse collettivo o diffuso.
Più specificamente e con riguardo alla fattispecie in esame, poichè l'astensione dall'attività giurisdizionale dovuta
costituisce pacificamente un illecito disciplinare se non è giustificata, e poichè la Sezione disciplinare ha escluso in fatto che una
lesione del diritto soggettivo della libertà religiosa, di coscienza e di
opinione vi fosse (essendo possibile utilizzare un ufficio ed aula senza il
crocifisso), il problema che si pone è se, a giustificazione del rifiuto, il
dr. T. poteva far valere il generale principio della laicità dello Stato per la
presenza del crocefisso nelle aule di giustizia della Nazione ovvero la lesione
della libertà religiosa o di pensiero di altri soggetti che partecipavano alle
udienze in altre aule giudiziarie,in cui era esposto il crocefisso.
7.5. Va, anzitutto, escluso per i motivi predetti che il dr. T. potesse
far valere con il suo comportamento la tutela dei predetti diritti di altri
soggetti e ciò per due ordini di ragioni.
Anche quando l'ordinamento riconosce il diritto di intervenire
direttamente ed in via extragiudiziale per la tutela di diritti di altri,
occorre anzitutto che tali "altri" siano determinati o quanto meno
determinabili (non essendo possibile una tutela in incertam
personam). Tutta la disciplina della tutela
extragiudiziale di diritti altrui è strutturata sulla concretezza ed attualità
e non sulla mera ipotizzabilità della messa in
pericolo del diritto (cfr. art. 52 c.p.).
Quindi, anzitutto, occorre che il titolare del diritto inviolabile
minacciato non abbia prestato, sia pure implicitamente, il proprio libero e
legittimo consenso a tale situazione (ovviamente nei limiti della disponibilità
del diritto, cfr. art. 50 c.p.). Deve, infatti, essere chiaro che la tutela di
un diritto di altri, che trova il suo più profondo referente nei doveri di
solidarietà alla base della convivenza civile (art. 2 Cost.), ha sempre come
presupposto che il titolare del diritto sia nell'impossibilità (intesa nel
senso più ampio) di attuare personalmente detta tutela, per cui il soggetto che
agisce in sua vece lo faccia sulla base di un consenso almeno presunto. Questo
concetto è stato idoneamente sviluppato, sia pure con riferimento al più
ristretto e limitato campo dei rapporti patrimoniali in tema di gestione di
affari altrui (cfr. art. 2028 c.c.), ritenendo la stessa lecita non solo in
ipotesi di absentia domini, ma anche allorchè il dominus versi in una situazione soggettiva o
oggettiva da far presumere che egli non rifiuti tale ingerenza altrui nella
tutela dei suoi diritti (art. 2028, Cass. 09/04/2008, n. 9269).
Inoltre tale tutela in forma extragiudiziale è ammessa solo allorchè il diritto altrui sia minacciato da un'offesa
ingiusta. La presenza di un crocefisso può non costituire necessariamente
minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano
un'aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per
essere tali utenti dei cristiani, con la conseguenza che, per la mancanza dei
requisiti sopra elencati in tema di tutela privata di diritti altrui,
l'incolpato non avrebbe potuto rifiutare la propria prestazione professionale
solo perchè in altre aule di giustizia (rispetto a
quella in cui egli operava) era presente il crocifisso, con l'ipotizzata
lesione dei diritti di libertà religiosa e di coscienza degli utenti di quelle
aule.
7.6. Ne consegue che, escluso che il rifiuto del dr. T. di tenere udienze
anche in aule senza simboli religiosi, potesse giustificarsi per la presenza
dei crocifissi in varie altre aule del Paese, come forma di tutela dei diritti
inviolabili di coloro che frequentavano queste ultime aule, va solo esaminato
se tale rifiuto era giustificabile in quanto effettuato per la tutela del
principio della laicità dello Stato.
La laicità dello Stato, sotto il profilo qui in considerazione,
rappresenta un interesse collettivo o diffuso, e come tale adespota perchè facente capo alla popolazione nel suo complesso.
Indipendentemente dal punto se sussista una differenza tra interesse
diffuso ed interesse collettivo (come sostenuto da una corrente dottrinale
minoritaria, per cui i secondi riguarderebbe non l'intera collettività, ma solo
gruppi organizzati),secondo la dottrina maggioritaria gli interessi diffusi
costituiscono un tertiam genus
tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, rappresentando una sorta di
"diritto sociale" o della collettività, perchè
avente ad oggetto una relazione sociale, che non riguarda gli individui privati
in senso stretto, nè gli apparati pubblici, ma si
appunta sulla collettività in quanto tale.
Il problema più delicato, in materia di interessi diffusi, è quindi quello
dell'"azionabilità" degli stessi in
giudizio e della "rappresentatività degli stessi", sotto il profilo
della legittimazione ad agire.
7.7. Proprio per la suddetta natura degli interessi diffusi, la tutela
degli stessi è affidata agli enti esponenziali della collettività nel suo
complesso, salvo che la tutela non sia anche rimessa ad associazioni o enti
collettivi in specìfiche ipotesi previste dalla legge
(L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 9, L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18).
Segnatamente non è possibile per il singolo assumere la tutela e la
rappresentanza di interessi diffusi o collettivi in antitesi con il soggetto
esponenziale e, quindi, in funzione dell'esercizio strumentale dell'azione
popolare, al di fuori dei casi in cui essa è ammessa nel nostro ordinamento.
Tuttavia la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. n.
2207/1978; Cass. S.U. n. 1463/1979) ha ritenuto che sono configurabili accanto
agli interessi cosiddetti diffusi, da parte di collettività unitariamente
considerate, anche la titolarità di interessi individuali, da parte dei singoli
coinvolti dal procedimento stesso. Tali ultimi interessi hanno natura e consistenza
di veri e propri diritti soggettivi, quando riguardino la tutela del bene della
salute, non disponibile e non degradabile per l'intervento
dell'amministrazione, ovvero la tutela di disponibilità esclusive di
determinati beni, i quali traggano dall'ambiente il loro pregio e la loro
potenzialità economica e, quindi, potrebbero venire sostanzialmente perduti per
effetto delle scelte concretamente adottate per detta ubicazione. Eguale
discorso va fatto per tutti gli altri interessi diffusi che si concretino, in
relazione ai singoli soggetti e nelle specifiche fattispecie, in diritti
soggettivi della persona umana. In questo caso il titolare di ogni singolo
diritto soggettivo inviolabile leso ha azione per la sua tutela.
7.8. Da ciò consegue che, mentre la lesione di un proprio diritto
soggettivo inviolabile può essere fatta valere nell'ambito del rapporto di
impiego anche in via di autotutela e, quindi, come causa giustificativa del
rifiuto della prestazione lavorativa, allorchè tale
lesione del diritto soggettivo è esclusa, non può essere fatta valere, come
causa giustificante, la lesione di un interesse diffuso.
Nella fattispecie, poichè la Sezione
disciplinare ha affermato la responsabilità del Dr. T. solo in relazione ai
disservizi verificatisi per il rifiuto di tenere udienze in stanze o aule prive
del crocifisso,e quindi in situazioni che - secondo l'accertamento fattuale
della Sezione - non potevano comportare la lesione del suo diritto di libertà
religiosa, di coscienza o di opinione, non può intentare causa giustificante di
tale rifiuto la pretesa tutela della laicità dello Stato o dei diritti di
libertà religiosa degli altri soggetti che si trovavano nelle altre aule di
giustizia della Nazione, in cui il crocefisso era esposto.
8. Infondata è anche la censura secondo cui in ogni caso i rifiuti di
tenere udienza addebitabili sarebbero solo quelli successivi alla
predisposizione dell'aula senza crocifisso.
A parte il rilievo che già prima della predisposizione dell'aula in
questione vi era la possibilità di tenere udienza nel proprio ufficio, va
osservato che nell'economia dell'affermazione della responsabilità disciplinare
da parte della sentenza impugnata, non rileva il numero di udienze non tenute
ingiustificatamente. Infatti la Sezione ha rilevato che a partire
dall'ultimatum effettuato all'Amministrazione giudiziaria l'1.5.2005 il dr. T.
ha cessato del tutto di tenere udienza. La Sezione ha rilevato in punto di
fatto la totale sottrazione del dr. T. all'attività di servizio dal maggio 2005
al gennaio 2006; che egli non aveva intenzione neppure di attenuare le ricadute
negative della "sfida" da lui lanciata all'amministrazione, tanto che
ebbe ad opporsi decisamente alle modifiche nella distribuzione degli affari,
che gli destinavano una maggiore quantità di lavoro in attività (giudice
tutelare e riscorsi per d.i.), che non richiedevano
la ritualità della aula di udienza.
9. Quanto alla censura della mancata applicazione dei principi di cui alla
sentenza penale n. 4273/2000, va osservato che essa è infondata.
La richiamata sentenza della cassazione penale n. 4273/2000, statuisce che
"costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di presidente,
scrutatore o segretario di seggio elettorale - ove non sia stato l'agente a
domandare di essere ad esso designato - la manifestazione della libertà di
coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al
principio supremo di laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa
dell'organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella dotazione
obbligatoria di arredi destinati a seggi elettorali, pur se casualmente non di
quello di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini
religiose".
9.2. Per quanto la Sezione non abbia preso espressa posizione nei
confronti della sentenza penale n. 4273/2000 (ma a tanto non era tenuta in
quanto essa costituiva solo un precedente in fattispecie apparentemente
analoga, e peraltro difforme da Cass. Pen. sez. 3^, 13.10.1998 n. 10, contro lo
stesso imputato e per fatto identico), va osservato che essa ha esaminato il
fondo del problema, comune alle due fattispecie, ed ha ritenuto che "la
possibilità per il dr. T. di tenere tranquillamente udienza, in condizioni di
piena legittimazione anche sociale, in un'aula priva di simboli religiosi rompe
qualsiasi nesso tra l'esercizio in concreto delle funzioni e la violazione del
suo fondamentale diritto di libertà religiosa (o di libertà di religione) asseritamente derivante dalla presenza, altrove, di un
crocefisso".
10. Tale passaggio argomentativo della sentenza impugnata non presenta
vizi di natura giuridico-logica.
Pur nell'ottica del ricorrente e cioè che l'estensione del crocifisso
pregiudichi la libertà religiosa e di coscienza, correttamente la sentenza
impugnata ha ritenuto che la presenza del crocefisso può ledere il diritto di
libertà religiosa solo se si trova nell'aula in cui egli svolge la sua attività
giurisdizionale.
Esattamente la decisione impugnata ha risolto il conflitto tra l'obbligo
della prestazione professionale ed il diritto di libertà religiosa e di
coscienza, assicurando prevalenza a quest'ultimo, soltanto quando le modalità
dell'esercizio dovuto delle funzioni contrastano con l'espressione delle
libertà stesse in modo diretto e con vincolo di causalità immediata (questo era
stato, in sostanza, anche il principio affermato da Cass. Pen. n. 10/1998,
cit.).
Se invece l'ostensione del crocifisso è effettuata in altre aule
giudiziarie della Nazione, rispetto a quelle dove il dr. T. avrebbe dovuto
esercitare le funzioni giurisdizionali, ciò non può integrare lesione del
diritto di libertà religiosa del ricorrente.
11. Con il nono motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità della
sentenza per violazione dell'art. 477 c.p.c. 1930,
cioè per vizio di extrapetizione, nonchè nullità
della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c.,
omessa motivazione. Violazione del D.Lgs. n. 109 del
2006, art. 20; R.D. n. 511 del 1946, art. 29, art. 2909 c.c., e art. 324 c.p.c.; artt. 13324, 1334 e 1335 c.c., nonchè
artt. 24 e 111 Cost., e art. 6 Convenzione sui diritti dell'uomo.
Infine il ricorrente lamenta il vizio motivazionale.
Secondo il ricorrente la sentenza impugnata è incorsa nella violazione
dell'art. 477 c.p.p., cioè in vizio di
extrapetizione, perchè, essendo egli stato tratto a
giudizio per aver presentato delle dichiarazioni di astensione lo stesso giorno
o in prossimità dell'udienza, era stato condannato sulla base del diverso
assunto che egli, pur avendo manifestato l'irremovibile volontà di astenersi
dall'udienza con la dichiarazione iniziale dell'1.5.2005, avrebbe dovuto in
ogni caso confermare tale rifiuto in occasione delle singole udienze: secondo
il ricorrente tale assunto della Sezione, in presenza dell'atto unilaterale di
volontà consistente nella dichiarazione di astensione non necessitava di
ulteriori dichiarazioni confermative, fino a revoca,per cui la contraria
opinione della Sezione violava gli artt. 1324, 1334 e 1335 c.c..
Secondo il ricorrente l'assunto della Sezione, che considerava le
comunicazioni effettuate in corrispondenza delle udienze, con cui si dava
contezza dell'avvenuta astensione, come comunicazioni di volersi astenere e non
di astensione già avvenuta, comportava la violazione dell'art. 1362 c.p.c. e segg..
2.1. Il motivo è infondato.
Con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e
sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale,
nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si
riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire ad
un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale
pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad
accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e
mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di
garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando
l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi
nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione
(Cass. pen., Sez. Unite, 19/06/1996, n. 16).
12.2. Nella fattispecie, come correttamente rilevato dalla Sezione, in
assenza di un impedimento legittimo a tenere le udienze, ed alla luce dei
reiterati inviti diretti alla prosecuzione dell'attività giudiziaria, la
sostituzione per una pluralità indeterminata di udienza necessitava di volta in
volta di verifiche e di una conferma, in quanto il dr. T. poteva sempre
desistere dai propri propositi e, quindi, riprendere l'attività. Ne consegue
che il principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 477 c.p.p. 1930 ed all'art. 521 c.p.p.
1989 non risulta violato, poichè il fatto ritenuto in
sentenza si trova rispetto a quello contestato non in rapporto di eterogeneità,
nel senso che si sia realizzata una variazione essenziale dell'addebito,
rispetto alla quale l'incolpato non è stato in grado di difendersi.
Tra il fatto contestato e quello ritenuto, vi è il nucleo comune di aver
determinato il disservizio organizzativo per le sostituzioni.
Inoltre e in ogni caso il dr. T. è stato in grado di difendersi in
relazione a questa modifica dell'incolpazione tant'è
che sul punto dell'irritualità di tale modifica della contestazione il dr. T.
si è difeso davanti alla stessa Sezione e la sentenza motiva il suo dissenso da
tale difesa.
12.3. Infondata è la ritenuta violazione degli artt. 1324, 1334 e 1335
c.c., nonchè dell'art. 1362 e segg. attinenti alla
regolamentazione dei rapporti di contenuto patrimoniale e tra privati.
In ogni caso la Sezione non ha ritenuto che il Dr. T. non avesse dato comunicazione
della volontà di astenersi, ma ha solo ritenuto che egli dovesse anche
confermare per ogni singola udienza tale sua volontà, in quanto aveva sempre la
possibilità di ripristinare il suo servizio.
Se poi le comunicazioni di avvenuta astensione fossero solo una
dichiarazione di scienza di un fatto già avvenuto, come sostiene il ricorrente
oppure una dichiarazione di volontà di astenersi dall'udienza, come sostenuto
dalla Sezione, non è rilevante nella fattispecie, una volta ritenuto che il dr.
T. avrebbe dovuto riconfermare l'astensione per ogni singola udienza, potendo
sempre egli ripristinare la regolarità delle udienze, pur a fronte di una
generale dichiarazione di astensione.
13. Con il decimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente
e contraddittoria motivazione per avere la Sezione connotato di negatività il
rifiuto del dr. T. di tenere le udienze, asserendo che tale comportamento è
stato effettuato per mere questioni di principio e che ha mostrato faziosità e
scarso equilibrio e che ha imposto soluzioni arbitrarie per imporre la
soluzione voluta. Il ricorrente lamenta che la Sezione ha applicato la sanzione
della rimozione, con funzione di "prevenzione speciale", cioè tenendo
conto della prevedibile ed immediata reiterazione delle medesime condotte, in
caso di riattribuzione delle funzioni.
14.1.11 motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. Il vizio di
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denuncìabile
con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c.,
n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia
riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della
controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un
insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire
l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della
sentenza. Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformità
dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto
a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a
quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine
valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza,
scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i
fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova (Cass.
20/08/2003, n. 12216).
In effetti la censura sollecita una diversa lettura e valutazione delle
risultanze di causa, rispetto a quella datane dalla Sezione disciplinare e
sotto questo profilo è inammissibile.
14.2. Quanto alla censura secondo cui erroneamente la Sezione avrebbe
individuato la sanzione della rimozione per evitare che l'incolpato reiterasse
il comportamento di rifiuto ingiustificato, va osservato che, in tema di
procedimento disciplinare a carico di magistrati, alle Sezioni Unite della S.C.
non è consentito sindacare sul piano del merito le valutazioni del giudice
disciplinare, dovendo la Corte medesima limitarsi ad esprimere un giudizio
sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della
motivazione che sorregge la decisione finale (Cass. Sez. Unite, 19/09/2005, n.
18451).
In particolare la valutazione della gravità dell'illecito, anche in ordine
al riflesso del fatto oggetto dell'incolpazione sulla
stima del magistrato, sul prestigio della funzione esercitata e sulla fiducia
nell'istituzione, e la determinazione della sanzione adeguata - nel caso di
specie, la rimozione - rientrano negli apprezzamenti di merito attribuiti alla
Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il cui
giudizio è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione
congrua e immune da vizi logico-giuridici (Cass. Civ., Sez. Unite, 08/04/2009,
n. 8615).
14.3. Nella fattispecie la motivazione adottata immune da vizi logici o
giuridici rilevabili in questa sede di sindacato di legittimità.
Segnatamente, essendo il procedimento disciplinare finalizzato agli
accertamenti degli illeciti ad alla applicazione della competente sanzione,
nell'applicazione di quest'ultima esso si ispira agli stessi criteri, a cui si
ispirano gli altri sistemi sanzionatori.
Nella determinazione del trattamento sanzionatorìo
il giudice gode di una discrezionalità vincolata, per cui deve dar ragione dei
criteri legali che sono sintetizzabili nella retribuzione (gravità complessiva
del fatto) e nella prevenzione (in termine di attitudine dell'incolpato a
reiterare l'illecito disciplinare) (argomentando anche da quanto emerge
dall'art. 133 c.p., relativo al principale sistema sanzionatorio; (Cass. Pen., 18/05/1990,
Sterlino, Cass. Pen., 14/09/1990, Dimino).
14.4. Conseguentemente, è immune da difetto motivazionale l'impugnata
sentenza che nella determinazione della sanzione della rimozione, ha tenuto
conto della gravità del fatto, dei precedenti disciplinari del dr. T. (n. 3
ammonimenti e n. 1 censura), nonchè della prevedibile
ed immediata reiterazione delle medesime condotte, in caso di riattribuzione delle funzioni. A tal fine la Sezione
osserva che l'incolpato aveva esplicitamente dichiarato che non avrebbe
deflesso da tale comportamento neanche in futuro, se gli fosse stata data
occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di
esercitarle.
15. Con l'undicesimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, per aver ritenuto
che le osservazioni mosse avverso l'assegnazione delle funzioni di giudice
tutelare trovassero spiegazione nel non attenuare le ricadute negative del
rifiuto di tenere udienza, mentre tale ricostruzione dei fatti è falsa, poichè egli aveva motivato la vera spiegazione delle
osservazioni mosse e consistenti nel non essere marginalizzato
nell'espletamento di mansioni di scarso impegno professionale.
16. Il motivo è inammissibile, poichè esso attiene
alla valutazione dei fatti e comportamenti, effettuata dalla Sezione: da una
parte l'assegnazione delle funzioni di giudice tutelare e di tutti i ricorsi
per decreto ingiuntivo e dall'altra le contrarie osservazioni in merito
espresse dal dr. T..
Su tali fatti la Sezione ha ritenuto di esprimere una valutazione diversa
da quella del ricorrente, ma essa, non presentando vizi di omissione,
contraddittorietà o insufficienza di motivazione, non è censurabile in questa
sede di sindacato della sola legittimità.
17. Con il dodicesimo motivo il ricorrente lamenta la nullità della
sentenza per violazione dell'art. 477 c.p. 1930 (artt. 522 e 178 c.p. 1989) e
artt. 24 e 111 Cost., e degli artt. 6 e 13 della convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con L. n. 848 del 1955, nonchè il vizio motivazionale dell'impugnata sentenza.
Il ricorrente lamenta l'extrapetizione della sentenza per aver affermato
che egli aveva mostrato "faziosità, aggressività verbale e scarso
equilibrio, andando alla ricerca di reazioni decise attraverso iniziative
provocatorie, quale l'ostensione della pera metallica, strumento di tortura
dell'inquisizione, durante un dibattimento.
Assume il ricorrente che tutto ciò non gli sarebbe stato contestato, con
conseguente nullità della sentenza.
18.1. Il motivo è infondato.
Anzitutto osserva questa Corte che non sussiste la violazione del
principio di omessa correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 477 c.p.
1930 (ed artt. 521 e 522 c.p.p. 1989) in relazione al
riferimento all'ostensione in udienza dello strumento di tortura
dell'inquisizione (la pera di ferro).
Infatti il T. non è stato ritenuto colpevole di un illecito concretizzantesi in questo episodio, ma, ferma
l'imputazione ascritta del disservizio causato ingiustificatamente con il
rifiuto di esercizio dell'attività giurisdizionale, anche dopo che era stata
predisposta un'aula priva di crocefisso, la Sezione stigmatizza il suo
comportamento di "iniziative provocatorie" nel tenere questa
condotta, quale quella dell'ostensione in udienza della pera di ferro).
Si tratta quindi di una modalità di dettaglio della condotta ascritta.
18.2. La giurisprudenza penale ha statuito in proposito che l'immutazione del fatto di rilievo, ai fini della eventuale
applicabilità della norma dell'art. 521 c.p.p., è
solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in
quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalità e l'elemento
psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l'azione realizzata risulta
completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile
con le difese apprestate dall'imputato per discolparsene. Non può parlarsi di immutazione del fatto quando il fatto tipico rimane
identico a quello contestato nei suoi elementi essenziali e cambiano solo in
taluni dettagli le modalità di realizzazione della condotta (Cass. Pen., Sez.
1^, 14/04/1999, n. 6302).
18.3. Quanto, invece, alle altre circostanze oggetto del motivo di
ricorso, esse non attengono alla contestazione di altri fatti diversi rispetto
a quelli oggetto dell'incolpazione, ma sono
valutazioni effettuate dalla corte in merito al comportamento tenuto
dall'incolpato nel corso del perfezionamento dell'illecito disciplinare
contestato.
Trattandosi di valutazioni sulla condotta dell'incolpato, esse non
potevano costituire oggetto della contestazione, ma attenevano necessariamente
al momento decisionale, deputato a tale attività valutativa.
19. Con il tredicesimo motivo il ricorrente ha lamentato la nullità della
sentenza per violazione dell'art. 477 c.p.p. 1930, e
artt. 522 e 178 c.p.p. 1989, in relazione agli artt.
112 e 111 Cost., e dell'art. 6 della convenzione per i diritti dell'uomo, nonchè motivazione omessa o insufficiente (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Lamenta il ricorrente che la Sezione disciplinare non ha esaminato la sua
tesi difensiva (qualificata come propria proposta mediatoria),
secondo cui ingiustificatamente non era stata accolta la sua richiesta di
esporre, accanto al crocifisso anche il simbolo del sua religione ebraica, e
cioè la menorah.
20.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. E'
infondato poichè la sentenza sul punto si riporta a
quanto esposto dall'ordinanza di sospensione cautelare, facendolo evidentemente
proprio, secondo cui "tale pretesa per poter essere accolta richiede che
il legislatore compia scelte discrezionali che allo stato non sono state
compiute" (pag. 20 della sentenza). Me consegue che non sussiste
l'omissione di pronunzia su una tesi difensiva del dr. T..
20.2. Il motivo è invece inammissibile nella parte in cui censura punti
dell'ordinanza di sospensione cautelare, non trasfusi nella sentenza impugnata.
Infatti l'impugnazione attiene esclusivamente alla sentenza della Sezione
disciplinare e non all'ordinanza cautelare, con la conseguenza che solo
quest'ultima può essere oggetto di censura.
Solo in relazione ai punti dell'ordinanza, che siano stati fatti propri
dalla sentenza, possono proporsi censure, ma quali punti (ormai) della
sentenza, che presentino vizi giuridici o logici.
21. Il ricorso va, pertanto rigettato. Nulla per le spese.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto personalmente dal ricorrente e
depositato in cancelleria il 20.9.2010. Rigetta il ricorso proposto dai
difensori del ricorrente e notificato l'11 ottobre 2010.
Nulla per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2011.
Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2011.