SENTENZA DELLA CORTE (Grande
Sezione)
15
luglio 2021 (*)
«Rinvio
pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità
di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro –
Divieto di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni
personali – Norma interna di un’impresa che vieta di indossare, sul luogo
di lavoro, qualsiasi segno visibile di natura politica, filosofica o religiosa
o di indossare segni politici, filosofici o religiosi vistosi e di grandi
dimensioni – Discriminazione diretta o indiretta –
Proporzionalità – Bilanciamento della libertà di religione e di altri
diritti fondamentali – Validità della politica di neutralità adottata dal
datore di lavoro – Necessità di dimostrare l’esistenza di un danno
economico subito dal datore di lavoro»
Nelle
cause riunite C‑804/18 e C‑341/19,
aventi
ad oggetto due domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi
dell’articolo 267 TFUE, rispettivamente, dall’Arbeitsgericht
Hamburg (Tribunale del lavoro di Amburgo, Germania) (C‑804/18), e dal Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro, Germania)
(C‑341/19), con decisioni del 21 novembre 2018 e del 30 gennaio 2019,
pervenute in cancelleria, rispettivamente, il 20 dicembre 2018 e il 30 aprile
2019, nei procedimenti
IX
contro
WABE
eV (C‑804/18),
e
MH
Müller Handels GmbH
contro
MJ (C‑341/19),
LA CORTE
(Grande Sezione),
composta
da K. Lenaerts, presidente,
R. Silva de Lapuerta, vicepresidente,
A. Prechal, M. Vilaras,
E. Regan, L. Bay Larsen, N. Piçarra e A. Kumin,
presidenti di sezione, T. von Danwitz,
C. Toader, M. Safjan,
F. Biltgen (relatore), P.G. Xuereb, L.S. Rossi e I. Jarukaitis,
giudici,
avvocato
generale: A. Rantos
cancelliere:
D. Dittert, capo unità
vista la
fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 24 novembre 2020,
considerate
le osservazioni presentate:
– per
IX, da K. Bertelsmann, Rechtsanwalt;
– per
la WABE eV, da C. Hoppe, Rechtsanwalt;
– per
la MH Müller Handels GmbH, da F. Werner, Rechtsanwalt;
– per
MJ, da G. Sendelbeck, Rechtsanwalt;
– per
il governo greco, da E.M. Mamouna e K. Boskovits, in qualità di agenti;
– per
il governo polacco, da B. Majczyna, in qualità
di agente;
– per
il governo svedese, da H. Eklinder,
C. Meyer-Seitz, H. Shev,
J. Lundberg e A. Falk, in qualità di
agenti;
– per
la Commissione europea, da B.-R. Killmann,
M. Van Hoof e C. Valero, in qualità di
agenti,
sentite
le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 25 febbraio
2021,
ha
pronunciato la seguente
Sentenza
1 Le
domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo
2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettere a) e b), dell’articolo 4, paragrafo 1, e
dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27
novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303,
pag. 16), nonché degli articoli 10 e 16 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
2 La
domanda di pronuncia pregiudiziale proposta nella causa C‑804/18 è stata
presentata nell’ambito di una controversia tra IX e il suo datore di lavoro, la
WABE eV (in prosieguo: la «WABE»), un’associazione registrata in Germania che
gestisce numerosi asili nido, in merito alla sospensione di IX dalle sue
funzioni a seguito del suo rifiuto di rispettare il divieto imposto dalla WABE
ai suoi dipendenti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di
natura politica, filosofica o religiosa quando sono a contatto con i genitori o
i loro figli.
3 La
domanda di pronuncia pregiudiziale proposta nella causa C‑341/19 è stata
presentata nell’ambito di una controversia tra la MH Müller Handels
GmbH (in prosieguo: la «MH»), società che gestisce una
catena di drogherie nel territorio tedesco, e MJ, una sua dipendente, in merito
alla legalità dell’ingiunzione rivolta dalla MH a quest’ultima di astenersi
dall’indossare, sul luogo di lavoro, segni vistosi e di grandi dimensioni di
natura politica, filosofica o religiosa.
Contesto
normativo
Direttiva
2000/78
4 I
considerando 1, 4, 11 e 12 della direttiva 2000/78 così recitano:
«(1) Conformemente
all’articolo 6 [TUE], l’Unione europea si fonda sui principi di libertà,
democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello
Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e rispetta
i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla [c]onvenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali[, firmata a Roma il 4 novembre 1950] e quali risultano dalle
tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi
generali del diritto [dell’Unione].
(...)
(4) Il diritto
di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le
discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla [d]ichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla
convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite
relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici,
sociali e culturali e dalla [c]onvenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti
gli Stati membri sono firmatari. La [c]onvenzione
n. 111 dell’Organizzazione internazionale del lavoro proibisce la
discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
(...)
(11) La
discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o
tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del
trattato [FUE], in particolare il raggiungimento di un elevato livello di
occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della
qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera
circolazione delle persone.
(12) Qualsiasi
discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni
personali, handicap, età o tendenze sessuali nei settori di cui alla presente
direttiva dovrebbe essere pertanto proibita in tutta [l’Unione europea].
(...)».
5 L’articolo
1 di tale direttiva così dispone:
«La
presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle
discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le
condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il
principio della parità di trattamento».
6 L’articolo
2 di detta direttiva prevede quanto segue:
«1. Ai
fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si
intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su
uno dei motivi di cui all’articolo 1.
2. Ai
fini del paragrafo 1:
a) sussiste
discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui
all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia
stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) sussiste
discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi
apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare
svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di
altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di
una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre
persone, a meno che:
i) tale
disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da
una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano
appropriati e necessari; (...)
(...)
5. La
presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione
nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza
pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla
tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui».
7 L’articolo
3, paragrafo 1, della medesima direttiva così dispone:
«Nei
limiti dei poteri conferiti all[’Unione], la presente
direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del
settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto
attiene:
(...)
c) all’occupazione
e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la
retribuzione;
(...)».
8 Ai
sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78:
«Gli
Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio
della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste
nella presente direttiva».
Diritto
tedesco
Il GG
9 L’articolo
4, paragrafi 1 e 2, del Grundgesetz für die Bundesrepublik
Deutschland (legge fondamentale della Repubblica federale di Germania), del 23
maggio 1949 (BGBl. 1949 I, pag. 1; in prosieguo: il «GG») così dispone:
«(1) La
libertà di fede e di coscienza e la libertà di confessione religiosa e
ideologica sono inviolabili.
(2) È
garantito il libero esercizio del culto».
10 L’articolo
6, paragrafo 2, del GG prevede quanto segue:
«La cura
e l’educazione dei figli sono un diritto naturale dei genitori e il primo
dovere che su di loro incombe. La comunità statale vigila sulla loro
attuazione».
11 L’articolo
7, paragrafi da 1 a 3, del GG è del seguente tenore letterale:
«1. L’intero
sistema scolastico è soggetto al controllo statale.
2. I
titolari della responsabilità genitoriale hanno diritto di decidere sulla
partecipazione del figlio alle lezioni di religione.
3. Nelle
scuole pubbliche, ad eccezione delle scuole laiche, la religione è materia
ordinaria di insegnamento. Salvo il diritto di controllo dello Stato, le
lezioni di religione sono impartite in conformità ai principi delle comunità
religiose. Nessun insegnante può essere costretto a impartire le lezioni di
religione contro la sua volontà».
12 L’articolo
12 del GG prevede quanto segue:
«(1) Tutti
i tedeschi hanno il diritto di scegliere liberamente la professione, il luogo e
le sedi di lavoro e la formazione. L’esercizio della professione può essere
regolato per legge o in base a una legge.
(...)».
L’AGG
13 L’Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz
(legge generale sulla parità di trattamento), del 14 agosto 2006 (BGBl. 2006 I, pag. 1897; in
prosieguo: l’«AGG»), mira a trasporre nel diritto tedesco la direttiva
2000/78.
14 L’articolo
1 dell’AGG, che stabilisce l’obiettivo della legge, così recita:
«L’obiettivo
della presente legge è la prevenzione o l’eliminazione di qualsiasi
discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica, il sesso, la religione
o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali».
15 L’articolo
2, paragrafo 1, dell’AGG così dispone:
«In
virtù della presente legge, le discriminazioni fondate su uno dei motivi
indicati all’articolo 1 sono illecite per quanto attiene:
1. alle
condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione,
indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia
professionale, nonché alle condizioni riguardanti la promozione;
2. alle
condizioni di occupazione e di lavoro, comprese la retribuzione e le condizioni
di licenziamento, in particolare quelle riportate negli accordi e provvedimenti
individuali e collettivi, e alle misure adottate al momento dell’esecuzione e
della cessazione di un rapporto di lavoro nonché in caso di promozione;
(...)».
16 L’articolo
3, paragrafi 1 e 2, dell’AGG, prevede quanto segue:
«1. Sussiste
discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui
all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia
stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Con riferimento
alle ipotesi di cui all’articolo 2, paragrafo 1, numeri da 1 a 4, sussiste
discriminazione diretta fondata sul sesso anche quando una donna è trattata
meno favorevolmente a causa della gravidanza o della maternità.
2. Sussiste
discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi
apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio
alcune persone rispetto ad altre, sulla base di uno dei motivi indicati
all’articolo 1, a meno che tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano
oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per
il suo conseguimento siano appropriati e necessari».
17 L’articolo
7, paragrafi da 1 a 3, dell’AGG così dispone:
«1. I
lavoratori non devono essere soggetti a discriminazione per alcuno dei motivi
elencati all’articolo 1; ciò vale anche quando l’autore della discriminazione
si limiti a supporre la presenza di uno dei motivi di cui all’articolo 1
nell’ambito del fatto discriminatorio.
2. Le
disposizioni degli accordi che violano il divieto di discriminazione ai sensi
del paragrafo 1 sono inefficaci.
3. Una
discriminazione ai sensi del paragrafo 1 da parte del datore di lavoro o del
lavoratore costituisce violazione dei doveri contrattuali».
18 Ai
sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, dell’AGG:
«Una
differenza di trattamento per uno dei motivi di cui all’articolo 1 è consentita
quando tale motivo, a causa della natura dell’attività lavorativa da esercitare
o delle condizioni in cui essa viene esercitata, costituisce un requisito
essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la
finalità sia legittima e il requisito proporzionato».
19 L’articolo
15 dell’AGG così dispone:
«1. In
caso di violazione del divieto di discriminazione, il datore di lavoro è tenuto
a risarcire il danno che ne risulta. Tale norma non si applica qualora il
datore di lavoro non sia responsabile della violazione di detto obbligo.
2. Per
quanto riguarda il danno non patrimoniale, il lavoratore ha diritto a un
adeguato risarcimento pecuniario. In caso di mancata assunzione il risarcimento
non può eccedere tre stipendi mensili, qualora il lavoratore o la lavoratrice
non sarebbe stato assunto o assunta nemmeno in caso di selezione non
discriminatoria.
3. In
caso di applicazione dei contratti collettivi, il datore di lavoro è tenuto a
risarcire il danno solo in presenza di dolo o colpa grave».
Il codice civile
20 Ai
sensi dell’articolo 134 del Bürgerliches Gesetzbuch (codice civile), «[q]ualsiasi negozio giuridico contrario a un divieto di legge
è nullo salvo che la legge disponga altrimenti».
Il GewO
21 L’articolo
106 del Gewerbeordnung (codice relativo all’esercizio
delle professioni industriali, commerciali e artigianali; in
prosieguo: il «GewO»), così dispone:
«Il
datore di lavoro può precisare il contenuto, il luogo e l’orario della
prestazione lavorativa, a sua ragionevole discrezione, nei limiti in cui tali
condizioni di lavoro non siano definite dal contratto di lavoro, dalle
disposizioni di un accordo aziendale o di un contratto collettivo oppure dalla
legge. Ciò vale anche per quanto riguarda il rispetto dell’ordine interno
dell’impresa da parte del lavoratore nonché il comportamento di quest’ultimo
nell’impresa. Nell’esercizio di tale discrezione il datore di lavoro deve
tenere in considerazione anche eventuali handicap del lavoratore».
Procedimenti
principali e questioni pregiudiziali
Causa C‑804/18
22 La
WABE gestisce un notevole numero di asili nido situati in Germania, presso i
quali lavorano oltre 600 dipendenti e sono seguiti circa 3 500 bambini.
Essa è apartitica e aconfessionale.
23 Dalla
domanda di pronuncia pregiudiziale in tale causa risulta che, nel suo lavoro
quotidiano, la WABE segue e condivide senza riserve le raccomandazioni della
città di Amburgo (Germania) per l’istruzione e l’educazione dei bambini
applicabili nelle strutture giornaliere, pubblicate a marzo 2012
dall’amministrazione del lavoro, degli affari sociali, della famiglia e
dell’integrazione della città di Amburgo. Tali raccomandazioni prevedono, in
particolare, che «[t]utti i centri giornalieri per
l’infanzia hanno il compito di affrontare e spiegare le questioni etiche
fondamentali nonché le convinzioni religiose e di altro tipo, quali elementi
della vita. Gli asili danno, dunque, la possibilità ai bambini di confrontarsi
con le questioni esistenziali relative alla gioia e al dolore, alla salute e
alla malattia, alla giustizia e all’ingiustizia, alla colpa e all’insuccesso,
alla pace e al conflitto, così come con la questione di Dio. Essi aiutano i
bambini a esternare sensibilità e convinzioni su tali questioni. La possibilità
di affrontare dette questioni con curiosità e spirito di ricerca conduce a
confrontarsi con i contenuti e le tradizioni degli orientamenti religiosi e
culturali presenti nel gruppo dei bambini. In questo modo si sviluppano
considerazione e rispetto per le altre religioni, culture e convinzioni
personali. Tale confronto rafforza l’auto‑consapevolezza del bambino e la
sua esperienza di una società funzionale. È parte di ciò anche far conoscere ai
bambini, nel corso dell’anno, le feste di origine religiosa e far sì che essi
le organizzino in modo attivo. Nell’incontro con altre religioni i bambini
imparano a conoscere diverse forme di raccoglimento, di fede e di
spiritualità».
24 IX
è un’educatrice specializzata e lavora per la WABE dal 2014. All’inizio del
2016 ha deciso di indossare un velo islamico. Dal 15 ottobre 2016 al 30 maggio
2018 ha usufruito di un congedo parentale.
25 Nel
marzo 2018 la WABE ha adottato l’«Istruzione di servizio per il rispetto del
principio di neutralità» al fine di applicarla nelle sue strutture, della quale
IX è venuta a conoscenza il 31 maggio dello stesso anno. Tale istruzione
dispone, in particolare, che la WABE «è aconfessionale e accoglie espressamente
con favore la pluralità religiosa e culturale. Al fine di garantire lo sviluppo
individuale e libero dei bambini per quanto riguarda la religione, le
convinzioni personali e la politica, i collaboratori (...) sono esortati a
rispettare rigorosamente l’obbligo di neutralità vigente nei confronti di
genitori, bambini e altri terzi. Rispetto a essi WABE persegue una politica di
neutralità politica, ideologica e religiosa. Ad eccezione del personale
pedagogico, gli obblighi imposti ai fini del rispetto del principio di
neutralità non sono applicabili agli addetti della WABE che lavorano nella sede
centrale, poiché essi non hanno contatti né con i bambini né con i genitori. In
tale contesto le regole che seguono devono intendersi come «principi per il
concreto rispetto dell’obbligo di neutralità sul luogo di lavoro:
– sul
luogo di lavoro i collaboratori non possono fare nessuna esternazione di tipo
politico, ideologico o religioso nei confronti di genitori, bambini o terzi.
– Sul
luogo di lavoro, alla presenza di genitori, bambini o terzi, i collaboratori
non possono indossare nessun segno visibile relativo alle loro convinzioni
politiche, personali o religiose.
– Sul
luogo di lavoro i collaboratori non possono compiere nessun rito derivante da
dette convinzioni alla presenza di genitori, bambini o terzi».
26 Nella
«Scheda informativa sull’obbligo di neutralità» redatta dalla WABE si legge
quanto segue in risposta alla questione se possano essere indossati il
crocifisso cristiano, il velo musulmano o la kippah ebraica:
«No, non
è permesso perché i bambini non devono essere influenzati dagli educatori per
quanto riguarda la religione. La scelta volontaria di un abbigliamento
determinato dalla religione o dalle convinzioni personali è contraria
all’obbligo di neutralità».
27 Il
1° giugno 2018 IX si è presentata sul suo luogo di lavoro indossando un
velo islamico. Essendosi rifiutata di toglierlo, è stata provvisoriamente
sospesa dalla direttrice della struttura.
28 Il
4 giugno 2018 IX si è presentata di nuovo al lavoro indossando un velo
islamico. Le è stato consegnato un’ammonizione scritta nella medesima data, con
cui le veniva contestato il fatto di avere indossato il velo il 1° giugno
2018, ed è stata esortata, alla luce del principio di neutralità, a svolgere in
futuro il proprio lavoro senza velo. Essendosi nuovamente rifiutata di togliere
detto velo, IX è stata mandata a casa e provvisoriamente sospesa. Il medesimo
giorno ella ha ricevuto una nuova ammonizione.
29 Nel
medesimo periodo, la WABE è riuscita a far togliere a una dipendente un
ciondolo a forma di croce che ella indossava.
30 IX
ha adito il giudice del rinvio con un ricorso volto a ottenere che la WABE
fosse condannata a eliminare dal suo fascicolo personale le ammonizioni
relative all’uso del velo islamico. A sostegno del suo ricorso, essa fa valere,
anzitutto, che, nonostante il carattere generale del divieto di indossare in
modo visibile segni di natura politica, filosofica o religiosa, tale divieto
riguarda direttamente l’uso del velo islamico e costituisce quindi una
discriminazione diretta, poi, che tale divieto concerne esclusivamente le donne
e deve quindi essere esaminato anche alla luce del divieto di discriminazioni
fondate sul sesso e, infine, che tale divieto riguarda soprattutto le donne che
provengono da un contesto di immigrazione, sicché esso è tale da costituire
anche una discriminazione basata sull’origine etnica. Peraltro, il Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale,
Germania) avrebbe dichiarato che il divieto di indossare il velo islamico sul
lavoro, in una struttura giornaliera per bambini, costituiva un grave
pregiudizio alla libertà di fede e di religione e dovrebbe basarsi, per essere
ammissibile, su un rischio certo e concreto. Infine, la sentenza del 14 marzo
2017, G4S Secure Solutions (C‑157/15, EU:C:2017:203), non consentirebbe
di opporsi alla domanda di eliminare dette ammonizioni. Infatti, in tale
sentenza, la Corte avrebbe soltanto fissato standard minimi nel diritto
dell’Unione, sicché il livello di tutela contro la discriminazione raggiunto in
Germania, grazie alla giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht
(Corte costituzionale federale) relativa all’articolo 4, paragrafo 1, del GG e
all’articolo 8 dell’AGG, non può essere rivisto al ribasso.
31 La
WABE chiede al giudice del rinvio di rigettare tale ricorso. A sostegno di
detta domanda, essa fa valere, tra l’altro, che la norma interna che vieta di
indossare in modo visibile segni politici, filosofici o religiosi è conforme
all’articolo 106, prima frase, del GewO, letto in
combinato disposto con l’articolo 7, paragrafi da 1 a 3, dell’AGG, e che tali
disposizioni nazionali dovrebbero essere interpretate conformemente al diritto
dell’Unione. Orbene, dalla sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions (C‑157/15,
EU:C:2017:203), risulterebbe che un datore di lavoro privato è autorizzato ad
attuare una politica di neutralità all’interno dell’impresa, a condizione di perseguirla
in modo coerente e sistematico e di limitarla ai dipendenti che sono a contatto
con i clienti. Non sussisterebbe una discriminazione indiretta se la
disposizione di cui trattasi è oggettivamente giustificata da una finalità
legittima, quale la volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di
neutralità nell’ambito dei contatti con i clienti, e se i mezzi per il
conseguimento di tale finalità sono appropriati e necessari. Orbene, tale
sarebbe l’ipotesi che ricorrerebbe nel caso di specie. Peraltro, IX non può
essere assegnata ad un posto che non implichi contatti con i bambini e i loro
genitori, in quanto un posto di tal genere non corrisponderebbe alle sue
capacità e alle sue qualifiche. Con la sua sentenza del 14 marzo 2017, G4S
Secure Solutions (C‑157/15, EU:C:2017:203), la Corte avrebbe
definitivamente risolto la questione del bilanciamento dei diritti fondamentali
alla luce della Carta nel caso di un obbligo di neutralità imposto dal datore
di lavoro. Dato che l’articolo 3, paragrafo 2, dell’AGG sarebbe diretto a
trasporre il diritto dell’Unione, i giudici tedeschi non possono procedere a un
diverso bilanciamento della libertà di religione, come quello accolto dal Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale),
senza violare il primato del diritto dell’Unione e il principio
dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione. Peraltro, anche
supponendo che occorra dimostrare l’esistenza di un rischio concreto o di un
danno economico concreto per limitare la libertà di religione, una tale prova
sarebbe del pari fornita nel caso di specie, dal momento che dai post della
ricorrente nel procedimento principale pubblicati sul suo profilo personale di
un social network risulterebbe che ella, con il suo comportamento, intendeva
influenzare i terzi in modo mirato e deliberato.
32 Alla
luce di tali argomenti, il giudice del rinvio ritiene che IX potrebbe essere
stata oggetto di una discriminazione diretta basata sulla religione, ai sensi
dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, a causa del
collegamento tra il trattamento sfavorevole da essa subito, vale a dire
l’emissione di un’ammonizione, e la caratteristica tutelata costituita dalla
religione.
33 Nell’ipotesi
di assenza di discriminazione diretta, il giudice del rinvio chiede se una
politica di neutralità adottata da un’impresa possa costituire una
discriminazione indiretta basata sulla religione, o addirittura, tenuto conto
del fatto che il divieto controverso nel procedimento principale concerne nella
maggior parte dei casi le donne, una discriminazione indiretta basata sul
sesso. In tale contesto, esso si interroga se una differenza di trattamento
basata sulla religione e/o sul sesso possa essere giustificata da una politica
di neutralità introdotta al fine di tener conto dei desideri dei clienti.
Peraltro, nell’ipotesi di una differenza di trattamento indirettamente basata
sulla religione, il giudice del rinvio intende stabilire se, ai fini dell’esame
dell’adeguatezza di tale differenza di trattamento, possa prendere in
considerazione i criteri previsti all’articolo 4, paragrafo 1, del GG in quanto
disposizione più favorevole ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della
direttiva 2000/78.
34 In
tali circostanze, l’Arbeitsgericht Hamburg (Tribunale
del lavoro di Amburgo, Germania) ha deciso di sospendere il procedimento e di
sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se
un’istruzione unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare
qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o
religiose discrimini i lavoratori che seguono determinate regole di
abbigliamento in ragione di obblighi religiosi di coprirsi, in modo diretto e a
causa della loro religione, ai sensi dell’articolo 2, [paragrafo 1 e paragrafo]
2, lettera a), della direttiva [2000/78].
2) Se
un’istruzione unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare
qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o
religiose discrimini una lavoratrice che indossa il velo in ragione della sua
fede musulmana, in modo indiretto e a causa della religione e/o del sesso, ai
sensi dell’articolo 2, [paragrafo 1 e paragrafo] 2, lettera b), della direttiva
2000/78.
In particolare:
a) Se, ai sensi
della direttiva 2000/78, una discriminazione [indiretta] fondata sulla
religione e/o sul sesso possa essere giustificata anche dalla volontà
soggettiva del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità
politica, ideologica e religiosa, qualora in tal modo il datore di lavoro
intenda tener conto dei desideri dei suoi clienti e delle sue clienti.
b) Se la
direttiva 2000/78 e/o il diritto fondamentale di libertà d’impresa ai sensi
dell’articolo 16 della [Carta] ostino, alla luce dell’articolo 8, paragrafo 1,
della direttiva 2000/78, a una disciplina nazionale secondo la quale, a tutela
del diritto fondamentale di libertà di religione, il divieto di indumenti
religiosi possa essere giustificato non già in base all’idoneità astratta a mettere
a rischio la neutralità del datore di lavoro, bensì solo in ragione di un
pericolo sufficientemente concreto, e in particolare di una minaccia concreta
di un danno economico per il datore di lavoro o un terzo interessato».
Causa C‑341/19
35 MJ
lavora dal 2002 come consulente di vendita e cassiera presso una delle filiali
della MH. Dal 2014 ella indossa un velo islamico. Non essendosi conformata alla
richiesta della MH di togliere tale foulard sul suo luogo di lavoro, essa è
stata assegnata a un altro posto che le consentiva di portare il detto velo.
Nel giugno 2016, la MH le ha nuovamente chiesto di togliere tale velo. A
seguito del rifiuto di MJ di conformarsi a tale richiesta, ella è stata mandata
a casa. Nel luglio 2016, la MH le ha ingiunto di presentarsi sul suo luogo di
lavoro priva di segni vistosi e di grandi dimensioni che esprimessero qualsiasi
convinzione di natura religiosa, politica o filosofica.
36 MJ
ha proposto dinanzi ai giudici nazionali un ricorso volto a far dichiarare l’invalidità
di detta ingiunzione e ad ottenere un risarcimento del danno subito. A sostegno
del suo ricorso, MJ ha invocato la propria libertà di religione, tutelata dal
GG, sostenendo al contempo che la politica di neutralità auspicata dalla MH non
gode di un primato incondizionato rispetto alla libertà di religione e deve
essere sottoposta a un esame di proporzionalità. La MH ha fatto valere che, dal
luglio 2016, una direttiva interna che vietava l’uso, sul luogo di lavoro, di
segni vistosi e di grandi dimensioni di natura religiosa, politica o filosofica
si applicava in tutte le sue filiali (in prosieguo: la
«direttiva interna»). L’obiettivo di tale direttiva sarebbe stato quello di
preservare la neutralità all’interno dell’impresa e di prevenire in tal modo
conflitti tra i dipendenti. In passato si sarebbero già verificati in diverse
occasioni conflitti di tal genere, riconducibili alle diverse religioni e
culture presenti in seno all’impresa.
37 A
seguito dell’accoglimento del ricorso di MJ dinanzi a tali giudici, la MH ha
proposto un’impugnazione in Revision (cassazione)
dinanzi al Bundesarbeitsgericht (Corte federale del
lavoro), facendo altresì valere che dalla sentenza del 14 marzo 2017, G4S
Secure Solutions (C‑157/15, EU:C:2017:203), risulta che non è necessario
dimostrare il verificarsi di un pregiudizio economico concreto o una
diminuzione della clientela affinché un divieto di manifestare le proprie
convinzioni possa essere validamente applicato. La Corte avrebbe in tal modo
attribuito un peso maggiore alla libertà d’impresa tutelata dall’articolo 16
della Carta rispetto alla libertà di religione. Un risultato diverso non può
essere giustificato alla luce dei diritti fondamentali tutelati dal diritto
nazionale.
38 Il
giudice del rinvio ritiene che, per poter dirimere la controversia di cui è
investito, gli incomba di valutare la validità dell’ingiunzione rivolta a MJ
dalla MH nonché della direttiva interna alla luce delle limitazioni apportate
al diritto di un datore di lavoro di impartire istruzioni ai sensi
dell’articolo 106, prima frase, del GewO. In tal
senso, il giudice del rinvio afferma che, in primo luogo, dovrà esaminare se
tale ingiunzione e la direttiva interna su cui essa si fonda costituiscano una
disparità di trattamento ai sensi dell’articolo 3 dell’AGG e se tale disparità
di trattamento costituisca una discriminazione vietata. Nell’ipotesi in cui
detta ingiunzione rispetti il contesto normativo esistente, occorrerebbe, in
secondo luogo, esaminarla ex aequo et bono, esame questo che, ad avviso del
giudice del rinvio, richiede un bilanciamento degli interessi contrapposti
tenendo conto, in particolare, del contesto costituzionale e legislativo, dei
principi generali di proporzionalità e di adeguatezza nonché degli usi.
L’insieme delle specifiche circostanze della controversia oggetto del
procedimento principale dovrebbe essere preso in considerazione in tale
valutazione.
39 Nel
caso di specie, il giudice del rinvio considera che la direttiva interna della
MH, che ha natura di norma generale, costituisce una disparità di trattamento
indirettamente fondata sulla religione ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2,
dell’AGG e dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.
Infatti, MJ sarebbe discriminata in modo specifico rispetto agli altri
dipendenti in base ad un motivo menzionato all’articolo 1 dell’AGG, dato che
gli agnostici esprimerebbero più raramente in pubblico le loro convinzioni
tramite indumenti, gioielli o altri segni rispetto alle persone che aderiscono
a una determinata religione o convinzione personale. Tuttavia, al fine di
accertare se tale disparità di trattamento costituisca una discriminazione
indiretta illegale, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, dell’AGG,
occorrerebbe ancora rispondere alla questione se solo un divieto completo che
includa qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche,
filosofiche o religiose sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito da una
politica di neutralità attuata in seno all’impresa o se, come nel contesto
della controversia oggetto del procedimento principale, sia sufficiente a tal
fine un divieto limitato ai segni vistosi di grandi dimensioni, purché sia
applicato in modo coerente e sistematico. Orbene, la giurisprudenza della
Corte, più in particolare le sentenze del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions
(C‑157/15, EU:C:2017:203), nonché del 14 marzo 2017, Bougnaoui
e ADDH (C‑188/15, EU:C:2017:204), non fornirebbe una risposta a tale
questione.
40 Nell’ipotesi
in cui si dovesse giungere alla conclusione che quest’ultimo divieto sia
sufficiente, sorgerebbe la questione se il divieto controverso nel procedimento
principale, che sembra necessario, sia adeguato ai sensi dell’articolo 2,
paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78. Il giudice del rinvio si
interroga a tal riguardo se, nell’ambito dell’esame dell’adeguatezza di tale
divieto, occorra ponderare i diritti sanciti all’articolo 16 della Carta, da un
lato, e all’articolo 10 della Carta, dall’altro, o se tale bilanciamento debba
essere effettuato solo al momento dell’applicazione della norma generale nel
caso singolo di cui trattasi, ad esempio quando una istruzione è rivolta a un
lavoratore o in occasione di un licenziamento. Nell’ipotesi in cui si dovesse
giungere alla conclusione che i diritti contrastanti derivanti dalla Carta e
dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (in prosieguo: la «CEDU») non possono essere presi in
considerazione in senso stretto nell’ambito dell’esame dell’adeguatezza del
divieto controverso nel procedimento principale, sorgerebbe allora la questione
se un diritto, tutelato da una disposizione nazionale di rango costituzionale,
segnatamente la libertà di religione e di confessione tutelata dall’articolo 4,
paragrafi 1 e 2, del GG, possa essere considerato come una normativa più
favorevole ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.
41 Infine,
occorrerebbe altresì esaminare se il diritto dell’Unione, nel caso di specie
l’articolo 16 della Carta, escluda la possibilità di tener conto dei diritti
fondamentali tutelati dal diritto nazionale nell’ambito dell’esame della
validità di un’istruzione impartita da un datore di lavoro. Orbene, sorgerebbe
in particolare la questione se un individuo, come un datore di lavoro, possa
invocare l’articolo 16 della Carta nell’ambito di una controversia insorta
soltanto tra privati.
42 In
tali circostanze, il Bundesarbeitsgericht (Corte
federale del lavoro) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre
alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se
un’accertata disparità di trattamento indiretta fondata sulla religione ai
sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2000/78],
derivante da una norma interna di un’impresa privata, possa essere considerata
ragionevolmente giustificata solo qualora tale norma vieti di indossare
qualsiasi segno visibile e non solo segni vistosi e [di grandi dimensioni] di
convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico.
2) In caso di
soluzione negativa della prima questione:
a) Se l’articolo
2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2000/78] debba essere interpretato
nel senso che i diritti di cui all’articolo 10 della [Carta] e all’articolo 9
della CEDU possano essere tenuti in considerazione per stabilire se
un’accertata disparità di trattamento indiretta, fondata sulla religione, sia
ragionevolmente giustificata sulla base di una norma interna di un’impresa
privata che vieta di indossare segni vistosi e [di grandi dimensioni] di
convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico.
b) Se l’articolo
2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2000/78] debba essere interpretato
nel senso che le norme nazionali di rango costituzionale che tutelano la
libertà di religione possano essere considerate disposizioni più favorevoli ai
sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva [2000/78], per stabilire se
un’accertata disparità di trattamento indiretta, fondata sulla religione, sia
ragionevolmente giustificata sulla base di una norma interna di un’impresa
privata che vieta di indossare segni vistosi e [di grandi dimensioni] di
convinzioni religiose, politiche e di altro carattere ideologico.
3) In caso di
soluzione negativa [della seconda questione, sub a), e della seconda questione,
sub b)]:
Se, quando si esamina
un’istruzione basata su una norma interna di un’impresa privata che vieta di
indossare segni vistosi e [di grandi dimensioni] di convinzioni religiose,
politiche e di altro carattere ideologico, le disposizioni nazionali di rango
costituzionale che tutelano la libertà di religione debbano essere disapplicate
a causa del diritto primario dell’Unione, anche se quest’ultimo, ad esempio
l’articolo 16 della Carta, riconosce le leggi e le prassi nazionali».
Sulle
questioni pregiudiziali
Sulla
prima questione nella causa C‑804/18
43 Con
la sua prima questione nella causa C‑804/18, il giudice del rinvio
chiede, in sostanza, se l’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a),
della direttiva 2000/78 debbano essere interpretati nel senso che una norma
interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro
qualsiasi segno visibile che esprima convinzioni politiche, filosofiche o
religiose, costituisca, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate
regole di abbigliamento in ragione di precetti religiosi, una discriminazione
diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale
direttiva.
44 Per
rispondere a tale questione occorre ricordare che, conformemente all’articolo 1
della direttiva 2000/78, quest’ultima mira a stabilire un quadro generale per
la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni
personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne
l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli
Stati membri il principio della parità di trattamento. Ai sensi dell’articolo
2, paragrafo 1, di tale direttiva, «per “principio della parità di trattamento”
si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su
uno dei motivi di cui all’articolo 1» di quest’ultima. L’articolo 2, paragrafo
2, lettera a), di detta direttiva precisa che, ai fini dell’applicazione
dell’articolo 2, paragrafo 1, della stessa, sussiste discriminazione diretta
quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 della
medesima direttiva, tra i quali vi è la religione o le convinzioni personali,
una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia un’altra in una
situazione analoga.
45 Per
quanto riguarda la nozione di «religione» ai sensi dell’articolo 1 della
direttiva 2000/78, la Corte ha già dichiarato che essa deve essere interpretata
nel senso che ricomprende sia il forum internum,
ossia il fatto di avere convinzioni religiose, sia il forum externum,
ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa (sentenza del 14 marzo
2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15, EU:C:2017:203, punto 28),
corrispondendo detta interpretazione a quella di tale medesima nozione
utilizzata all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta (v., in tal senso,
sentenza del 17 dicembre 2020, Centraal Israëlitisch Consistorie van België e a., C‑336/19, EU:C:2020:1031, punto
52).
46 Il
fatto di indossare segni o indumenti per manifestare la propria religione o le
proprie convinzioni personali rientra nella «libertà di pensiero, di coscienza
e di religione» tutelata dall’articolo 10 della Carta. Il contenuto stesso dei
precetti religiosi si basa su una valutazione che non spetta alla Corte
svolgere.
47 A
tale riguardo si deve aggiungere che l’articolo 1 della direttiva 2000/78 cita
allo stesso titolo la religione e le convinzioni personali, al pari
dell’articolo 19 TFUE, ai sensi del quale il legislatore dell’Unione può
prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate,
tra l’altro, sulla «religione o le convinzioni personali», o l’articolo 21
della Carta, che, tra i diversi motivi di discriminazione che esso cita, prende
in considerazione «la religione o le convinzioni personali». Ne consegue che,
ai fini dell’applicazione della direttiva 2000/78, i termini «religione» e
«convinzioni personali» vanno trattati come due facce dello stesso e unico
motivo di discriminazione. Come risulta dall’articolo 21 della Carta, il motivo
di discriminazione fondato sulla religione o sulle convinzioni personali deve
essere distinto dal motivo attinente alle «opinioni politiche o [a] qualsiasi
altra opinione» e pertanto include tanto le convinzioni religiose quanto le
convinzioni filosofiche o spirituali.
48 Occorre
altresì aggiungere che il diritto alla libertà di coscienza e di religione
sancito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta, e che costituisce parte
integrante del contesto rilevante ai fini dell’interpretazione della direttiva
2000/78, corrisponde al diritto garantito all’articolo 9 della CEDU e che, in
forza dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, esso ha lo stesso significato
e la stessa portata di quest’ultimo (sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure
Solutions, C‑157/15, EU:C:2017:203, punto 27). Orbene, conformemente alla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la
«Corte EDU»), il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione,
sancito all’articolo 9 della CEDU, «è uno dei fondamenti di una “società
democratica” ai sensi di [tale c]onvenzione» e
costituisce, «nella sua dimensione religiosa, uno degli elementi più vitali che
contribuiscono alla formazione dell’identità dei credenti e della loro
concezione della vita» nonché «un bene prezioso per gli atei, gli agnostici,
gli scettici o gli indifferenti», contribuendo al «pluralismo – duramente
conquistato nel corso dei secoli – consustanziale a una tale società»
(Corte EDU, 15 febbraio 2001, Dahlab c. Svizzera,
CE:ECHR:2001:0215DEC004239398).
49 Risulta
peraltro dalla giurisprudenza della Corte che, riferendosi, da un lato, alla
discriminazione «basata su» uno dei motivi di cui all’articolo 1 della
direttiva 2000/78, e, dall’altro, a un trattamento meno favorevole «sulla base»
di uno di tali motivi, e impiegando le espressioni «un’altra» e «altre
persone», il tenore letterale e il contesto dell’articolo 2, paragrafi 1 e 2,
della direttiva in parola non consentono di statuire che, nel caso del motivo
protetto costituito dalla religione o dalle convinzioni personali, di cui al
suddetto articolo 1, il divieto di discriminazione previsto dalla medesima
direttiva sarebbe limitato alle sole differenze di trattamento esistenti tra
persone che aderiscono a una religione o a determinate convinzioni personali e
persone che non aderiscono a una religione o a determinate convinzioni
personali. Dalla suddetta espressione «basata su» deriva invece che una
discriminazione basata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi
di questa stessa direttiva, può essere constatata solo qualora il trattamento
meno favorevole o il particolare svantaggio di cui trattasi venga patito in funzione
della religione o delle convinzioni personali (v., in tal senso, sentenza del
26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny
im. dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie, C‑16/19, EU:C:2021:64, punti 29 e 30).
50 L’obiettivo
perseguito dalla direttiva 2000/78 depone d’altronde a favore di
un’interpretazione dell’articolo 2, paragrafi 1 e 2, della medesima nel senso
che essa non limita la cerchia delle persone rispetto alle quali può essere
effettuato un confronto per l’individuazione di una discriminazione fondata
sulla religione o le convinzioni personali, ai sensi di detta direttiva, a
quelle che non aderiscono a una data religione o a determinate convinzioni
personali (v., in tal senso, sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital
Kliniczny im. dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie, C‑16/19,
EU:C:2021:64, punto 31).
51 Infatti,
come risulta dal punto 44 della presente sentenza, conformemente all’articolo 1
della direttiva 2000/78, e come risulta sia dal titolo e dal preambolo sia dal
contesto e dalla finalità della stessa, infatti, detta direttiva mira a
stabilire un quadro generale per la lotta contro le discriminazioni fondate,
segnatamente, sulla religione o le convinzioni personali per quanto concerne
l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di attuare, negli Stati
membri, il principio della parità di trattamento, offrendo ad ogni persona una
tutela efficace contro le discriminazioni fondate, segnatamente, sul motivo di discriminazione
suddetto (sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny im dra
J. Babińskiego Samodzielny
Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie, C‑16/19, EU:C:2021:64, paragrafo 32).
52 Per
quanto riguarda, in particolare, la questione se una norma interna di
un’impresa privata che vieta di indossare sul posto di lavoro qualsiasi segno
visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose costituisca una
discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali,
ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, la
Corte ha già dichiarato che una tale norma non costituisce una siffatta
discriminazione ove riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali
convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa,
imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente, una
neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni (sentenza
del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15, EU:C:2017:203,
paragrafi 30 e 32). Infatti, dal momento che ogni persona può avere una
religione o convinzioni personali, una norma di tal genere, a condizione che
sia applicata in maniera generale e indiscriminata, non istituisce una
differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla
religione o alle convinzioni personali (v., per analogia, per quanto concerne
la discriminazione basata sull’handicap, sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny im dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie, C‑16/19, EU:C:2021:64, paragrafo 44 e
giurisprudenza citata).
53 Tale
constatazione non è rimessa in discussione, come rilevato dall’avvocato
generale al paragrafo 54 delle sue conclusioni, dalla considerazione che taluni
lavoratori seguono determinati precetti religiosi che impongono un certo
abbigliamento. Se è vero che l’applicazione di una norma interna come quella
menzionata al punto 52 della presente sentenza è certamente idonea ad arrecare
particolare disagio a tali lavoratori, detta circostanza non incide in alcun
modo sulla constatazione, effettuata a tale punto, in base alla quale tale
medesima norma, che rispecchia una politica di neutralità politica, filosofica
e religiosa del datore di lavoro, non istituisce in linea di principio una
differenza di trattamento tra lavoratori basata su un criterio inscindibilmente
legato alla religione o alle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 1
della direttiva 2000/78.
54 Poiché
dagli elementi del fascicolo di cui dispone la Corte risulta che la WABE
avrebbe del pari chiesto e ottenuto che una lavoratrice che indossava una croce
religiosa togliesse tale segno, risulta, prima facie,
che l’applicazione nei confronti di IX della norma interna controversa nel procedimento
principale sia avvenuta senza alcuna distinzione rispetto agli altri lavoratori
della WABE, sicché non si può considerare che IX abbia subito una differenza di
trattamento direttamente basata sulle sue convinzioni religiose, ai sensi
dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78. Tuttavia,
spetta al giudice del rinvio effettuare le valutazioni di fatto necessarie e
stabilire se la norma interna adottata dalla WABE sia stata applicata in
maniera generale e indiscriminata a tutti i lavoratori di detta impresa.
55 Alla
luce di tali considerazioni, si deve rispondere alla prima questione nella
causa C‑804/18 dichiarando che l’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 2,
lettera a), della direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che
una norma interna di una impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul
luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche
o religiose non costituisce, nei confronti dei lavoratori che seguono
determinate regole di abbigliamento in applicazione di precetti religiosi, una
discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali,
ai sensi di detta direttiva, ove tale norma sia applicata in maniera generale e
indiscriminata.
Sulla
seconda questione, sub a), nella causa C‑804/18
56 Con
la sua seconda questione, sub a), nella causa C‑804/18, il giudice del
rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della
direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una differenza di
trattamento indirettamente basata sulla religione e/o sul sesso, derivante da
una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo
di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o
religiose, possa essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di
perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei
confronti dei suoi clienti o utenti, al fine di tener conto delle legittime
aspettative di questi ultimi.
57 Anzitutto,
occorre rilevare che tale questione si basa sulla constatazione effettuata dal
giudice del rinvio secondo cui la norma interna controversa nel procedimento
principale di cui alla causa C‑804/18, che vieta di indossare segni
visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose allorché i
dipendenti della WABE sono a contatto con i genitori o i bambini, concerne, in
pratica, talune religioni più di altre ed è destinata più alle donne che agli
uomini.
58 In
via preliminare, per quanto riguarda l’esistenza di una discriminazione
indiretta basata sul sesso, menzionata in tale questione, occorre constatare
che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 59 delle sue
conclusioni, tale motivo di discriminazione non rientra nell’ambito di
applicazione della direttiva 2000/78, che è l’unico atto del diritto
dell’Unione preso in considerazione da detta questione. Non occorre, pertanto,
esaminare l’esistenza di una siffatta discriminazione.
59 Per
quanto riguarda la questione della disparità di trattamento indirettamente
basata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2,
paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, occorre ricordare che una
siffatta disparità sussiste quando venga dimostrato che l’obbligo
apparentemente neutro che una norma contiene comporti, di fatto, un particolare
svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o
ideologia (sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15,
EU:C:2017:203, punto 34). Se è vero che spetta al giudice del rinvio verificare
tale punto, si deve rilevare che, in base alle constatazioni di tale giudice,
la norma controversa nella causa C‑804/18 riguarda, dal punto di vista
statistico, quasi esclusivamente le lavoratrici che indossano un velo a causa
della loro fede musulmana, sicché la Corte muove dalla premessa secondo cui
tale norma costituisce una disparità di trattamento indirettamente fondata
sulla religione.
60 Per
quanto riguarda la questione se una differenza di trattamento indirettamente
fondata sulla religione possa essere giustificata dalla volontà del datore di
lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e
religiosa sul luogo di lavoro, al fine di tener conto delle aspettative dei
suoi clienti o utenti, occorre ricordare che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera
b), i), della direttiva 2000/78 prevede che una siffatta differenza di
trattamento è vietata, a meno che la disposizione, il criterio o la prassi da
cui essa deriva non siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima
e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Pertanto, una differenza di trattamento, come quella oggetto della seconda
questione, sub a), nella causa C‑804/18, non costituisce una discriminazione
indiretta, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva
2000/78, qualora sia oggettivamente giustificata da un obiettivo legittimo e se
i mezzi impiegati per il conseguimento di tale obiettivo siano appropriati e
necessari (v., in tal senso, sentenza del 14 marzo 2017, Bougnaoui
e ADDH, C‑188/15, EU:C:2017:204, punto 33).
61 A
tal riguardo, per quanto concerne le nozioni di finalità legittima e di
carattere appropriato e necessario dei mezzi impiegati per il suo conseguimento,
occorre precisare che queste ultime devono essere interpretate restrittivamente
(v., in tal senso e per analogia, sentenza del 16 luglio 2015, CHEZ Razpredelenie Bulgaria, C‑83/14, EU:C:2015:480, punto
112).
62 Infatti,
la direttiva 2000/78 concretizza, nel settore da essa disciplinato, il
principio generale di non discriminazione adesso sancito all’articolo 21 della
Carta (sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny im. dra
J. Babińskiego Samodzielny
Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie, C‑16/19, EU:C:2021:64, punto 33). Il
considerando 4 di tale direttiva ricorda che il diritto di tutti
all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni
costituisce un diritto universale riconosciuto da vari accordi internazionali,
e dai considerando 11 e 12 di detta direttiva risulta che il legislatore
dell’Unione ha inteso considerare, da un lato, che la discriminazione basata,
in particolare, su religione o convinzioni personali può pregiudicare il
conseguimento degli obiettivi del trattato TFUE, segnatamente il raggiungimento
di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento
del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la
solidarietà e l’obiettivo di sviluppare l’Unione in quanto spazio di libertà,
sicurezza e giustizia e, dall’altro, che qualsiasi discriminazione diretta o
indiretta basata su religione o convinzioni personali nei settori di cui alla
medesima direttiva dovrebbe essere proibita in tutta l’Unione.
63 In
proposito, per quanto riguarda il requisito dell’esistenza di una finalità
legittima, la volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i
clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica,
filosofica o religiosa può essere considerata legittima. Infatti, la volontà di
un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella
libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16 della Carta, ed ha, in linea
di principio, carattere legittimo, in particolare qualora il datore di lavoro
coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si
suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo (v., in tal senso,
sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15, EU:C:2017:203,
punti 37 e 38).
64 Ciò
premesso, la semplice volontà di un datore di lavoro di condurre una politica
di neutralità, sebbene costituisca, di per sé, una finalità legittima, non è di
per sé sufficiente a giustificare in modo oggettivo una differenza di
trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni
personali, dato che il carattere oggettivo di una siffatta giustificazione può
ravvisarsi solo a fronte di un’esigenza reale di tale datore di lavoro, che
spetta a quest’ultimo dimostrare.
65 In
tali circostanze, al fine di accertare l’esistenza di una giustificazione
oggettiva e, pertanto, di un’esigenza reale del datore di lavoro, si può, in
primo luogo, tener conto, in particolare, dei diritti e delle legittime
aspettative dei clienti o degli utenti. Ciò vale, ad esempio, per il diritto
dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli
secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche riconosciuto
all’articolo 14 della Carta e per il loro desiderio di far educare i loro figli
da persone che non manifestino la loro religione o le loro convinzioni
personali allorché sono a contatto con i bambini al fine, segnatamente, di
«garantire lo sviluppo individuale e libero dei bambini per quanto riguarda la
religione, le convinzioni personali e la politica», come previsto
dall’istruzione di servizio adottata dalla WABE.
66 Invece,
tali situazioni devono essere distinte, tra l’altro, da un lato, dalla causa da
cui ha avuto origine la sentenza del 14 marzo 2017, Bougnaoui
e ADDH (C‑188/15, EU:C:2017:204), in cui un dipendente è stato licenziato
a seguito della denuncia di un cliente e in assenza di una norma interna
dell’impresa che vietasse di esibire qualsiasi segno visibile di convinzioni
politiche, filosofiche o religiose, e, dall’altro, dalla causa da cui ha avuto
origine la sentenza del 10 luglio 2008, Feryn (C‑54/07,
EU:C:2008:397), che concerneva una discriminazione diretta basata sulla razza o
sull’origine etnica asseritamente originata da richieste discriminatorie dei
clienti.
67 In
secondo luogo, al fine di valutare la sussistenza di un’esigenza reale del datore
di lavoro nel senso richiamato al punto 64 della presente sentenza, è
particolarmente rilevante la circostanza che il datore di lavoro abbia fornito
la prova del fatto che, in assenza di una tale politica di neutralità politica,
filosofica e religiosa, sarebbe violata la sua libertà di impresa, riconosciuta
all’articolo 16 della Carta, dal momento che, tenuto conto della natura delle
sue attività o del contesto in cui esse si inscrivono, egli subirebbe
conseguenze sfavorevoli.
68 Occorre
poi sottolineare che, come richiamato al punto 60 della presente sentenza, una
norma interna come quella controversa nel procedimento principale, per
sottrarsi alla qualificazione di discriminazione indiretta, deve altresì essere
idonea ad assicurare la corretta applicazione della politica di neutralità
perseguita dal datore di lavoro, il che presuppone che tale politica sia
realmente perseguita in modo coerente e sistematico, e che il divieto di
indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche e
religiose, che tale norma comporta, si limiti allo stretto necessario (v., in
tal senso, sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15,
EU:C:2017:203, punti 40 e 42).
69 Quest’ultimo
requisito presuppone in particolare di verificare che, trattandosi di una
limitazione alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, garantita
all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta, come quella che comporta il divieto
fatto a un lavoratore di conformarsi sul suo luogo di lavoro a un obbligo che
gli impone di indossare un segno visibile delle sue convinzioni religiose, una
tale limitazione risulti strettamente necessaria alla luce delle conseguenze
sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un tale divieto.
70 Alla
luce delle suesposte considerazioni, si deve rispondere alla seconda questione,
sub a), nella causa C‑804/18 dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2,
lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una
differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o le
convinzioni personali, derivante da una norma interna di una impresa che vieta
ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di
convinzioni politiche, filosofiche o religione, può essere giustificata dalla
volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica,
filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione
che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto
datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in
considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti
nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale
politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui
queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di
trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica
di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo
coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo
stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle
conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un
divieto siffatto.
Sulla
prima questione nella causa C‑341/19
71 Con
la sua prima questione nella causa C‑341/19, il giudice del rinvio in
tale causa chiede, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i),
della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una
discriminazione indiretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali,
che deriva da una norma interna di un’impresa che vieta, sul luogo di lavoro,
di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose
allo scopo di assicurare una politica di neutralità all’interno di tale
impresa, possa essere giustificata solo se tale divieto riguardi qualsiasi
forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o
religiose o se sia sufficiente che tale divieto sia limitato ai segni vistosi
di grandi dimensioni ove sia attuato in modo coerente e sistematico.
72 A
tal riguardo, occorre rilevare anzitutto che, sebbene tale questione si basi
sulla premessa dell’esistenza di una discriminazione indiretta, resta il fatto
che, come segnatamente fatto valere dalla Commissione europea nelle sue
osservazioni presentate nell’ambito della causa C‑341/19, una norma
interna di un’impresa che, come quella controversa in tale causa, vieta
soltanto di indossare segni vistosi di grandi dimensioni è tale da pregiudicare
più gravemente le persone che aderiscono a correnti religiose, filosofiche e
non confessionali che prevedono che sia indossato un indumento o un segno di
grandi dimensioni, come un copricapo.
73 Orbene,
come richiamato al punto 52 della presente sentenza, una disparità di
trattamento derivante da una disposizione o da una prassi basata su un criterio
inscindibilmente legato al motivo protetto, nel caso di specie la religione o
le convinzioni personali, deve essere considerata come direttamente basata su
tale motivo. Pertanto, nelle ipotesi in cui il criterio dell’uso di segni
vistosi di grandi dimensioni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose
sia inscindibilmente legato a una o più religioni o convinzioni personali
determinate, il divieto imposto da un datore di lavoro ai suoi lavoratori di
indossare detti segni in base a un criterio di tal genere avrà come conseguenza
che taluni lavoratori saranno trattati in modo meno favorevole rispetto ad
altri in base alla loro religione o alle loro convinzioni personali e che una
discriminazione diretta, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a),
della direttiva 2000/78, potrà, quindi, essere rilevata.
74 Nell’ipotesi
in cui una tale discriminazione diretta non dovesse tuttavia essere accertata,
è importante ricordare che, conformemente all’articolo 2, paragrafo 2, lettera
b), i), di detta direttiva, una differenza di trattamento come quella presa in
considerazione dal giudice del rinvio costituirebbe, qualora fosse dimostrato
che comportasse, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che
aderiscono a una religione o a convinzioni personali determinate, una
discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di
tale direttiva, come già menzionato al punto 60 della presente sentenza, a meno
che essa non sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e a
condizione che i mezzi per perseguire tale finalità siano appropriati e
necessari.
75 A
tal riguardo, occorre rilevare che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale
risulta che la misura in esame ha lo scopo di prevenire conflitti sociali
all’interno dell’impresa, in particolare tenuto conto dell’esistenza di
tensioni verificatesi in passato riconducibili a convinzioni politiche,
filosofiche o religiose.
76 Come
è già rilevato al punto 63 della presente sentenza, una politica di neutralità
può costituire una finalità legittima ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2,
lettera b), i), della direttiva 2000/78. Al fine di determinare se tale
politica sia idonea a giustificare in maniera oggettiva una differenza di
trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni
personali, occorre verificare, come risulta dal punto 64 della presente
sentenza, se essa soddisfi un’esigenza reale dell’impresa. In proposito si deve
rilevare che tanto la prevenzione dei conflitti sociali quanto la presentazione
del datore di lavoro in modo neutrale nei confronti dei clienti possono
configurare un’esigenza reale del datore di lavoro, circostanza che incombe a
quest’ultimo dimostrare. Occorre tuttavia ancora verificare, conformemente a
quanto esposto ai punti 68 e 69 della presente sentenza, se la norma interna
che consiste nel vietare di indossare qualsiasi segno vistoso di grandi
dimensioni di convinzioni politiche, filosofiche e religiose sia idonea ad
assicurare la finalità perseguita e se tale divieto si limiti allo stretto
necessario.
77 A
tal riguardo, occorre precisare che una politica di neutralità in seno
all’impresa, come quella oggetto della prima questione nella causa C‑341/19,
può essere perseguita in modo efficace soltanto se non è ammessa alcuna
manifestazione visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose
quando i lavoratori sono a contatto con i clienti o tra di loro, poiché il
fatto di indossare qualsiasi segno, anche se di piccole dimensioni, compromette
l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo asseritamente perseguito e
rimette così in discussione la coerenza stessa di detta politica di neutralità.
78 Alla
luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione
sottoposta nella causa C‑341/19 dichiarando che l’articolo 2, paragrafo
2, lettera b), i), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso
che una discriminazione indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni
personali derivante da una norma interna di un’impresa che vieta, sul luogo di
lavoro, di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o
religiose allo scopo di assicurare una politica di neutralità all’interno di
tale impresa può essere giustificata solo se detto divieto riguardi qualsiasi
forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o
religiose. Un divieto che si limiti all’uso di segni di convinzioni politiche,
filosofiche o religiose vistosi e di grandi dimensioni è tale da costituire una
discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali,
che non può in ogni caso essere giustificata sulla base di tale medesima
disposizione.
Sulla
seconda questione, sub b), nella causa C‑804/18 e sulla seconda
questione, sub b), nella causa C‑341/19
79 Con
la seconda questione, sub b), nella causa C‑804/18, che è analoga alla
seconda questione, sub b), nella causa C‑341/19, l’Arbeitsgericht
Hamburg (Tribunale del lavoro di Amburgo) chiede, in sostanza, se l’articolo 2,
paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel
senso che le disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di
religione possano essere prese in considerazione in quanto disposizioni più
favorevoli ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva,
nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di
trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni
personali.
80 Tale
questione è scaturita da quella, del pari sollevata dal Bundesarbeitsgericht
(Corte federale del lavoro) nella causa C‑341/19, relativa alla domanda
se, nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una norma interna di
un’impresa, come quella controversa nei procedimenti principali, occorra
ponderare i diritti e le libertà contrastanti, più in particolare gli articoli
14 e 16 della Carta, da un lato, e l’articolo 10 della Carta, dall’altro, o se
tale bilanciamento debba essere effettuato solo al momento dell’applicazione di
detta norma interna a un caso specifico, ad esempio quando un’istruzione è
rivolta a un lavoratore o in occasione del suo licenziamento. Nell’ipotesi in
cui si dovesse affermare che i diritti contrastanti derivanti dalla Carta non
possono essere presi in considerazione nell’ambito di detto esame, si porrebbe
allora la questione se una disposizione nazionale di rango costituzionale, come
l’articolo 4, paragrafi 1 e 2, del GG, che tutela la libertà di religione e di
fede, possa essere considerata come una disposizione più favorevole ai sensi
dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.
81 Per
quanto riguarda, in primo luogo, la questione se, nell’ambito dell’esame del
carattere appropriato, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i),
della direttiva 2000/78, della restrizione derivante dalla misura introdotta
per garantire l’applicazione di una politica di neutralità politica, filosofica
e religiosa, si debba tener conto dei diversi diritti e libertà in esame, si
deve ricordare, anzitutto, come constatato dalla Corte nell’interpretare la
nozione di «religione» ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2000/78, che il
legislatore dell’Unione ha fatto riferimento, al considerando 1 di tale
direttiva, ai diritti fondamentali quali garantiti dalla CEDU, la quale
prevede, al suo articolo 9, che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero,
di coscienza e di religione, diritto questo che implica, tra l’altro, la
libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente
o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento,
le pratiche e l’osservanza dei riti. Inoltre, al medesimo considerando il
legislatore dell’Unione ha fatto riferimento anche alle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del
diritto dell’Unione. Orbene, tra i diritti che risultano da tali tradizioni
comuni e che sono stati ribaditi nella Carta figura il diritto alla libertà di
pensiero, di coscienza e di religione sancito all’articolo 10, paragrafo 1,
della Carta. Conformemente a tale disposizione, detto diritto include la
libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di
manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o
collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento,
le pratiche e l’osservanza dei riti. Come risulta dalle spiegazioni relative
alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17), il
diritto garantito all’articolo 10, paragrafo 1, di quest’ultima corrisponde al
diritto garantito all’articolo 9 della CEDU e, conformemente all’articolo 52,
paragrafo 3, della Carta, ha lo stesso significato e la stessa portata di
quest’ultimo (sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15,
EU:C:2017:203, punti 26 e 27).
82 Pertanto,
nell’ambito dell’esame del carattere appropriato, ai sensi dell’articolo 2,
paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78, della restrizione
derivante da una misura destinata ad assicurare l’applicazione di una politica
di neutralità politica, filosofica e religiosa, si deve tener conto dei diversi
diritti e libertà in esame.
83 La
Corte ha poi già dichiarato che, nell’esaminare il carattere necessario di un
divieto analogo a quello controverso nei procedimenti principali, spetta ai
giudici nazionali, alla luce di tutti gli elementi del fascicolo di cui trattasi,
tenere conto degli interessi in gioco e limitare «allo stretto necessario» le
restrizioni «alle libertà in questione» (sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure
Solutions, C‑157/15, EU:C:2017:203, punto 43). Orbene, poiché nel
procedimento da cui ha avuto origine tale sentenza era in discussione soltanto
la libertà d’impresa, sancita all’articolo 16 della Carta, si deve dichiarare
che l’altra libertà alla quale la Corte faceva riferimento nella medesima
sentenza era la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, di cui al
punto 39 della medesima sentenza.
84 Infine,
è giocoforza rilevare che l’interpretazione della direttiva 2000/78 in tal modo
accolta è conforme alla giurisprudenza della Corte in quanto consente di
assicurare che, qualora siano in discussione più diritti fondamentali e
principi sanciti dai Trattati, come, nel caso di specie, il principio di non
discriminazione sancito all’articolo 21 della Carta e il diritto alla libertà
di pensiero, di coscienza e di religione garantito all’articolo 10 della Carta,
da un lato, nonché il diritto dei genitori di provvedere all’educazione e
all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose,
filosofiche e pedagogiche riconosciuto all’articolo 14, paragrafo 3, della
Carta e la libertà di impresa sancita all’articolo 16 della Carta, dall’altro
lato, la valutazione del rispetto del principio di proporzionalità deve essere
effettuata nel rispetto della necessaria conciliazione tra i requisiti connessi
alla tutela dei diversi diritti e principi in discussione e di un giusto
equilibrio tra di essi (v., in tal senso, sentenza del 17 dicembre 2020, Centraal Israëlitisch Consistorie van België e a.,
C‑336/19, EU:C:2020:1031, punto 65 e giurisprudenza citata).
85 Per
quanto riguarda le disposizioni di diritto nazionale controverse nei
procedimenti principali, in particolare l’articolo 4, paragrafo 1, del GG, e il
requisito che esse comportano, in base al quale, in una situazione come quella
oggetto di tali procedimenti, incombe al datore di lavoro non solo dimostrare
di perseguire una finalità legittima idonea a giustificare una disparità di
trattamento indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ma
anche dimostrare che al momento dell’introduzione della norma interna controversa
esisteva, o che esiste, attualmente, un rischio sufficientemente concreto che
tale obiettivo sia compromesso, come il rischio di effettivi problemi
all’interno dell’impresa o il rischio reale di perdita di reddito, si deve
ritenere che un tale requisito rientri nell’ambito previsto dall’articolo 2,
paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78 per quanto riguarda la
giustificazione di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla
religione o sulle convinzioni personali.
86 Per
quanto riguarda, in secondo luogo, la questione se una disposizione nazionale
relativa alla libertà di religione e di coscienza possa essere considerata come
una disposizione nazionale più favorevole alla tutela del principio della
parità di trattamento, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva
2000/78, occorre ricordare, come risulta dal titolo di tale direttiva, che
quest’ultima stabilisce un quadro generale per tale parità di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che lascia un margine di
discrezionalità agli Stati membri, tenuto conto della diversità dei loro
approcci quanto al ruolo che essi attribuiscono, al loro interno, alla
religione o alle convinzioni personali. Il margine di discrezionalità così riconosciuto
agli Stati membri in mancanza di consenso a livello dell’Unione deve tuttavia
andare di pari passo con un controllo, che spetta al giudice dell’Unione,
consistente, in particolare, nel verificare se le misure adottate a livello
nazionale siano giustificate in linea di principio e se siano proporzionate
(v., in tal senso, sentenza del 17 dicembre 2020, Centraal
Israëlitisch Consistorie
van België e a., C‑336/19, EU:C:2020:1031,
punto 67).
87 Peraltro,
dal quadro così introdotto emerge che, nella direttiva 2000/78, il legislatore
dell’Unione non ha effettuato esso stesso la necessaria conciliazione tra la
libertà di pensiero, di convinzione e di religione, da un lato, e gli obiettivi
legittimi che possono essere invocati a giustificazione di una disparità di
trattamento, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), di tale
direttiva, dall’altro, ma ha lasciato il compito di procedere a tale
conciliazione agli Stati membri e ai loro giudici (v., per analogia, sentenza
del 17 dicembre 2020, Centraal Israëlitisch
Consistorie van België
e a., C‑336/19, EU:C:2020:1031, punto 47).
88 Di
conseguenza, la direttiva 2000/78 consente di tener conto del contesto
specifico di ciascuno Stato membro e di riconoscere a ciascuno di essi un
margine di discrezionalità nell’ambito della necessaria conciliazione dei
diversi diritti e interessi in gioco, al fine di assicurare un giusto
equilibrio tra questi ultimi.
89 Ne
consegue che le disposizioni nazionali che tutelano la libertà di pensiero, di
convinzione e di religione, in quanto valore al quale le società democratiche
contemporanee attribuiscono un’importanza maggiore da molti anni, possono
essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli, per quanto
riguarda la protezione del principio della parità di trattamento, ai sensi
dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, nell’ambito dell’esame
di ciò che costituisce una differenza di trattamento fondata sulla religione o
sulle convinzioni personali. Rientrerebbero così, ad esempio, nella facoltà
offerta da tale articolo 8, paragrafo 1, disposizioni nazionali che
subordinassero la giustificazione di una differenza di trattamento
indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali a
requisiti più elevati di quanto previsto dall’articolo 2, paragrafo 2, lettera
b), i), della direttiva 2000/78.
90 Alla
luce di tali considerazioni, occorre rispondere alla seconda questione, sub b),
nella causa C‑804/18 e alla seconda questione, sub b), nella causa C‑341/19
dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78
deve essere interpretato nel senso che le disposizioni nazionali che tutelano
la libertà di religione possono essere prese in considerazione come disposizioni
più favorevoli, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva,
nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di
trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni
personali.
Sulla
seconda questione, sub a), e sulla terza questione nella causa C‑341/19
91 Alla
luce della risposta fornita alla prima questione nella causa C‑341/19,
non occorre rispondere né alla seconda questione, sub a), né alla terza
questione nella medesima causa.
Sulle
spese
92 Nei
confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire
sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla
Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per
questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) L’articolo
1 e l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del
Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro,
devono essere interpretati nel senso che una norma interna di un’impresa, che
vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile
di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce, nei
confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in
applicazione di precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla
religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di detta direttiva, ove tale
norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata.
2) L’articolo
2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato
nel senso che una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla
religione o sulle convinzioni personali, derivante da una norma interna di
un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi
segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, può essere
giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di
neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli
utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza
reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo
dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di
detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in
assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o
del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta
differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di
tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita
in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti
allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive
delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante
un divieto siffatto.
3) L’articolo
2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78 deve essere
interpretato nel senso che una discriminazione indiretta fondata sulla
religione o sulle convinzioni personali derivante da una norma interna di
un’impresa che vieta, sul luogo di lavoro, di indossare segni visibili di
convinzioni politiche, filosofiche o religiose allo scopo di assicurare una
politica di neutralità all’interno di tale impresa può essere giustificata solo
se detto divieto riguardi qualsiasi forma visibile di espressione delle
convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Un divieto che si limiti
all’uso di segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose vistosi e di
grandi dimensioni è tale da costituire una discriminazione diretta fondata
sulla religione o sulle convinzioni personali, che non può in ogni caso essere
giustificata sulla base di tale medesima disposizione.
4) L’articolo
2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato
nel senso che le disposizioni nazionali che tutelano la libertà di religione
possono essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli, ai
sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva, nell’ambito dell’esame
del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente
fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.
Firme
* Lingua processuale: il
tedesco.