SENTENZA
DELLA CORTE (Seconda Sezione)
17 marzo 2021 (*)
«Rinvio pregiudiziale – Politica
sociale – Direttiva 1999/70/CE – Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul
lavoro a tempo determinato – Clausola 4 – Principio di non
discriminazione – Ragioni oggettive che giustificano un trattamento
diverso dei lavoratori a tempo determinato – Direttiva 98/59/CE –
Licenziamento collettivo – Normativa nazionale relativa alla tutela da
accordare a un lavoratore vittima di un licenziamento collettivo
illegittimo – Applicazione di un regime di tutela meno vantaggioso ai
contratti a tempo determinato stipulati prima della data della sua entrata in
vigore, convertiti in contratti a tempo indeterminato successivamente a tale
data»
Nella causa C‑652/19,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal
Tribunale di Milano (Italia), con ordinanza del 5 agosto 2019, pervenuta in
cancelleria il 2 settembre 2019, nel procedimento
contro
Consulmarketing SpA, in fallimento,
con l’intervento di:
Filcams CGIL,
Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL),
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta da A. Arabadjiev,
presidente di sezione, A. Kumin (relatore),
T. von Danwitz, P.G. Xuereb e I. Ziemele,
giudici,
avvocato generale: J. Kokott,
cancelliere: A. Calot
Escobar
vista la fase scritta del procedimento,
considerate le osservazioni presentate:
– per KO, la Filcams CGIL e la
Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), da C. De Marchis Gòmez, avvocato;
– per
il governo italiano, da G. Palmieri, in qualità di agente, assistita da
G. Aiello ed E. Manzo, avvocati dello Stato;
– per
la Commissione europea, inizialmente da B.-R. Killmann,
A. Spina e M. van Beek, successivamente da B.-R. Killmann e A. Spina, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito
l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La
domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva
98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GU
1998, L 225, pag. 16), della clausola 4 dell’accordo quadro sul
lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo
quadro») e allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999,
relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato
(GU 1999, L 175, pag. 43), nonché degli articoli 20 e 30 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
2 Tale
domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra KO e la Consulmarketing
SpA, in fallimento, in merito alla tutela giuridica
da accordare a KO a
seguito del suo licenziamento da parte della Consulmarketing
nell’ambito di un licenziamento collettivo illegittimo.
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
Direttiva 98/59
3 I
considerando 2 e 6 della direttiva 98/59 sono così formulati:
«(2) considerando
che occorre rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti
collettivi, tenendo conto della necessità di uno sviluppo economico-sociale
equilibrato nella Comunità;
(...)
(6) considerando
che nella carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori,
adottata dai capi di Stato o di governo di undici Stati membri il 9 dicembre
1989 al Consiglio europeo di Strasburgo, si dichiara in particolare al punto 7
(...) [che] “[l]a realizzazione del mercato interno deve portare ad un
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella
Comunità europea (...)”».
4 L’articolo
1, paragrafo 2, lettera a), di tale direttiva prevede che essa non si applica,
in particolare, «ai licenziamenti collettivi effettuati nel quadro di contratti
di lavoro a tempo determinato o per un compito determinato, a meno che tali
licenziamenti non avvengano prima della scadenza del termine o
dell’espletamento del compito previsto nei suddetti contratti».
Direttiva 1999/70 e accordo quadro
5 Ai
sensi del considerando 14 della direttiva 1999/70 «le parti contraenti hanno
voluto concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che
stabilisce i principi generali e i requisiti minimi per i contratti e i
rapporti di lavoro a tempo determinato; hanno espresso l’intenzione di
migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione
del principio di non discriminazione, nonché di creare un quadro per la
prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti
o di rapporti di lavoro a tempo determinato».
6 Il
secondo comma del preambolo dell’accordo quadro stabilisce che le parti
firmatarie di quest’ultimo «riconoscono che i contratti a tempo indeterminato
sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i
datori di lavoro e i lavoratori [e] che i contratti a tempo determinato
rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a
quelle dei lavoratori».
7 La
clausola 1 dell’accordo quadro, intitolata «Obiettivo», così dispone:
«L’obiettivo del presente accordo quadro è:
a) migliorare
la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio
di non discriminazione;
(...)».
8 Ai
sensi della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro:
«Il presente accordo si applica ai lavoratori a
tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro
disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di
ciascuno Stato membro».
9 La
clausola 3 dell’accordo quadro, intitolata «Definizioni», prevede quanto segue:
«1. Ai
fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo determinato” indica
una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra
il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da
condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il
completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico.
2. Ai
fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo indeterminato
comparabile” indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di
durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a
lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze.
In assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso
stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo
applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i
contratti collettivi o le prassi nazionali».
10 La
clausola 4 dell’accordo quadro, intitolata «Principio di non discriminazione»,
così dispone:
«1. Per quanto
riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono
essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato
comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a
tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive.
(...)
4. I criteri del
periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro
dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per
quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di
periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive».
Diritto italiano
11 La
legge del 23 luglio 1991, n. 223 – Norme in materia di cassa integrazione,
mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità
europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del
lavoro (supplemento ordinario alla GURI n. 175 del 27 luglio 1991), come
modificata dalla legge del 28 giugno 2012, n. 92 – Disposizioni in
materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
(supplemento ordinario alla GURI n. 153 del 3 luglio 2012) (in prosieguo:
la «legge n. 223/1991»), fissa il quadro giuridico applicabile alle
procedure di licenziamento collettivo, di cui fanno parte segnatamente le
disposizioni che recepiscono la direttiva 98/59 nel diritto italiano. Dalla
domanda di pronuncia pregiudiziale emerge che l’articolo 5, comma 1, della
legge n. 223/1991 stabilisce i criteri sui quali il datore di lavoro si
deve basare, in caso di licenziamento collettivo, per determinare quali
lavoratori vi saranno sottoposti.
12 L’articolo
5, comma 3, della legge n. 223/1991 così dispone:
«(...) In caso di violazione dei criteri di scelta
[dei lavoratori che saranno licenziati] previsti dal comma 1, si applica il
regime di cui al quarto comma dell’(...) articolo 18 [della legge del 20 maggio
1970, n. 300 – Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento (GURI n. 131 del 27 maggio 1970)] (...)».
13 Il
primo e il quarto comma dell’articolo 18 della legge del 20 maggio 1970,
n. 300, nella versione applicabile ai fatti di cui al procedimento
principale, prevedono quanto segue:
«Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara
la nullità del licenziamento perché discriminatorio (...) ovvero perché
riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un
motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice
civile, ordina al datore di lavoro (...) la reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente
addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.
(…) A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende
risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni
dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto
l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al
presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace
perché intimato in forma orale.
(...)
Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non
ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa
addotti dal datore di lavoro, (...) annulla il licenziamento e condanna il
datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma
e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione
globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva
reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di
estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto
avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova
occupazione. (...) Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello
della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale
senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un
importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che
sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo
licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello
svolgimento di altre attività lavorative. (...)».
14 L’articolo
1, commi 1 e 2, del decreto legislativo del 4 marzo 2015, n. 23 –
Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele
crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (GURI
n. 54 del 6 marzo 2015; in prosieguo: il «decreto
legislativo n. 23/2015»), così dispone:
«1. Per i lavoratori
che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata
in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento
illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto.
2. Le
disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di
conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di
contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo
indeterminato».
15 L’articolo
3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 dispone che, in caso di
licenziamento collettivo ingiustificato, il giudice dichiara estinto il
rapporto di lavoro e «condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità
non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro
e non superiore a ventiquattro mensilità». In forza del decreto-legge del 12
luglio 2018, n. 87 – Disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori e delle imprese (GURI n. 161 del 13 luglio 2018), tale
intervallo è compreso tra 6 e 36 mensilità.
16 L’articolo
10, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 è così formulato:
«1. (...) In
caso di violazione (...) dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1,
della legge n. 223/1991, si applica il regime di cui all’articolo 3, comma
1».
Procedimento principale e questioni
pregiudiziali
17 La
ricorrente di cui al procedimento principale è stata assunta dalla Consulmarketing a partire dal 14 gennaio 2013, nell’ambito
di un contratto di lavoro a tempo determinato.
18 Il
31 marzo 2015 tale contratto a tempo determinato è stato trasformato in
contratto a tempo indeterminato.
19 Il
19 gennaio 2017 la Consulmarketing ha avviato una
procedura di licenziamento collettivo che ha interessato 350 lavoratori, tra
cui la ricorrente nel procedimento principale, e all’esito della quale tutti i
lavoratori sono stati licenziati.
20 I
lavoratori licenziati hanno presentato un ricorso dinanzi al giudice del
rinvio, il Tribunale di Milano (Italia), in ragione, segnatamente, del fatto
che la Consulmarketing aveva violato i criteri su cui
il datore di lavoro deve basarsi, in caso di licenziamento collettivo, per
determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale licenziamento.
21 Il
giudice del rinvio ha constatato l’illegittimità del licenziamento collettivo,
ha ordinato il risarcimento dei danni e disposto la reintegrazione nell’impresa
di tutti i lavoratori interessati, ad eccezione della ricorrente nel
procedimento principale. Tale giudice ha infatti ritenuto che essa non potesse
beneficiare dello stesso regime di tutela degli altri lavoratori licenziati per
il motivo che la data di conversione del suo contratto di lavoro a tempo
determinato in contratto a tempo indeterminato era successiva al 7 marzo 2015,
data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015.
22 Nell’ambito
dell’opposizione proposta avverso tale decisione, che costituisce il
procedimento principale, la ricorrente nel procedimento principale fa valere,
in particolare, la non conformità al diritto dell’Unione della normativa
nazionale applicabile e la violazione del principio della parità di
trattamento. Occorre inoltre rilevare che, nel corso di tale procedimento, da
un lato, la Consulmarketing è stata dichiarata
fallita e, dall’altro, la Filcams CGIL e la Confederazione Generale Italiana
del Lavoro (CGIL) sono intervenute volontariamente a sostegno delle conclusioni
della ricorrente nel procedimento principale, nella loro qualità di
organizzazioni sindacali.
23 Dalla
domanda di pronuncia pregiudiziale emerge che, in caso di licenziamento
illegittimo di un lavoratore assunto nell’ambito di un contratto di lavoro a
tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, il datore di lavoro deve, da un
lato, reintegrare il lavoratore interessato nel suo posto di lavoro e,
dall’altro, versargli un’indennità commisurata alla retribuzione globale di
fatto che copre il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello
dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali
corrispondenti a questo stesso periodo, ma tale indennità non può essere
superiore a dodici mensilità. I lavoratori assunti a tempo indeterminato a
partire dal 7 marzo 2015 non potrebbero rivendicare una siffatta
reintegrazione, ma solo un’indennità, che non dà luogo al versamento di
contributi previdenziali. L’importo di tale indennità dipenderebbe,
segnatamente, dall’anzianità di servizio del lavoratore e corrisponderebbe, a
seconda dei casi, come minimo, a 4 mesi di retribuzione e, come massimo, a 24
mesi di retribuzione. A partire dal 2018, questo intervallo sarebbe stato
esteso, rispettivamente, a 6 ed a 36 mesi di retribuzione.
24 Nel
caso di specie, anche se la ricorrente nel procedimento principale è entrata in
servizio prima del 7 marzo 2015, il suo contratto a tempo determinato è stato
convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data. Orbene, la
conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo
indeterminato, ai fini della fissazione del regime di tutela in caso di licenziamento
collettivo illegittimo, sarebbe assimilata a una nuova assunzione. In
quest’ottica, la ricorrente nel procedimento principale non può rivendicare, in
forza della normativa nazionale, la reintegrazione nelle sue funzioni né il
risarcimento dei danni, ma solo un’indennità.
25 Il
giudice del rinvio si chiede se tale situazione sia compatibile con la direttiva
98/59 e con la clausola 4 dell’accordo quadro, letti alla luce degli articoli
20 e 30 della Carta.
26 In
primo luogo, secondo il giudice del rinvio, l’indennità che può rivendicare la
ricorrente nel procedimento principale non costituisce una compensazione
adeguata per un licenziamento collettivo illegittimo,
ai sensi dell’articolo 30 della Carta. Dalle spiegazioni relative alla Carta
dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17) emergerebbe,
infatti, che quest’ultima disposizione dovrebbe essere interpretata alla luce
dell’articolo 24 della Carta sociale europea, firmata a Torino il 18 ottobre
1961, che a sua volta sarebbe stata interpretata dal Comitato europeo dei
diritti sociali nel senso che una sanzione derivante da un licenziamento
collettivo illegittimo è considerata adeguata quando prevede, primo, il
rimborso delle perdite economiche subite dal lavoratore interessato tra il
giorno del suo licenziamento e la decisione che condanna il datore di lavoro a
detto rimborso, secondo, una possibilità di reintegrare tale lavoratore
nell’impresa nonché, terzo, un’indennità di importo sufficientemente elevato da
dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito da detto
lavoratore.
27 In
secondo luogo, il giudice del rinvio constata una differenza di trattamento
tra, da un lato, la ricorrente nel procedimento principale, ossia una
lavoratrice che è entrata in servizio prima del 7 marzo 2015 nell’ambito di un
contratto di lavoro a tempo determinato, convertito in contratto a tempo
indeterminato dopo tale data, e, dall’altro, tutti gli altri lavoratori
licenziati dalla Consulmarketing, i quali erano stati
assunti nell’ambito di contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati
prima di tale data. Questa differenza di trattamento risulterebbe
dall’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto di
lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
28 Alla
luce di tali circostanze, il Tribunale di Milano ha deciso di sospendere il procedimento
e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se
i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella
clausola 4 dell’[accordo quadro] sulle condizioni di impiego ostino alle
previsioni normative dell’articolo 1, secondo comma e dell’articolo 10 del
decreto legislativo n. 23/2015 che, con riferimento ai licenziamenti
collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un
duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata
nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai
rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7
marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il
pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa,
una tutela meramente indennitaria nell’ambito di un limite minimo ed un limite
massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti
di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto
costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato
successivamente al 7 marzo 2015.
2) Se
le previsioni contenute negli articoli 20 e 30 della [Carta] e nella direttiva
[98/59] ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all’articolo 10
del decreto legislativo n. 23/15 che introduce per i soli lavoratori
assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a
decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di
licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta,
diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e
coinvolti nella medesima procedura, non è prevista la reintegrazione nel posto
di lavoro e che introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela
meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche
derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro
modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le
medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o
costituzione».
Sulle questioni pregiudiziali
Considerazioni preliminari
29 Dal
fascicolo di cui dispone la Corte risulta che il procedimento principale
riguarda due regimi successivi di tutela dei lavoratori in caso di
licenziamento collettivo illegittimo. Da un lato, un lavoratore a tempo
indeterminato il cui contratto è stato stipulato fino al 7 marzo 2015 può, ai
sensi della legge n. 223/1991, rivendicare la sua reintegrazione
nell’impresa. D’altro lato, un lavoratore a tempo indeterminato il cui
contratto è stato stipulato a partire da tale data ha diritto soltanto a
un’indennità entro un massimale, ai sensi del decreto legislativo n. 23/2015.
30 L’articolo
1, comma 2, del decreto legislativo n. 23/2015 precisa che il regime di
tutela da esso previsto si applica ai contratti a tempo determinato convertiti
in contratti a tempo indeterminato dopo la sua entrata in vigore. Poiché la ricorrente
nel procedimento principale si trova in tale situazione, essa ha diritto solo a
un’indennità in forza di tale decreto legislativo, contrariamente a tutti i
suoi colleghi che sono stati licenziati contemporaneamente ad essa, ma che sono
stati reintegrati nell’impresa in base alla legge n. 223/1991, in quanto
erano lavoratori a tempo indeterminato assunti prima del 7 marzo 2015.
31 Il
giudice del rinvio interroga la Corte sulla compatibilità del nuovo regime
introdotto dal decreto legislativo n. 23/2015 con l’accordo quadro, la
direttiva 98/59 e gli articoli 20 e 30 della Carta.
32 Orbene,
si deve ricordare innanzitutto che il sistema di cooperazione istituito
dall’articolo 267 TFUE è fondato su una netta separazione di funzioni tra
i giudici nazionali e la Corte. Nell’ambito di un procedimento instaurato in
forza di tale articolo, l’interpretazione delle disposizioni nazionali incombe
ai giudici degli Stati membri e non alla Corte e non spetta a quest’ultima
pronunciarsi sulla compatibilità di norme di diritto interno con le
disposizioni del diritto dell’Unione. Per contro, la Corte è competente a
fornire al giudice nazionale tutti gli elementi interpretativi attinenti al
diritto dell’Unione che consentano a detto giudice di valutare la compatibilità
di norme di diritto interno con la normativa dell’Unione (sentenza del 30
aprile 2020, CTT – Correios de Portugal, C‑661/18,
EU:C:2020:335, punto 28).
33 Pertanto,
se è vero che il tenore letterale delle questioni sollevate in via
pregiudiziale dal giudice del rinvio invita la Corte a pronunciarsi sulla
compatibilità di disposizioni di diritto interno con il diritto dell’Unione,
nulla impedisce alla Corte di dare una risposta utile al giudice del rinvio
fornendogli gli elementi di interpretazione attinenti al diritto dell’Unione
che consentiranno a tale giudice di statuire sulla compatibilità del diritto
interno con il diritto dell’Unione (sentenza del 30 aprile 2020, CTT – Correios de Portugal, C‑661/18, EU:C:2020:335, punto
29).
34 Peraltro,
le disposizioni della Carta si applicano, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo
1, della medesima, agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto
dell’Unione. L’articolo 6, paragrafo 1, TUE nonché l’articolo 51, paragrafo 2,
della Carta chiariscono che la Carta non estende l’ambito di applicazione del
diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione europea, né introduce
competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i
compiti definiti nei trattati. La Corte è quindi chiamata a interpretare, alla
luce della Carta, il diritto dell’Unione nei limiti delle competenze che le
sono attribuite (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga,
C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 34 e giurisprudenza ivi
citata).
35 Occorre
quindi riformulare le questioni pregiudiziali come intese all’interpretazione,
da un lato, della clausola 4 dell’accordo quadro e, dall’altro, della direttiva
98/59, letta alla luce degli articoli 20 e 30 della Carta.
Sulla seconda questione
36 Con
la sua seconda questione, che occorre esaminare in primo luogo, il giudice del
rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 98/59 e gli articoli 20 e 30 della
Carta debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa
nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e
unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela
dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo
effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che
saranno sottoposti a tale procedura.
37 Contrariamente
a quanto sottintende il giudice del rinvio, non è sufficiente, al fine di
constatare che le disposizioni del diritto italiano di cui trattasi nel
procedimento principale attuano la direttiva 98/59, che tali disposizioni si
inseriscano in una normativa nazionale più ampia, di cui alcune altre
disposizioni sono state adottate al fine di recepire tale direttiva
nell’ordinamento interno. Affinché si possa constatare l’applicabilità della
direttiva 98/59 e, di conseguenza, della Carta, al procedimento principale,
sarebbe infatti necessario che tale direttiva imponesse un obbligo specifico
rispetto alla situazione di cui trattasi nella presente causa, attuato dalle
disposizioni del diritto italiano interessate (v., per analogia, ordinanza del
4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata,
EU:C:2020:441, punto 27).
38 Orbene,
dall’ordinanza di rinvio non emerge che nella controversia di cui al
procedimento principale sia in discussione un qualsivoglia obbligo imposto
dalla direttiva 98/59 (v., per analogia, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto
28).
39 Da
un lato, occorre constatare che il considerando 2 della direttiva 98/59, al
quale il giudice del rinvio fa riferimento e da cui risulta che tale direttiva
mira a rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi,
non può imporre un obbligo specifico in relazione a una situazione come quella
della ricorrente nel procedimento principale (v., per analogia, ordinanza del 4
giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata,
EU:C:2020:441, punto 29).
40 Dall’altro
lato, un siffatto obbligo non emerge dalle disposizioni della direttiva 98/59.
L’obiettivo principale di tale direttiva consiste nel far precedere i
licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori
e dall’informazione dell’autorità pubblica competente. Ai sensi dell’articolo
2, paragrafo 2, di detta direttiva, le consultazioni vertono sulle possibilità
di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di attenuarne le
conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento intese in
particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori
licenziati. Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, e dell’articolo 3, paragrafo
1, della medesima direttiva, il datore di lavoro deve notificare all’autorità
pubblica ogni progetto di licenziamento collettivo e fornirle gli elementi e le
informazioni di cui a tali disposizioni (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto
30 e giurisprudenza ivi citata).
41 La
direttiva 98/59 garantisce in tal modo solo un’armonizzazione parziale delle
regole di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo, ossia la
procedura da seguire nel caso di tali licenziamenti. La Corte, infatti, ha già
avuto modo di precisare che tale direttiva non mira a istituire un meccanismo
di compensazione economica generale a livello dell’Unione in caso di perdita
del lavoro, né tanto meno ad armonizzare le modalità di cessazione definitiva
delle attività di un’impresa (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga,
C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 31 e giurisprudenza
citata).
42 Orbene,
le modalità della tutela che deve essere accordata a un lavoratore che è stato
oggetto di un licenziamento collettivo illegittimo, a seguito di una violazione
dei criteri su cui il datore di lavoro deve basarsi per determinare i
lavoratori da licenziare, sono manifestamente prive di collegamento con gli
obblighi di notifica e di consultazione risultanti dalla direttiva 98/59. Né
tali modalità né detti criteri di scelta rientrano nell’ambito di applicazione
di tale direttiva. Essi rimangono, di conseguenza, di competenza degli Stati
membri (v., in tal senso, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga,
C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 32).
43 Occorre
altresì rammentare che, ai sensi dell’articolo 6 della direttiva 98/59, gli
Stati membri devono garantire che i rappresentanti dei lavoratori e/o i
lavoratori dispongano di procedure amministrative e/o giurisdizionali per far
rispettare gli obblighi previsti da tale direttiva. Detto articolo 6 non impone
agli Stati membri misure specifiche in caso di violazione degli obblighi
fissati dalla direttiva 98/59, ma lascia loro la libertà di scegliere fra le
varie soluzioni atte a conseguire lo scopo perseguito da tale direttiva, in
base alle diverse situazioni che possono presentarsi. Come rammentato, in
sostanza, dal giudice del rinvio, tali misure devono tuttavia garantire una
tutela giurisdizionale effettiva ed efficace ai sensi dell’articolo 47 della
Carta e avere un reale effetto deterrente (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto
33, e giurisprudenza ivi citata).
44 Tuttavia,
l’articolo 6 della direttiva 98/59 e la menzionata giurisprudenza si applicano
solo ai procedimenti diretti a far rispettare gli obblighi previsti da tale
direttiva. Nei limiti in cui dall’ordinanza di rinvio emerge inequivocabilmente
che la seconda questione non riguarda la violazione di un obbligo fissato da
tale direttiva, ma la violazione dei criteri stabiliti dalla normativa
nazionale sui quali il datore di lavoro si deve basare, in caso di
licenziamento collettivo, per determinare i lavoratori che saranno sottoposti a
tale procedura, che sono di competenza degli Stati membri, detto articolo 6 e
detta giurisprudenza non possono, nel caso di specie, trovare applicazione (v.,
per analogia, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20,
non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 34).
45 Inoltre,
nei limiti in cui una normativa nazionale che prevede l’applicazione
concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento
collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo
indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo non rientra
nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59, tale normativa nazionale non
può essere considerata come attuativa del diritto dell’Unione, ai sensi
dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta e, di conseguenza, non può essere
esaminata alla luce delle garanzie di quest’ultima e, in particolare, dei suoi
articoli 20 e 30.
46 Da
tutte le considerazioni che precedono risulta che una normativa nazionale che
prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura
di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a
tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo effettuato in
violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che saranno
sottoposti a tale procedura non rientra nell’ambito di applicazione della
direttiva 98/59 e non può, pertanto, essere esaminata alla luce dei diritti
fondamentali garantiti dalla Carta e, in particolare, dei suoi articoli 20 e
30.
Sulla prima questione
47 Con
la sua prima questione, che deve essere esaminata in secondo luogo, il giudice
del rinvio chiede, in sostanza, se la clausola 4 dell’accordo quadro debba
essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che
estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso
di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo
determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa,
è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.
48 Ai
sensi della clausola 1, lettera a), dell’accordo quadro, uno degli obiettivi di
quest’ultimo è migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo
il rispetto del principio di non discriminazione. Del pari, al suo terzo comma,
il preambolo dell’accordo quadro precisa che esso «indica la volontà delle
parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di
trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle
discriminazioni». Il considerando 14 della direttiva 1999/70 precisa, a tal
fine, che l’obiettivo dell’accordo quadro consiste, in particolare, nel
migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, fissando requisiti minimi
atti a garantire l’applicazione del principio di non discriminazione (sentenza
del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi,
C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 21).
49 L’accordo
quadro, in particolare la sua clausola 4, mira a dare applicazione a tale
principio nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire
che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di
lavoro per privare detti lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a
tempo indeterminato (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza
Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 22).
50 Alla
luce degli obiettivi perseguiti dall’accordo quadro, la clausola 4 di
quest’ultimo deve essere intesa nel senso che essa esprime un principio di
diritto sociale dell’Unione che non può essere interpretato in modo restrittivo
(sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 23).
51 Occorre
ricordare che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sancisce il divieto,
per quanto riguarda le condizioni di impiego, di trattare i lavoratori a tempo
determinato in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato
comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a
tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. Il punto 4 di
tale clausola sancisce il medesimo divieto per quanto riguarda i criteri dei
periodi di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di impiego.
52 In
primo luogo, la Corte ha già dichiarato che la tutela accordata a un lavoratore
in caso di licenziamento illegittimo rientra nella nozione di «condizioni di
impiego» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro (v., in tal
senso, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punti da 28 a 30).
53 In
secondo luogo, in base a una giurisprudenza costante della Corte, al fine di
valutare se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile, nel
senso dell’accordo quadro, occorre stabilire, conformemente alla clausola 3,
punto 2, e alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, se, tenuto conto di
un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e
le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali persone si trovino in una
situazione comparabile (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17,
EU:C:2018:603, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).
54 Spetta
al giudice del rinvio, che è il solo competente a valutare i fatti, determinare
se la ricorrente nel procedimento principale si trovasse in una situazione
comparabile a quella dei lavoratori assunti a tempo indeterminato nel corso del
medesimo periodo dallo stesso datore di lavoro (v., per analogia, sentenza del
25 luglio 2018, Vernaza Ayovi,
C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 35). A tal riguardo, risulta in principio
dal fascicolo sottoposto alla Corte che, prima della conversione del suo contratto
a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, la ricorrente nel
procedimento principale era una lavoratrice a tempo determinato che si trovava
in una situazione comparabile a quella dei suoi colleghi assunti a tempo
indeterminato.
55 In terzo
luogo, per quanto riguarda la sussistenza di una differenza di trattamento, il
giudice del rinvio rileva che, se si dovesse tener conto della data di
conclusione del suo contratto di lavoro a tempo determinato, la ricorrente nel
procedimento principale potrebbe rivendicare la reintegrazione nell’impresa ai
sensi della legge n. 223/1991, più vantaggiosa dell’indennità cui ha
diritto ai sensi del decreto legislativo n. 23/2015. La ricorrente nel
procedimento principale è stata, di conseguenza, trattata in modo meno
favorevole dei suoi colleghi, assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo
2015, data di entrata in vigore di tale decreto legislativo.
56 Il
fatto che la ricorrente nel procedimento principale abbia
acquisito, dopo tale data, la qualità di lavoratore a tempo indeterminato non
esclude la possibilità per essa di avvalersi, in determinate circostanze, del
principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’accordo quadro
(v., in tal senso, sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C‑302/11
a C‑305/11, EU:C:2012:646, punto 34). A tal riguardo è sufficiente
constatare che la differenza di trattamento di cui la ricorrente nel
procedimento principale sostiene di essere vittima risulta dal fatto che essa è
stata inizialmente assunta a tempo determinato.
57 Peraltro,
nella misura in cui il riferimento all’anzianità di servizio della ricorrente
nel procedimento principale, effettuato dal giudice del rinvio nella risposta
scritta ai quesiti della Corte, debba essere inteso come riguardante il punto 4
della clausola 4 dell’accordo quadro, occorre innanzitutto escludere
l’applicabilità di tale disposizione. Quest’ultima prevede che i criteri del
periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro
dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per
quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di
periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive. Il fatto che
la ricorrente nel procedimento principale sia stata trattata in modo meno
favorevole dei suoi colleghi che hanno subito lo stesso licenziamento
collettivo non è tuttavia dovuto ai criteri del periodo di anzianità per la
determinazione della tutela in caso di licenziamento collettivo illegittimo. La
differenza di trattamento risulta piuttosto dal regime transitorio istituito
dall’articolo 1, paragrafo 2, di tale decreto legislativo, che estende
l’applicazione di quest’ultimo ai contratti a tempo determinato stipulati prima
della data della sua entrata in vigore, convertiti in contratti a tempo
indeterminato dopo tale data. Una siffatta differenza di trattamento deve
essere esaminata alla luce del punto 1 della clausola 4 dell’accordo quadro.
58 Di
conseguenza, fatta salva la valutazione definitiva da parte del giudice del
rinvio circa la comparabilità fra la situazione di un lavoratore a tempo
determinato, come la ricorrente nel procedimento principale, e quella di un
lavoratore a tempo indeterminato, tenuto conto del complesso degli elementi
pertinenti, occorre verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi
il diverso trattamento (v., per analogia, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17,
EU:C:2018:603, punto 37).
59 A
tale proposito, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante
della Corte, la nozione di «ragioni oggettive», ai sensi della clausola 4,
punto 1, dell’accordo quadro, deve essere intesa nel senso che essa non
consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo
determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale
differenza è prevista da una norma generale e astratta, quale una legge o un
contratto collettivo (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza
Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 38).
60 Detta
nozione richiede, secondo una giurisprudenza parimenti costante, che la
differenza di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di
elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di
cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri
oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale differenza risponda ad
una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti
necessaria a tal fine. Detti elementi possono risultare, segnatamente, dalla
particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali sono stati
conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a
queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di
politica sociale di uno Stato membro (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17,
EU:C:2018:603, punto 39).
61 Dal
fascicolo di cui dispone la Corte e dalle risposte ai quesiti della Corte
emerge che il governo italiano considera che il trattamento meno favorevole di
un lavoratore nella situazione della ricorrente nel procedimento principale è
giustificato dall’obiettivo di politica sociale perseguito dal decreto
legislativo n. 23/2015, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad
assumere lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, l’assimilazione a una nuova
assunzione della conversione di un contratto a tempo determinato in un
contratto a tempo indeterminato sarebbe giustificata dal fatto che il
lavoratore interessato ottiene, in cambio, una forma di stabilità dell’impiego.
62 Si
deve constatare che rafforzare la stabilità dell’occupazione favorendo la
conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo
indeterminato costituisce un obiettivo legittimo del diritto sociale e,
peraltro, un obiettivo perseguito dall’accordo quadro. Da un lato, la Corte ha
già avuto modo di precisare che la promozione delle assunzioni costituisce
incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e
dell’occupazione degli Stati membri (v., in tal senso, sentenza del 19 luglio
2017, Abercrombie & Fitch Italia, C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 37).
Dall’altro lato, il secondo comma del preambolo dell’accordo quadro sancisce
che le parti a quest’ultimo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato
sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i
datori di lavoro e i lavoratori. Di conseguenza, il beneficio della stabilità
dell’impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori (v.,
in tal senso, sentenza del 15 aprile 2008, Impact, C‑268/06,
EU:C:2008:223, punto 87).
63 Per
quanto concerne l’adeguatezza e il carattere necessario della misura per
raggiungere tale obiettivo, occorre ricordare che gli Stati membri dispongono
di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire un
determinato scopo fra gli altri in materia di politica sociale e di
occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (v.,
in tal senso, sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C‑143/16,
EU:C:2017:566, punto 31).
64 Per
quanto riguarda, innanzitutto, l’adeguatezza dell’assimilazione a un nuovo
contratto della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto
a tempo indeterminato, essa ha come effetto che, in caso di licenziamento
collettivo illegittimo, il lavoratore interessato non ha diritto alla
reintegrazione nell’impresa, ai sensi della legge n. 223/1991, ma solo
all’indennità, meno favorevole, e entro un massimale,
prevista dal decreto legislativo n. 23/2015. Come rilevato dal governo
italiano nelle sue osservazioni scritte, una siffatta misura di assimilazione
appare tale da incentivare i datori di lavoro a convertire i contratti di
lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, circostanza che,
tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare.
65 Per
quanto concerne, poi, il carattere necessario di tale misura, occorre tener
conto dell’ampio margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri,
rammentato al punto 63 della presente sentenza. Detta misura si inserisce
nell’ambito di una riforma del diritto sociale italiano volta a promuovere la
creazione, attraverso l’assunzione o la conversione di un contratto a tempo
determinato, di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Orbene, se il nuovo
regime di tutela istituito dal decreto legislativo n. 23/2015 non si applicasse
ai contratti che sono stati convertiti, sarebbe escluso sin dall’inizio
qualsiasi effetto di incentivo alla conversione dei contratti a tempo
determinato in vigore al 7 marzo 2015 in contratti a tempo indeterminato.
66 Infine,
il fatto che il decreto legislativo n. 23/2015 operi una regressione del
livello di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato non rileva, di per sé,
ai fini del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4 dell’accordo
quadro. A questo proposito è sufficiente constatare che il principio di non
discriminazione è stato attuato e concretizzato dall’accordo quadro soltanto
riguardo alle differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e
i lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in situazioni comparabili. Pertanto,
le eventuali differenze di trattamento tra determinate categorie di personale a
tempo indeterminato non rientrano nell’ambito del principio di non
discriminazione sancito da tale accordo quadro (v., per analogia, sentenza del
21 novembre 2018, Viejobueno Ibáñez
e de la Vara González, C‑245/17, EU:C:2018:934, punto 51).
67 Fatte
salve le verifiche che devono essere effettuate dal giudice del rinvio, il solo
competente a interpretare il diritto nazionale, dalle considerazioni che
precedono discende che l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione
di un contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo
indeterminato rientra in una più ampia riforma del diritto sociale italiano il
cui obiettivo è quello di promuovere le assunzioni a tempo indeterminato. In
tali circostanze, una siffatta misura di assimilazione si inserisce in un
contesto particolare, dal punto di vista sia fattuale che giuridico, che
giustifica in via eccezionale la differenza di trattamento.
68 Come
risulta da tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima
questione dichiarando che la clausola 4 dell’accordo quadro deve essere
interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende
un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di
licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo
determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa,
è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.
Sulle spese
69 Nei
confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi
statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare
osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione)
dichiara:
1) Una normativa
nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e
unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela
dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo
effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che
saranno sottoposti a tale procedura non rientra nell’ambito di applicazione
della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di
licenziamenti collettivi, e non può, pertanto, essere esaminata alla luce dei
diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea e, in particolare, dei suoi articoli 20 e 30.
2) La clausola 4
dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e
allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa
all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve
essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che
estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso
di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo
determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa,
è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.
Firme
* Lingua
processuale: l’italiano.