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SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)

17 marzo 2021 (*)

«Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 1999/70/CE – Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato – Clausola 4 – Principio di non discriminazione – Ragioni oggettive che giustificano un trattamento diverso dei lavoratori a tempo determinato – Direttiva 98/59/CE – Licenziamento collettivo – Normativa nazionale relativa alla tutela da accordare a un lavoratore vittima di un licenziamento collettivo illegittimo – Applicazione di un regime di tutela meno vantaggioso ai contratti a tempo determinato stipulati prima della data della sua entrata in vigore, convertiti in contratti a tempo indeterminato successivamente a tale data»

Nella causa C‑652/19,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Tribunale di Milano (Italia), con ordinanza del 5 agosto 2019, pervenuta in cancelleria il 2 settembre 2019, nel procedimento

KO

contro

Consulmarketing SpA, in fallimento,

con l’intervento di:

Filcams CGIL,

Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL),

LA CORTE (Seconda Sezione),

composta da A. Arabadjiev, presidente di sezione, A. Kumin (relatore), T. von Danwitz, P.G. Xuereb e I. Ziemele, giudici,

avvocato generale: J. Kokott,

cancelliere: A. Calot Escobar

vista la fase scritta del procedimento,

considerate le osservazioni presentate:

–        per KO, la Filcams CGIL e la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), da C. De Marchis Gòmez, avvocato;

–        per il governo italiano, da G. Palmieri, in qualità di agente, assistita da G. Aiello ed E. Manzo, avvocati dello Stato;

–        per la Commissione europea, inizialmente da B.-R. Killmann, A. Spina e M. van Beek, successivamente da B.-R. Killmann e A. Spina, in qualità di agenti,

vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GU 1998, L 225, pag. 16), della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro») e allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU 1999, L 175, pag. 43), nonché degli articoli 20 e 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).

2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra KO e la Consulmarketing SpA, in fallimento, in merito alla tutela giuridica da accordare a KO a seguito del suo licenziamento da parte della Consulmarketing nell’ambito di un licenziamento collettivo illegittimo.

 Contesto normativo

 Diritto dell’Unione

 Direttiva 98/59

3        I considerando 2 e 6 della direttiva 98/59 sono così formulati:

«(2)      considerando che occorre rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, tenendo conto della necessità di uno sviluppo economico-sociale equilibrato nella Comunità;

(...)

(6)      considerando che nella carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata dai capi di Stato o di governo di undici Stati membri il 9 dicembre 1989 al Consiglio europeo di Strasburgo, si dichiara in particolare al punto 7 (...) [che] “[l]a realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea (...)”».

4        L’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), di tale direttiva prevede che essa non si applica, in particolare, «ai licenziamenti collettivi effettuati nel quadro di contratti di lavoro a tempo determinato o per un compito determinato, a meno che tali licenziamenti non avvengano prima della scadenza del termine o dell’espletamento del compito previsto nei suddetti contratti».

 Direttiva 1999/70 e accordo quadro

5        Ai sensi del considerando 14 della direttiva 1999/70 «le parti contraenti hanno voluto concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che stabilisce i principi generali e i requisiti minimi per i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato; hanno espresso l’intenzione di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione, nonché di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato».

6        Il secondo comma del preambolo dell’accordo quadro stabilisce che le parti firmatarie di quest’ultimo «riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori [e] che i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori».

7        La clausola 1 dell’accordo quadro, intitolata «Obiettivo», così dispone:

«L’obiettivo del presente accordo quadro è:

a)      migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione;

(...)».

8        Ai sensi della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro:

«Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro».

9        La clausola 3 dell’accordo quadro, intitolata «Definizioni», prevede quanto segue:

«1.      Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo determinato” indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico.

2.      Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo indeterminato comparabile” indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze. In assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali».

10      La clausola 4 dell’accordo quadro, intitolata «Principio di non discriminazione», così dispone:

«1.      Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive.

(...)

4.      I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive».

 Diritto italiano

11      La legge del 23 luglio 1991, n. 223 – Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro (supplemento ordinario alla GURI n. 175 del 27 luglio 1991), come modificata dalla legge del 28 giugno 2012, n. 92 – Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita (supplemento ordinario alla GURI n. 153 del 3 luglio 2012) (in prosieguo: la «legge n. 223/1991»), fissa il quadro giuridico applicabile alle procedure di licenziamento collettivo, di cui fanno parte segnatamente le disposizioni che recepiscono la direttiva 98/59 nel diritto italiano. Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale emerge che l’articolo 5, comma 1, della legge n. 223/1991 stabilisce i criteri sui quali il datore di lavoro si deve basare, in caso di licenziamento collettivo, per determinare quali lavoratori vi saranno sottoposti.

12      L’articolo 5, comma 3, della legge n. 223/1991 così dispone:

«(...) In caso di violazione dei criteri di scelta [dei lavoratori che saranno licenziati] previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma dell’(...) articolo 18 [della legge del 20 maggio 1970, n. 300 – Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento (GURI n. 131 del 27 maggio 1970)] (...)».

13      Il primo e il quarto comma dell’articolo 18 della legge del 20 maggio 1970, n. 300, nella versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale, prevedono quanto segue:

«Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio (...) ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro (...) la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. (…) A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

(...)

Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, (...) annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. (...) Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. (...)».

14      L’articolo 1, commi 1 e 2, del decreto legislativo del 4 marzo 2015, n. 23 – Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (GURI n. 54 del 6 marzo 2015; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 23/2015»), così dispone:

«1.      Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto.

2.      Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato».

15      L’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 dispone che, in caso di licenziamento collettivo ingiustificato, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e «condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità». In forza del decreto-legge del 12 luglio 2018, n. 87 – Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese (GURI n. 161 del 13 luglio 2018), tale intervallo è compreso tra 6 e 36 mensilità.

16      L’articolo 10, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 è così formulato:

«1.      (...) In caso di violazione (...) dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223/1991, si applica il regime di cui all’articolo 3, comma 1».

 Procedimento principale e questioni pregiudiziali

17      La ricorrente di cui al procedimento principale è stata assunta dalla Consulmarketing a partire dal 14 gennaio 2013, nell’ambito di un contratto di lavoro a tempo determinato.

18      Il 31 marzo 2015 tale contratto a tempo determinato è stato trasformato in contratto a tempo indeterminato.

19      Il 19 gennaio 2017 la Consulmarketing ha avviato una procedura di licenziamento collettivo che ha interessato 350 lavoratori, tra cui la ricorrente nel procedimento principale, e all’esito della quale tutti i lavoratori sono stati licenziati.

20      I lavoratori licenziati hanno presentato un ricorso dinanzi al giudice del rinvio, il Tribunale di Milano (Italia), in ragione, segnatamente, del fatto che la Consulmarketing aveva violato i criteri su cui il datore di lavoro deve basarsi, in caso di licenziamento collettivo, per determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale licenziamento.

21      Il giudice del rinvio ha constatato l’illegittimità del licenziamento collettivo, ha ordinato il risarcimento dei danni e disposto la reintegrazione nell’impresa di tutti i lavoratori interessati, ad eccezione della ricorrente nel procedimento principale. Tale giudice ha infatti ritenuto che essa non potesse beneficiare dello stesso regime di tutela degli altri lavoratori licenziati per il motivo che la data di conversione del suo contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato era successiva al 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015.

22      Nell’ambito dell’opposizione proposta avverso tale decisione, che costituisce il procedimento principale, la ricorrente nel procedimento principale fa valere, in particolare, la non conformità al diritto dell’Unione della normativa nazionale applicabile e la violazione del principio della parità di trattamento. Occorre inoltre rilevare che, nel corso di tale procedimento, da un lato, la Consulmarketing è stata dichiarata fallita e, dall’altro, la Filcams CGIL e la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) sono intervenute volontariamente a sostegno delle conclusioni della ricorrente nel procedimento principale, nella loro qualità di organizzazioni sindacali.

23      Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale emerge che, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto nell’ambito di un contratto di lavoro a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, il datore di lavoro deve, da un lato, reintegrare il lavoratore interessato nel suo posto di lavoro e, dall’altro, versargli un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto che copre il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali corrispondenti a questo stesso periodo, ma tale indennità non può essere superiore a dodici mensilità. I lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015 non potrebbero rivendicare una siffatta reintegrazione, ma solo un’indennità, che non dà luogo al versamento di contributi previdenziali. L’importo di tale indennità dipenderebbe, segnatamente, dall’anzianità di servizio del lavoratore e corrisponderebbe, a seconda dei casi, come minimo, a 4 mesi di retribuzione e, come massimo, a 24 mesi di retribuzione. A partire dal 2018, questo intervallo sarebbe stato esteso, rispettivamente, a 6 ed a 36 mesi di retribuzione.

24      Nel caso di specie, anche se la ricorrente nel procedimento principale è entrata in servizio prima del 7 marzo 2015, il suo contratto a tempo determinato è stato convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data. Orbene, la conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, ai fini della fissazione del regime di tutela in caso di licenziamento collettivo illegittimo, sarebbe assimilata a una nuova assunzione. In quest’ottica, la ricorrente nel procedimento principale non può rivendicare, in forza della normativa nazionale, la reintegrazione nelle sue funzioni né il risarcimento dei danni, ma solo un’indennità.

25      Il giudice del rinvio si chiede se tale situazione sia compatibile con la direttiva 98/59 e con la clausola 4 dell’accordo quadro, letti alla luce degli articoli 20 e 30 della Carta.

26      In primo luogo, secondo il giudice del rinvio, l’indennità che può rivendicare la ricorrente nel procedimento principale non costituisce una compensazione adeguata per un licenziamento collettivo illegittimo, ai sensi dell’articolo 30 della Carta. Dalle spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17) emergerebbe, infatti, che quest’ultima disposizione dovrebbe essere interpretata alla luce dell’articolo 24 della Carta sociale europea, firmata a Torino il 18 ottobre 1961, che a sua volta sarebbe stata interpretata dal Comitato europeo dei diritti sociali nel senso che una sanzione derivante da un licenziamento collettivo illegittimo è considerata adeguata quando prevede, primo, il rimborso delle perdite economiche subite dal lavoratore interessato tra il giorno del suo licenziamento e la decisione che condanna il datore di lavoro a detto rimborso, secondo, una possibilità di reintegrare tale lavoratore nell’impresa nonché, terzo, un’indennità di importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito da detto lavoratore.

27      In secondo luogo, il giudice del rinvio constata una differenza di trattamento tra, da un lato, la ricorrente nel procedimento principale, ossia una lavoratrice che è entrata in servizio prima del 7 marzo 2015 nell’ambito di un contratto di lavoro a tempo determinato, convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data, e, dall’altro, tutti gli altri lavoratori licenziati dalla Consulmarketing, i quali erano stati assunti nell’ambito di contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati prima di tale data. Questa differenza di trattamento risulterebbe dall’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

28      Alla luce di tali circostanze, il Tribunale di Milano ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 dell’[accordo quadro] sulle condizioni di impiego ostino alle previsioni normative dell’articolo 1, secondo comma e dell’articolo 10 del decreto legislativo n. 23/2015 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7 marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa, una tutela meramente indennitaria nell’ambito di un limite minimo ed un limite massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015.

2)      Se le previsioni contenute negli articoli 20 e 30 della [Carta] e nella direttiva [98/59] ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all’articolo 10 del decreto legislativo n. 23/15 che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e coinvolti nella medesima procedura, non è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro e che introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione».

 Sulle questioni pregiudiziali

 Considerazioni preliminari

29      Dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta che il procedimento principale riguarda due regimi successivi di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo illegittimo. Da un lato, un lavoratore a tempo indeterminato il cui contratto è stato stipulato fino al 7 marzo 2015 può, ai sensi della legge n. 223/1991, rivendicare la sua reintegrazione nell’impresa. D’altro lato, un lavoratore a tempo indeterminato il cui contratto è stato stipulato a partire da tale data ha diritto soltanto a un’indennità entro un massimale, ai sensi del decreto legislativo n. 23/2015.

30      L’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 23/2015 precisa che il regime di tutela da esso previsto si applica ai contratti a tempo determinato convertiti in contratti a tempo indeterminato dopo la sua entrata in vigore. Poiché la ricorrente nel procedimento principale si trova in tale situazione, essa ha diritto solo a un’indennità in forza di tale decreto legislativo, contrariamente a tutti i suoi colleghi che sono stati licenziati contemporaneamente ad essa, ma che sono stati reintegrati nell’impresa in base alla legge n. 223/1991, in quanto erano lavoratori a tempo indeterminato assunti prima del 7 marzo 2015.

31      Il giudice del rinvio interroga la Corte sulla compatibilità del nuovo regime introdotto dal decreto legislativo n. 23/2015 con l’accordo quadro, la direttiva 98/59 e gli articoli 20 e 30 della Carta.

32      Orbene, si deve ricordare innanzitutto che il sistema di cooperazione istituito dall’articolo 267 TFUE è fondato su una netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte. Nell’ambito di un procedimento instaurato in forza di tale articolo, l’interpretazione delle disposizioni nazionali incombe ai giudici degli Stati membri e non alla Corte e non spetta a quest’ultima pronunciarsi sulla compatibilità di norme di diritto interno con le disposizioni del diritto dell’Unione. Per contro, la Corte è competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi interpretativi attinenti al diritto dell’Unione che consentano a detto giudice di valutare la compatibilità di norme di diritto interno con la normativa dell’Unione (sentenza del 30 aprile 2020, CTT – Correios de Portugal, C‑661/18, EU:C:2020:335, punto 28).

33      Pertanto, se è vero che il tenore letterale delle questioni sollevate in via pregiudiziale dal giudice del rinvio invita la Corte a pronunciarsi sulla compatibilità di disposizioni di diritto interno con il diritto dell’Unione, nulla impedisce alla Corte di dare una risposta utile al giudice del rinvio fornendogli gli elementi di interpretazione attinenti al diritto dell’Unione che consentiranno a tale giudice di statuire sulla compatibilità del diritto interno con il diritto dell’Unione (sentenza del 30 aprile 2020, CTT – Correios de Portugal, C‑661/18, EU:C:2020:335, punto 29).

34      Peraltro, le disposizioni della Carta si applicano, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della medesima, agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. L’articolo 6, paragrafo 1, TUE nonché l’articolo 51, paragrafo 2, della Carta chiariscono che la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione europea, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati. La Corte è quindi chiamata a interpretare, alla luce della Carta, il diritto dell’Unione nei limiti delle competenze che le sono attribuite (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).

35      Occorre quindi riformulare le questioni pregiudiziali come intese all’interpretazione, da un lato, della clausola 4 dell’accordo quadro e, dall’altro, della direttiva 98/59, letta alla luce degli articoli 20 e 30 della Carta.

 Sulla seconda questione

36      Con la sua seconda questione, che occorre esaminare in primo luogo, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 98/59 e gli articoli 20 e 30 della Carta debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale procedura.

37      Contrariamente a quanto sottintende il giudice del rinvio, non è sufficiente, al fine di constatare che le disposizioni del diritto italiano di cui trattasi nel procedimento principale attuano la direttiva 98/59, che tali disposizioni si inseriscano in una normativa nazionale più ampia, di cui alcune altre disposizioni sono state adottate al fine di recepire tale direttiva nell’ordinamento interno. Affinché si possa constatare l’applicabilità della direttiva 98/59 e, di conseguenza, della Carta, al procedimento principale, sarebbe infatti necessario che tale direttiva imponesse un obbligo specifico rispetto alla situazione di cui trattasi nella presente causa, attuato dalle disposizioni del diritto italiano interessate (v., per analogia, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 27).

38      Orbene, dall’ordinanza di rinvio non emerge che nella controversia di cui al procedimento principale sia in discussione un qualsivoglia obbligo imposto dalla direttiva 98/59 (v., per analogia, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 28).

39      Da un lato, occorre constatare che il considerando 2 della direttiva 98/59, al quale il giudice del rinvio fa riferimento e da cui risulta che tale direttiva mira a rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, non può imporre un obbligo specifico in relazione a una situazione come quella della ricorrente nel procedimento principale (v., per analogia, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 29).

40      Dall’altro lato, un siffatto obbligo non emerge dalle disposizioni della direttiva 98/59. L’obiettivo principale di tale direttiva consiste nel far precedere i licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall’informazione dell’autorità pubblica competente. Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, di detta direttiva, le consultazioni vertono sulle possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati. Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, e dell’articolo 3, paragrafo 1, della medesima direttiva, il datore di lavoro deve notificare all’autorità pubblica ogni progetto di licenziamento collettivo e fornirle gli elementi e le informazioni di cui a tali disposizioni (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 30 e giurisprudenza ivi citata).

41      La direttiva 98/59 garantisce in tal modo solo un’armonizzazione parziale delle regole di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo, ossia la procedura da seguire nel caso di tali licenziamenti. La Corte, infatti, ha già avuto modo di precisare che tale direttiva non mira a istituire un meccanismo di compensazione economica generale a livello dell’Unione in caso di perdita del lavoro, né tanto meno ad armonizzare le modalità di cessazione definitiva delle attività di un’impresa (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 31 e giurisprudenza citata).

42      Orbene, le modalità della tutela che deve essere accordata a un lavoratore che è stato oggetto di un licenziamento collettivo illegittimo, a seguito di una violazione dei criteri su cui il datore di lavoro deve basarsi per determinare i lavoratori da licenziare, sono manifestamente prive di collegamento con gli obblighi di notifica e di consultazione risultanti dalla direttiva 98/59. Né tali modalità né detti criteri di scelta rientrano nell’ambito di applicazione di tale direttiva. Essi rimangono, di conseguenza, di competenza degli Stati membri (v., in tal senso, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 32).

43      Occorre altresì rammentare che, ai sensi dell’articolo 6 della direttiva 98/59, gli Stati membri devono garantire che i rappresentanti dei lavoratori e/o i lavoratori dispongano di procedure amministrative e/o giurisdizionali per far rispettare gli obblighi previsti da tale direttiva. Detto articolo 6 non impone agli Stati membri misure specifiche in caso di violazione degli obblighi fissati dalla direttiva 98/59, ma lascia loro la libertà di scegliere fra le varie soluzioni atte a conseguire lo scopo perseguito da tale direttiva, in base alle diverse situazioni che possono presentarsi. Come rammentato, in sostanza, dal giudice del rinvio, tali misure devono tuttavia garantire una tutela giurisdizionale effettiva ed efficace ai sensi dell’articolo 47 della Carta e avere un reale effetto deterrente (ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 33, e giurisprudenza ivi citata).

44      Tuttavia, l’articolo 6 della direttiva 98/59 e la menzionata giurisprudenza si applicano solo ai procedimenti diretti a far rispettare gli obblighi previsti da tale direttiva. Nei limiti in cui dall’ordinanza di rinvio emerge inequivocabilmente che la seconda questione non riguarda la violazione di un obbligo fissato da tale direttiva, ma la violazione dei criteri stabiliti dalla normativa nazionale sui quali il datore di lavoro si deve basare, in caso di licenziamento collettivo, per determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale procedura, che sono di competenza degli Stati membri, detto articolo 6 e detta giurisprudenza non possono, nel caso di specie, trovare applicazione (v., per analogia, ordinanza del 4 giugno 2020, Balga, C‑32/20, non pubblicata, EU:C:2020:441, punto 34).

45      Inoltre, nei limiti in cui una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59, tale normativa nazionale non può essere considerata come attuativa del diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta e, di conseguenza, non può essere esaminata alla luce delle garanzie di quest’ultima e, in particolare, dei suoi articoli 20 e 30.

46      Da tutte le considerazioni che precedono risulta che una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale procedura non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59 e non può, pertanto, essere esaminata alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta e, in particolare, dei suoi articoli 20 e 30.

 Sulla prima questione

47      Con la sua prima questione, che deve essere esaminata in secondo luogo, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la clausola 4 dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.

48      Ai sensi della clausola 1, lettera a), dell’accordo quadro, uno degli obiettivi di quest’ultimo è migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione. Del pari, al suo terzo comma, il preambolo dell’accordo quadro precisa che esso «indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni». Il considerando 14 della direttiva 1999/70 precisa, a tal fine, che l’obiettivo dell’accordo quadro consiste, in particolare, nel migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, fissando requisiti minimi atti a garantire l’applicazione del principio di non discriminazione (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 21).

49      L’accordo quadro, in particolare la sua clausola 4, mira a dare applicazione a tale principio nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare detti lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 22).

50      Alla luce degli obiettivi perseguiti dall’accordo quadro, la clausola 4 di quest’ultimo deve essere intesa nel senso che essa esprime un principio di diritto sociale dell’Unione che non può essere interpretato in modo restrittivo (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 23).

51      Occorre ricordare che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sancisce il divieto, per quanto riguarda le condizioni di impiego, di trattare i lavoratori a tempo determinato in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. Il punto 4 di tale clausola sancisce il medesimo divieto per quanto riguarda i criteri dei periodi di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di impiego.

52      In primo luogo, la Corte ha già dichiarato che la tutela accordata a un lavoratore in caso di licenziamento illegittimo rientra nella nozione di «condizioni di impiego» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punti da 28 a 30).

53      In secondo luogo, in base a una giurisprudenza costante della Corte, al fine di valutare se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile, nel senso dell’accordo quadro, occorre stabilire, conformemente alla clausola 3, punto 2, e alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, se, tenuto conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali persone si trovino in una situazione comparabile (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).

54      Spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a valutare i fatti, determinare se la ricorrente nel procedimento principale si trovasse in una situazione comparabile a quella dei lavoratori assunti a tempo indeterminato nel corso del medesimo periodo dallo stesso datore di lavoro (v., per analogia, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 35). A tal riguardo, risulta in principio dal fascicolo sottoposto alla Corte che, prima della conversione del suo contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, la ricorrente nel procedimento principale era una lavoratrice a tempo determinato che si trovava in una situazione comparabile a quella dei suoi colleghi assunti a tempo indeterminato.

55      In terzo luogo, per quanto riguarda la sussistenza di una differenza di trattamento, il giudice del rinvio rileva che, se si dovesse tener conto della data di conclusione del suo contratto di lavoro a tempo determinato, la ricorrente nel procedimento principale potrebbe rivendicare la reintegrazione nell’impresa ai sensi della legge n. 223/1991, più vantaggiosa dell’indennità cui ha diritto ai sensi del decreto legislativo n. 23/2015. La ricorrente nel procedimento principale è stata, di conseguenza, trattata in modo meno favorevole dei suoi colleghi, assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore di tale decreto legislativo.

56      Il fatto che la ricorrente nel procedimento principale abbia acquisito, dopo tale data, la qualità di lavoratore a tempo indeterminato non esclude la possibilità per essa di avvalersi, in determinate circostanze, del principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C‑302/11 a C‑305/11, EU:C:2012:646, punto 34). A tal riguardo è sufficiente constatare che la differenza di trattamento di cui la ricorrente nel procedimento principale sostiene di essere vittima risulta dal fatto che essa è stata inizialmente assunta a tempo determinato.

57      Peraltro, nella misura in cui il riferimento all’anzianità di servizio della ricorrente nel procedimento principale, effettuato dal giudice del rinvio nella risposta scritta ai quesiti della Corte, debba essere inteso come riguardante il punto 4 della clausola 4 dell’accordo quadro, occorre innanzitutto escludere l’applicabilità di tale disposizione. Quest’ultima prevede che i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive. Il fatto che la ricorrente nel procedimento principale sia stata trattata in modo meno favorevole dei suoi colleghi che hanno subito lo stesso licenziamento collettivo non è tuttavia dovuto ai criteri del periodo di anzianità per la determinazione della tutela in caso di licenziamento collettivo illegittimo. La differenza di trattamento risulta piuttosto dal regime transitorio istituito dall’articolo 1, paragrafo 2, di tale decreto legislativo, che estende l’applicazione di quest’ultimo ai contratti a tempo determinato stipulati prima della data della sua entrata in vigore, convertiti in contratti a tempo indeterminato dopo tale data. Una siffatta differenza di trattamento deve essere esaminata alla luce del punto 1 della clausola 4 dell’accordo quadro.

58      Di conseguenza, fatta salva la valutazione definitiva da parte del giudice del rinvio circa la comparabilità fra la situazione di un lavoratore a tempo determinato, come la ricorrente nel procedimento principale, e quella di un lavoratore a tempo indeterminato, tenuto conto del complesso degli elementi pertinenti, occorre verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi il diverso trattamento (v., per analogia, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 37).

59      A tale proposito, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, la nozione di «ragioni oggettive», ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, deve essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma generale e astratta, quale una legge o un contratto collettivo (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 38).

60      Detta nozione richiede, secondo una giurisprudenza parimenti costante, che la differenza di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale differenza risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti necessaria a tal fine. Detti elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C‑96/17, EU:C:2018:603, punto 39).

61      Dal fascicolo di cui dispone la Corte e dalle risposte ai quesiti della Corte emerge che il governo italiano considera che il trattamento meno favorevole di un lavoratore nella situazione della ricorrente nel procedimento principale è giustificato dall’obiettivo di politica sociale perseguito dal decreto legislativo n. 23/2015, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato sarebbe giustificata dal fatto che il lavoratore interessato ottiene, in cambio, una forma di stabilità dell’impiego.

62      Si deve constatare che rafforzare la stabilità dell’occupazione favorendo la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato costituisce un obiettivo legittimo del diritto sociale e, peraltro, un obiettivo perseguito dall’accordo quadro. Da un lato, la Corte ha già avuto modo di precisare che la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri (v., in tal senso, sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 37). Dall’altro lato, il secondo comma del preambolo dell’accordo quadro sancisce che le parti a quest’ultimo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori. Di conseguenza, il beneficio della stabilità dell’impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori (v., in tal senso, sentenza del 15 aprile 2008, Impact, C‑268/06, EU:C:2008:223, punto 87).

63      Per quanto concerne l’adeguatezza e il carattere necessario della misura per raggiungere tale obiettivo, occorre ricordare che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire un determinato scopo fra gli altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (v., in tal senso, sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 31).

64      Per quanto riguarda, innanzitutto, l’adeguatezza dell’assimilazione a un nuovo contratto della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, essa ha come effetto che, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, il lavoratore interessato non ha diritto alla reintegrazione nell’impresa, ai sensi della legge n. 223/1991, ma solo all’indennità, meno favorevole, e entro un massimale, prevista dal decreto legislativo n. 23/2015. Come rilevato dal governo italiano nelle sue osservazioni scritte, una siffatta misura di assimilazione appare tale da incentivare i datori di lavoro a convertire i contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, circostanza che, tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare.

65      Per quanto concerne, poi, il carattere necessario di tale misura, occorre tener conto dell’ampio margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri, rammentato al punto 63 della presente sentenza. Detta misura si inserisce nell’ambito di una riforma del diritto sociale italiano volta a promuovere la creazione, attraverso l’assunzione o la conversione di un contratto a tempo determinato, di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Orbene, se il nuovo regime di tutela istituito dal decreto legislativo n. 23/2015 non si applicasse ai contratti che sono stati convertiti, sarebbe escluso sin dall’inizio qualsiasi effetto di incentivo alla conversione dei contratti a tempo determinato in vigore al 7 marzo 2015 in contratti a tempo indeterminato.

66      Infine, il fatto che il decreto legislativo n. 23/2015 operi una regressione del livello di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato non rileva, di per sé, ai fini del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4 dell’accordo quadro. A questo proposito è sufficiente constatare che il principio di non discriminazione è stato attuato e concretizzato dall’accordo quadro soltanto riguardo alle differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in situazioni comparabili. Pertanto, le eventuali differenze di trattamento tra determinate categorie di personale a tempo indeterminato non rientrano nell’ambito del principio di non discriminazione sancito da tale accordo quadro (v., per analogia, sentenza del 21 novembre 2018, Viejobueno Ibáñez e de la Vara González, C‑245/17, EU:C:2018:934, punto 51).

67      Fatte salve le verifiche che devono essere effettuate dal giudice del rinvio, il solo competente a interpretare il diritto nazionale, dalle considerazioni che precedono discende che l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato rientra in una più ampia riforma del diritto sociale italiano il cui obiettivo è quello di promuovere le assunzioni a tempo indeterminato. In tali circostanze, una siffatta misura di assimilazione si inserisce in un contesto particolare, dal punto di vista sia fattuale che giuridico, che giustifica in via eccezionale la differenza di trattamento.

68      Come risulta da tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che la clausola 4 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.

 Sulle spese

69      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

 

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:

1)      Una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale procedura non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, e non può, pertanto, essere esaminata alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, in particolare, dei suoi articoli 20 e 30.

2)      La clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.

Firme


*      Lingua processuale: l’italiano.