Corte di Giustizia delle Comunità europee (Grande
Sezione), 27 giugno 2006
C-540/03, Parlamento europeo – Consiglio dell’Unione europea
Nella causa C‑540/03,
avente ad oggetto un ricorso d’annullamento proposto, ai sensi
dell’art. 230 CE, il 22 dicembre 2003,
Parlamento europeo,
rappresentato dai sigg. H. Duintjer Tebbens e A. Caiola, in
qualità di agenti, con domicilio eletto a Lussemburgo,
ricorrente,
contro
Consiglio dell’Unione
europea,
rappresentato dal sig. O. Petersen e dalla
sig.ra M. Simm, in qualità di agenti,
convenuto,
sostenuto da
Commissione delle Comunità
europee,
rappresentata dalla sig.ra C. O’Reilly e dal
sig. C. Ladenburger, in qualità di agenti,
con domicilio eletto a Lussemburgo,
interveniente,
e da
Repubblica federale di
Germania,
rappresentata dalla sig.ra A. Tiemann nonché dai
sigg. W.-D. Plessing
e M. Lumma, in qualità di agenti,
interveniente,
composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai
sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans, A. Rosas
(relatore) e K. Schiemann, presidenti di
sezione, dai sigg. J.‑P. Puissochet, K. Lenaerts,
P. Kūris, E. Juhász,
E. Levits e A. Ó Caoimh,
giudici,
avvocato generale: sig.ra J. Kokott
cancelliere: sig.ra M. Ferreira, amministratore principale
vista
la fase scritta del procedimento e in esito all’udienza del 28 giugno 2005,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza dell’8
settembre 2005,
ha
pronunciato la seguente
Sentenza
1 Con
il presente ricorso il Parlamento europeo chiede
l’annullamento dell’art. 4, nn. 1, ultimo
comma, e 6, nonché dell’art. 8 della direttiva del Consiglio 22 settembre
2003, 2003/86/CE, relativa al diritto al ricongiungimento familiare
(GU L 251, pag. 12; in prosieguo: la «direttiva»)
2 Con
ordinanza del presidente della Corte 5 maggio 2004, è stato ammesso
l’intervento della Commissione delle Comunità europee e della Repubblica
federale di Germania a sostegno del Consiglio
dell’Unione europea.
La direttiva
3 La
direttiva, fondata sul Trattato CE, e in particolare sull’art. 63,
n. 3, lett. a), del medesimo, stabilisce i requisiti in presenza dei quali può essere esercitato il diritto al
ricongiungimento familiare a favore dei cittadini dei paesi terzi che risiedano
legalmente sul territorio degli Stati membri.
4 Il
secondo ‘considerando’ della direttiva così recita:
«Le misure in materia di ricongiungimento familiare
dovrebbero essere adottate in conformità con l’obbligo di protezione della
famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato
in numerosi strumenti di diritto internazionale. La presente direttiva rispetta
i diritti fondamentali ed i principi riconosciuti in particolare nell’articolo
8 della convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea [GU 2000, C 364, pag. 1; in
prosieguo: la «Carta»].
5 Il
successivo dodicesimo ‘considerando’ della direttiva precisa quanto segue:
«La possibilità di limitare il
diritto al ricongiungimento familiare dei minori che abbiano superato i dodici
anni e che non risiedono in via principale con il soggiornante intende tener
conto della capacità di integrazione dei minori nei primi anni di vita e
assicurare che essi acquisiscano a scuola l’istruzione e le competenze
linguistiche necessarie».
6 La
direttiva si applica, ai termini dell’art. 3 della medesima, quando il
soggiornante è titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da uno Stato
membro per un periodo di validità pari o superiore a
un anno e ha fondate prospettive di ottenere il diritto di soggiornare in modo
stabile, se i membri della sua famiglia sono cittadini di paesi terzi,
indipendentemente dal loro status giuridico.
7 Ai
sensi dell’art. 3, n. 4, della direttiva stessa:
«La presente direttiva fa salve
le disposizioni più favorevoli contenute:
a) negli accordi
bilaterali e multilaterali stipulati tra
b) nella Carta
sociale europea del 18 ottobre 1961, nella Carta sociale europea riveduta del 3
maggio 1987 e nella convenzione europea relativa allo status di lavoratore migrante del 24 novembre 1977».
8 Ai
termini del successivo art. 4, n. 1, gli Stati membri autorizzano
l’ingresso ed il soggiorno, conformemente alla direttiva stessa, segnatamente,
dei figli minorenni, compresi i figli adottati, del soggiornante e del coniuge,
nonché di quelli del soggiornante o di quelli del
coniuge quando il genitore ne abbia l’affidamento e sia responsabile del loro
mantenimento. Ai sensi del penultimo comma del n. 1 del
medesimo art. 4, i figli minorenni di cui al detto articolo devono avere
un’età inferiore a quella in cui si diventa legalmente maggiorenni nello Stato
membro interessato e non devono essere coniugati. Il successivo ultimo
comma così recita:
«In deroga alla disposizione che precede, qualora un
minore abbia superato i dodici anni e giunga in uno Stato membro
indipendentemente dal resto della sua famiglia, quest’ultimo,
prima di autorizzarne l’ingresso ed il soggiorno ai sensi della presente
direttiva, può esaminare se siano soddisfatte le condizioni per la sua
integrazione richieste dalla sua legislazione in vigore al momento
dell’attuazione della presente direttiva».
9 L’art. 4,
n. 6, della direttiva medesima prevede quanto segue:
«In deroga alla disposizione precedente gli Stati
membri possono richiedere che le domande riguardanti il
ricongiungimento familiare di figli minori debbano essere presentate prima del
compimento del quindicesimo anno di età, secondo quanto previsto dalla loro
legislazione in vigore al momento dell’attuazione della presente direttiva. Ove
dette richieste vengano presentate oltre il
quindicesimo anno di età, gli Stati membri che decidono di applicare la
presente deroga autorizzano l’ingresso e il soggiorno di siffatti figli per
motivi diversi dal ricongiungimento familiare».
10 L’art. 5,
n. 5, della direttiva stessa impone agli Stati membri di tenere nella
dovuta considerazione, nell’esame della domanda, l’interesse superiore dei
minori.
11 Il
successivo art. 8 della direttiva così dispone:
«Gli Stati membri possono esigere che il
soggiornante, prima di farsi raggiungere dai suoi familiari, abbia soggiornato
legalmente nel loro territorio per un periodo non superiore a due anni.
In deroga alla disposizione che precede, qualora, in
materia di ricongiungimento familiare, la legislazione in vigore in uno Stato
membro al momento dell’adozione della presente direttiva tenga conto della sua
capacità di accoglienza, questo Stato membro può
prevedere un periodo di attesa non superiore a tre anni tra la presentazione
della domanda di ricongiungimento ed il rilascio del permesso di soggiorno ai
familiari».
12 L’art. 16
della direttiva medesima elenca talune circostanze in
presenza delle quali gli Stati membri possono respingere una domanda di
ingresso e di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare ovvero,
eventualmente, revocare il permesso di soggiorno di un familiare o negarne il
rinnovo.
13 Il
successivo art. 17 così recita:
«In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di
mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione
di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi
familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la
solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno
nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali
con il suo paese d’origine».
14 Ai
termini dell’art. 18 della direttiva, le decisioni di rigetto di domande di ricongiungimento familiare, di revoca o di mancato
rinnovo del permesso di soggiorno devono poter essere impugnate in sede
giurisdizionale secondo le modalità e le competenze fissate dagli Stati membri
interessati.
Sulla ricevibilità del
ricorso
Sull’eccezione relativa al
fatto che il ricorso non sarebbe diretto, in realtà, contro un atto delle
istituzioni
15 Le
disposizioni di cui viene chiesto l’annullamento
costituiscono deroghe agli obblighi imposti dalla direttiva agli Stati membri
che consentono a questi ultimi di applicare le proprie normative nazionali le
quali, ad avviso del Parlamento, non rispetterebbero i diritti fondamentali. A
parere dell’istituzione tuttavia, ammettendo l’applicabilità delle dette
normative nazionali, sarebbe la direttiva stessa a violare i diritti
fondamentali. Il Parlamento si richiama al riguardo alla
sentenza 6 novembre 2003, causa C‑101/01, Lindqvist
(Racc. pag. I‑12971, punto 84).
16 Il
Consiglio sottolinea, per contro, che la direttiva
lascia agli Stati membri ampio margine di manovra che consente loro di
mantenere in vigore o adottare disposizioni nazionali compatibili con il
rispetto dei diritti fondamentali. A parere del Consiglio, il Parlamento non
dimostrerebbe sotto quale profilo disposizioni eventualmente
contrarie ai diritti fondamentali, adottate ed applicate dagli Stati
membri, costituirebbero un atto delle istituzioni ai sensi dell’art. 46,
lett. d), UE, soggetto al sindacato della Corte per quanto attiene al
rispetto dei diritti fondamentali.
17 In
ogni caso, il Consiglio si chiede in qual modo
18
19
20 Il
Parlamento replica che un’interpretazione a priori della direttiva da parte
della Corte, come quella suggerita dalla Commissione, produrrebbe l’effetto di
istituire un rimedio preventivo che inciderebbe sulle competenze del
legislatore comunitario.
Giudizio della Corte
21 Come
rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 43-45 delle conclusioni,
occorre affrontare tale dibattito sotto il profilo della ricevibilità
del ricorso. Il Consiglio contesta, sostanzialmente, il fatto che il ricorso è
diretto contro un atto delle istituzioni, sostenendo che l’eventuale violazione
dei diritti fondamentali potrebbe risultare unicamente
dall’applicazione delle disposizioni nazionali mantenute in vigore o adottate
conformemente alla direttiva.
22 A
tal riguardo, il fatto che le disposizioni della direttiva impugnata
riconoscano agli Stati membri un certo margine di discrezionalità consentendo
loro di applicare, in talune circostanze, una normativa nazionale che deroghi
alle regole di principio imposte dalla direttiva non può produrre l’effetto di
sottrarre tali disposizioni al sindacato di legittimità della Corte previsto
dall’art. 230 CE.
23 Peraltro,
una disposizione di un atto comunitario potrebbe, di per sé, risultare
in contrasto con i diritti fondamentali qualora imponesse agli Stati membri o
autorizzasse espressamente o implicitamente i medesimi ad adottare o mantenere
in vigore leggi nazionali in contrasto con i detti diritti.
24 Da
tutti i suesposti elementi emerge che dev’essere
respinta l’eccezione di irricevibilità
relativa al fatto che il ricorso non sarebbe in realtà diretto contro un atto
delle istituzioni.
Sulla separabilità delle disposizioni di cui viene chiesto l’annullamento
25
26 Il
Parlamento contesta la tesi secondo cui l’art. 4, n. 1, ultimo comma,
della direttiva non costituirebbe un elemento separabile da quest’ultima
unicamente in base al rilievo che la sua redazione risulterebbe
da un compromesso politico che avrebbe consentito l’adozione della direttiva
stessa. Secondo la detta istituzione, occorre semplicemente accertare se sia giuridicamente possibile separare un elemento della
direttiva. L’annullamento delle disposizioni oggetto del ricorso, considerato
che esse costituiscono deroghe alle regole generali
sancite dalla direttiva, non metterebbe in discussione né l’economia né
l’effettività della direttiva stessa complessivamente intesa, di cui il
Parlamento riconosce l’importanza ai fini dell’attuazione del diritto al
ricongiungimento familiare.
Giudizio della Corte
27 Come
risulta da costante giurisprudenza, l’annullamento
parziale di un atto comunitario è possibile solo se gli elementi di cui è
chiesto l’annullamento siano separabili dal resto dell’atto medesimo (v.,
segnatamente, sentenze 10 dicembre 2002, causa C‑29/99,
Commissione/Consiglio, Racc. pag. I‑11221,
punti 45 e 46; 21 gennaio 2003, causa C‑378/00,
Commissione/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. I‑937,
punto 29; 30 settembre 2003, causa C‑239/01, Germania/Commissione, Racc. pag. I‑10333, punto 33; 24
maggio 2005, causa C‑244/03, Francia/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. I‑4021, punto 12, e 30
marzo 2006, causa C‑36/04, Spagna/Consiglio, Racc. pag. I‑2981,
punto 9).
28 Parimenti,
29 Nella
specie, la verifica della separabilità delle disposizioni di cui viene chiesto l’annullamento presuppone l’esame del merito
della controversia, vale a dire della portata di tali disposizioni, al fine di
poter valutare se il loro annullamento modificherebbe lo spirito e la sostanza
della direttiva.
Il ricorso
Sulle norme giuridiche con riguardo alle quali
può essere verificata la legittimità della direttiva
30 Il
Parlamento sostiene che le disposizioni impugnate non rispetterebbero i diritti
fondamentali, e in particolare il diritto alla vita familiare ed il diritto di
non discriminazione, quali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»),
e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri
dell’Unione europea, quali principi generali del diritto comunitario che
l’Unione è tenuta a rispettare in applicazione dell’art. 6, n. 2, UE,
al quale fa rinvio l’art. 46, lett. d), UE per quanto concerne
l’azione delle istituzioni.
31 Il
Parlamento invoca, in primo luogo, il diritto al rispetto della vita familiare,
sancito dall’art. 8 della CEDU, interpretato dalla Corte come comprensivo
parimenti del diritto al ricongiungimento familiare (sentenze Carpenter, citata supra, punto 42, e 23 settembre 2003, causa C‑109/01, Akrich, Racc. pag. I‑9607,
punto 59). Lo stesso principio è stato ripreso all’art. 7 della
Carta, con riguardo alla quale il Parlamento sottolinea
che, contenendo un elenco dei diritti fondamentali esistenti ancorché priva di
effetti giuridici vincolanti, essa costituisce tuttavia un indice utile ai fini
dell’interpretazione delle disposizioni della CEDU. Il Parlamento si richiama
inoltre all’art. 24 della Carta, relativo ai diritti dei minori, il cui n. 2
prevede che «in tutti gli atti relativi ai minori,
siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse
superiore del minore dev’essere considerato
preminente» ed il cui successivo n. 3, afferma che «il minore ha diritto
di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due
genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse».
32 Il
Parlamento invoca, in secondo luogo, il principio di non discriminazione
fondata sull’età delle persone di cui trattasi, contemplato dall’art. 14
della CEDU e sancito espressamente dall’art. 21, n. 1, della Carta.
33 Il
Parlamento si richiama parimenti a varie disposizioni di convenzioni
internazionali sottoscritte sotto l’egida delle Nazioni Unite: l’art. 24
del patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato il 19 dicembre
1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976, la convenzione sui diritti del fanciullo adottata il 20 novembre 1989 ed entrata in vigore
il 2 settembre 1990, la convenzione internazionale sulla protezione dei diritti
dei lavoratori migranti e dei membri della loro famiglia, adottata il 18
dicembre 1990 ed entrata in vigore il 1° luglio 2003, nonché la dichiarazione
dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959 [risoluzione 1386(XIV)]. Il
Parlamento rammenta, inoltre, la raccomandazione n. R (94) 14
del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, del 22
novembre 1994, riguardante le politiche familiari coerenti e integrate, nonché la raccomandazione n. R (99) 23 del
Comitato medesimo agli Stati membri, del 15 dicembre 1999, sul ricongiungimento
familiare per i rifugiati e le altre persone aventi necessità di protezione
internazionale. Il Parlamento si richiama, infine, a varie costituzioni degli
Stati membri dell’Unione europea.
34 Il
Consiglio rileva che
Giudizio della Corte
35 I
diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali
36 Peraltro,
ai termini dell’art. 6, n. 2, UE, «l’Unione rispetta i diritti
fondamentali quali sono garantiti dalla [CEDU] e quali risultano
dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi
generali del diritto comunitario».
37
38 Per
quanto attiene alla Carta, essa è stata proclamata solennemente dal Parlamento,
dal Consiglio e dalla Commissione a Nizza il 7 dicembre 2000. Se è pur vero che
39 Quanto
agli altri strumenti internazionali invocati dal Parlamento, con riserva per
Sull’art. 4, n. 1, ultimo comma,
della direttiva
40 Il
Parlamento sostiene che la motivazione dell’art. 4, n. 1, ultimo
comma, della direttiva, contenuta nel dodicesimo ‘considerando’ della medesima,
non è convincente e che il legislatore comunitario ha confuso le nozioni di
«criterio di integrazione» e di «obiettivo di
integrazione». Atteso che uno degli strumenti più importanti di un’integrazione
riuscita di un minore sarebbe costituito dal ricongiungimento con la sua
famiglia, sarebbe incongruo esigere un test di integrazione
prima che il minore, appartenente alla famiglia del soggiornante, si
ricongiunga con quest’ultimo. Ciò renderebbe il
ricongiungimento familiare irrealizzabile e costituirebbe la negazione di tale
diritto.
41 Il
Parlamento fa parimenti valere che, atteso che la nozione di integrazione
non è definita nella direttiva, gli Stati membri sono quindi autorizzati a
restringere sensibilmente il diritto al ricongiungimento familiare.
42 Tale
diritto sarebbe tutelato dall’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo, ed un criterio di integrazione
previsto da una normativa nazionale non sarebbe ricompreso
tra gli obiettivi legittimi che possono giustificare un’ingerenza come quelli
previsti dall’art. 8, n. 2, della CEDU, vale a dire la sicurezza
nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa
dell’ordine e la prevenzione dei reati, la tutela della salute o della morale,
e la tutela dei diritti e libertà altrui. In ogni caso, ogni
ingerenza dovrebbe essere giustificata e proporzionata. Orbene, l’art. 4,
n. 1, ultimo comma, della direttiva non esigerebbe alcuna ponderazione dei
rispettivi interessi in gioco.
43 La
direttiva sarebbe peraltro contraddittoria, in quanto non prevedrebbe alcuna
limitazione fondata sul criterio di integrazione con
riguardo al coniuge del soggiornante.
44 La
direttiva stabilirebbe inoltre una discriminazione fondata esclusivamente
sull’età del minore, che non sarebbe obiettivamente
giustificata e risulterebbe in contrasto con l’art. 14 de
45 Il
Parlamento sottolinea, infine, che la clausola di standstill è meno restrittiva delle clausole di standstill abituali, atteso che la legge nazionale deve
sussistere solamente alla data di attuazione della direttiva. Il margine
lasciato agli Stati membri si porrebbe in contrasto con l’obiettivo della
direttiva, che è quello di prevedere criteri comuni per l’esercizio del diritto
al ricongiungimento familiare.
46 Il
Consiglio, sostenuto dal governo tedesco e dalla Commissione, deduce che il
diritto al rispetto della vita familiare non equivale, di per sé, al diritto al
ricongiungimento familiare. Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, sarebbe sufficiente che la vita familiare sia possibile, ad
esempio, nello Stato di origine.
47 Il
Consiglio sottolinea parimenti che
48 La
scelta dell’età di 12 anni non sarebbe arbitraria, bensì sarebbe stata motivata
dal fatto che, prima di tale età, i minori si
troverebbero in una fase di sviluppo importante per le loro facoltà di
integrazione nella società, come espresso nel dodicesimo ‘considerando’ della
direttiva. Il Consiglio rileva a tal riguardo che
49 Sarebbe
giustificato applicare il criterio dell’integrazione ai minori di età superiore a 12 anni e non al coniuge del
soggiornante, in considerazione del fatto che, in linea generale, i minori
trascorrerebbero poi nello Stato membro ospitante un periodo più importante
della loro esistenza che non i genitori.
50 Il
Consiglio sottolinea che la direttiva non incide sul
risultato della ponderazione degli interessi individuali e collettivi
sussistenti nella specie e rammenta che gli artt. 17
e 5, n. 5, della direttiva medesima obbligano gli Stati membri a prendere
in considerazione gli interessi tutelati dalla CEDU e
51 L’istituzione
fa parimenti valere che la clausola di standstill, di
cui all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, non mette in
discussione la legittimità di tale disposizione. Il riferimento ivi contenuto
«al momento dell’attuazione» della direttiva costituirebbe una scelta
politicamente legittima del legislatore comunitario, motivata dal fatto che lo
Stato membro che intenda invocare tale deroga non abbia
terminato il processo legislativo di adozione della normativa nazionale
di cui trattasi. Sarebbe stato preferibile scegliere tale criterio, infine
accolto, piuttosto che attendere la conclusione del detto procedimento
legislativo prima di emanare la direttiva.
Giudizio della Corte
52 Si
deve rammentare, in limine, che il diritto al rispetto della vita familiare, ai
sensi dell’art. 8 della CEDU, fa parte dei diritti fondamentali che, secondo costante giurisprudenza della Corte, sono protetti
nell’ordinamento giuridico comunitario (citate sentenze Carpenter,
punto 41, e Akrich, punti 58 e 59). Tale
diritto alla convivenza con i familiari prossimi implica per gli Stati membri
obblighi che possono essere di carattere negativo, qualora uno di essi sia tenuto a non espellere un soggetto, ovvero di
carattere positivo, quando l’obbligo sia quello di consentire ad un soggetto di
fare ingresso e di risiedere sul proprio territorio.
53 In
tal senso, come affermato dalla Corte, ancorché
54 Peraltro,
come affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 21
dicembre 2001, Sen c. Paesi Bassi, paragrafo 31, «l’art. 8 [della
CEDU] può far sorgere obblighi positivi inerenti ad un
“rispetto” effettivo della vita familiare. I principi applicabili a tali
obblighi sono analoghi a quelli che disciplinano gli obblighi di carattere
negativo. In entrambi i casi, occorre tener conto del giusto equilibrio da
realizzare tra i concorrenti interessi dell’individuo e della società
complessivamente intesa; parimenti, nelle due ipotesi, lo Stato gode di un certo margine di discrezionalità (sentenza 19
febbraio 1996, Gül [c. Svizzera,
Recueil des arrêts et décisions,
1996-I], pag. 174, paragrafo 38, e 28 novembre 1996, Ahmut [c. Paesi Bassi, Recueil des arrêts et décisions,
1996-VI, pag. 2030], paragrafo 63)».
55 Al
paragrafo 36 della menzionata sentenza Sen c.
Paesi Bassi,
«a) La portata dell’obbligo per uno Stato di
consentire l’ingresso sul proprio territorio ai congiunti di persone immigrate
dipende dalla situazione degli interessati e dall’interesse generale.
b) Conformemente ad un consolidato principio di
diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto – senza pregiudizio degli
obblighi per essi derivanti dai Trattati – di
controllare l’ingresso di cittadini non nazionali sul loro territorio.
c) In materia di immigrazione,
l’art. 8 non può essere interpretato nel senso che esso implichi per uno
Stato membro l’obbligo generale di rispettare la scelta, da parte di coppie
coniugate, della loro comune residenza e di consentire il ricongiungimento
familiare sul proprio territorio».
56
57 La
convenzione relativa ai diritti del fanciullo
riconosce parimenti il principio del rispetto della vita familiare. Essa è
fondata sul riconoscimento, espresso nel suo sesto ‘considerando’, che il
minore deve poter crescere, ai fini di un armonioso sviluppo della propria
personalità, nell’ambiente familiare. L’art. 9, n. 1, della detta
convenzione prevede, in tal senso, che gli Stati contraenti provvedano
affinché il minore non venga separato dai genitori contro la loro volontà; da
tale obbligo discende, ai termini del successivo art. 10, n. 1, che
qualsiasi richiesta effettuata da un minore o dai genitori al fine di fare
ingresso in uno Stato contraente o di lasciare il medesimo ai fini del
ricongiungimento familiare dev’essere considerata
dagli Stati contraenti, in uno spirito positivo, con umanità e diligenza.
58 L’art. 7
della Carta riconosce parimenti il diritto al rispetto della vita privata o
familiare. Tale disposizione dev’essere
letta in correlazione con l’obbligo di prendere in considerazione il superiore
interesse del minore, sancito dall’art. 24, n. 2, della Carta
medesima, tenendo conto parimenti della necessità per il minore di intrattenere
regolarmente rapporti personali con i due genitori, necessità affermata dal
medesimo art. 24, n. 3.
59 Le
disposizioni richiamate sottolineano l’importanza, per
il minore, della vita familiare e raccomandano agli Stati di prendere in
considerazione l’interesse del medesimo, senza peraltro far sorgere a favore
dei familiari il diritto soggettivo ad essere ammessi nel territorio di uno
Stato; tali disposizioni non possono essere interpretate nel senso di privare
gli Stati di un certo potere discrezionale nell’esame delle domande di
ricongiungimento familiare.
60 Al di là di tali disposizioni, l’art. 4, n. 1,
della direttiva impone agli Stati membri obblighi positivi precisi, cui
corrispondono diritti soggettivi chiaramente definiti, imponendo loro, nelle
ipotesi contemplate dalla direttiva, di autorizzare il ricongiungimento familiare
di taluni congiunti del soggiornante senza potersi avvalere di discrezionalità
in proposito.
61 Per
quanto attiene all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, tale
disposizione produce l’effetto, in presenza di
circostanze tassativamente definite, vale a dire quando un minore di età
superiore ai 12 anni giunga indipendentemente dal resto della famiglia, di
mantenere parzialmente il margine di discrezionalità degli Stati membri
consentendo loro, prima di autorizzare l’ingresso ed il soggiorno del minore in
base alla direttiva, di esaminare se il minore stesso risponda ai criteri di
integrazione previsti dalla legge nazionale vigente alla data di attuazione
della direttiva stessa.
62 In
tal modo, l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non può
essere considerato in contrasto con il diritto al rispetto della vita
familiare. Infatti, nel contesto della direttiva, che
impone agli Stati membri obblighi positivi precisi, la detta disposizione
mantiene a favore degli Stati stessi un potere discrezionale limitato, non
diverso da quello riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella
propria giurisprudenza in materia di diritto al rispetto della vita familiare,
ponderando, in ogni singola fattispecie concreta, gli interessi in gioco.
63 Peraltro,
come sancito dall’art. 5, n. 5, della direttiva, nell’ambito di tale
ponderazione degli interessi gli Stati membri devono tenere nella dovuta
considerazione l’interesse superiore del figlio minore.
64 Occorre
inoltre tener conto dell’art. 17 della direttiva, che impone agli Stati
membri di prendere debitamente in considerazione la natura e la solidità dei
vincoli familiari della persona, la durata della residenza nello Stato membro
interessato nonché l’esistenza di legami familiari,
culturali o sociali con il rispettivo paese di origine. Come emerge
dal punto 56 della presente sentenza, tali criteri corrispondono a quelli
presi in considerazione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ambito
della verifica se uno Stato, che abbia respinto una domanda di ricongiungimento
familiare, abbia correttamente proceduto alla ponderazione degli interessi in
gioco.
65 Infine,
l’età di un minore ed il fatto che questi giunga
indipendentemente dalla propria famiglia costituiscono parimenti elementi presi
in considerazione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale
attribuisce rilevanza ai vincoli esistenti tra il minore ed i propri familiari
nel rispettivo paese di origine, ma parimenti ai vincoli esistenti con
l’ambiente culturale e linguistico di tale paese (v., segnatamente, citate
sentenze Ahmut c. Paesi Bassi,
paragrafo 69, e Gül c. Svizzera,
paragrafo 42).
66 Per
quanto attiene al criterio di integrazione, non
risulta che tale criterio sia di per sé contrario al diritto al rispetto della
vita familiare, sancito dall’art. 8 della CEDU. Come precedentemente
rammentato, tale diritto non deve essere interpretato nel senso che esso
implichi necessariamente l’obbligo, per un determinato Stato membro, di
consentire il ricongiungimento familiare sul proprio territorio, e
l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva si limita a mantenere
il potere discrezionale dello Stato membro, limitandolo all’esame di un
criterio definito dalla legge nazionale, potere che lo Stato medesimo dovrà
esercitare nel rispetto, segnatamente, dei principi sanciti agli artt. 5, n. 5, e 17 della direttiva. In ogni
caso, la necessità dell’integrazione può emergere da più legittimi scopi tra
quelli enunciati dall’art. 8, n. 2, della CEDU.
67 Contrariamente
a quanto sostenuto dal Parlamento, il legislatore comunitario non ha confuso il
criterio di integrazione di cui all’art. 4,
n. 1, ultimo comma, della direttiva e l’obiettivo di integrazione dei
minori, il quale, a parere del Parlamento, potrebbe risultare pregiudicato da
strumenti quali talune misure dirette a facilitare la loro integrazione
successivamente alla loro ammissione. Si tratta, infatti, di due elementi
differenti. Come emerge dal dodicesimo ‘considerando’
della direttiva, la possibilità di limitare il diritto al ricongiungimento
familiare per i minori di età superiore a 12 anni che non abbiano inizialmente
risieduto presso il soggiornante è volta a tener conto della capacità di
integrazione dei minori fin dalla più giovane età e garantisce che essi
acquisiscano l’educazione e le conoscenze linguistiche necessarie a scuola.
68 In
tal modo, il legislatore comunitario ha ritenuto che, al di
là dell’età di 12 anni, l’obiettivo dell’integrazione non possa essere
raggiunto in misura altrettanto agevole e, conseguentemente, ha previsto per lo
Stato membro interessato la facoltà di prendere in considerazione un livello
minimo di capacità di integrazione nell’ambito della decisione di autorizzare
l’ingresso e il soggiorno in base alla direttiva.
69 Il
criterio di integrazione di cui all’art. 4,
n. 1, ultimo comma, della direttiva può essere quindi preso in
considerazione nell’ambito dell’esame di una domanda di ricongiungimento
familiare e il legislatore comunitario non è caduto in contraddizione laddove
ha autorizzato gli Stati membri, nelle specifiche circostanze previste dalla
detta disposizione, ad esaminare le domande alla luce di tale criterio nel
contesto di una direttiva che, come emerge dal suo quarto ‘considerando’, si prefigge
l’obiettivo generale di facilitare l’integrazione dei cittadini di paesi terzi
negli Stati membri consentendo una vita di famiglia grazie al ricongiungimento
familiare.
70 L’assenza
di definizione della nozione di integrazione non può
essere interpretata quale autorizzazione conferita agli Stati membri di
avvalersi di tale nozione in modo contrario ai principi generali del diritto
comunitario, e più in particolare ai diritti fondamentali. Infatti, gli Stati
membri che intendono avvalersi della deroga non
possono utilizzare una nozione indeterminata di integrazione, bensì devono
applicare, nell’esame della specifica situazione di un minore di più di 12 anni
che giunga nel paese indipendentemente dal resto della propria famiglia, il
criterio di integrazione previsto dalla loro normativa vigente alla data di
attuazione della direttiva.
71 Conseguentemente,
l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non può essere
interpretato nel senso che gli Stati membri siano
autorizzati, esplicitamente o implicitamente, ad adottare disposizioni di
attuazione che risultino contrarie al diritto al rispetto della vita familiare.
72 Il
Parlamento non ha dimostrato sotto quale profilo la
clausola di standstill di cui all’art. 4,
n. 1, ultimo comma, della direttiva sarebbe in contrasto con una norma
superiore di diritto. Il legislatore comunitario, dal momento
che non ha pregiudicato il diritto al rispetto della vita familiare
laddove ha autorizzato gli Stati membri, in presenza di talune circostanze, a
tener conto del criterio di integrazione, legittimamente ha potuto fissare
limiti a tale autorizzazione. Poco importa, conseguentemente, che la normativa
nazionale che precisi il criterio di integrazione
applicabile abbia dovuto sussistere solamente alla data di attuazione della
direttiva e non alla data della sua entrata in vigore o della sua emanazione.
73 Non
risulta nemmeno che il legislatore comunitario non
abbia dedicato sufficiente attenzione agli interessi dei minori. Infatti, il
contenuto dell’art. 4, n. 1, della direttiva dimostra che l’interesse
superiore del minore ha costituito un criterio preminente nell’emanazione di
tale disposizione e non risulta nemmeno che l’ultimo
comma della medesima non ne tenga sufficientemente conto ovvero autorizzi gli
Stati membri che optino per l’applicazione di un criterio di integrazione a non
tenerne conto. Al contrario, come già rammentato supra
al punto 63 della presente sentenza, l’art. 5, n. 5, della
direttiva impone agli Stati membri di prendere debitamente in considerazione il
superiore interesse del figlio minore.
74 In
tale contesto, la scelta dell’età di 12 anni non
risulta essere un criterio in contrasto con il principio di non discriminazione
in base all’età, trattandosi di un criterio corrispondente ad una fase della
vita di un figlio minore in cui questi ha già trascorso un periodo
relativamente lungo della propria esistenza in un paese terzo senza i propri
familiari, ragion per cui un’integrazione in un nuovo ambiente può risultare
maggiormente fonte di difficoltà.
75 Parimenti,
il fatto di non assoggettare allo stesso trattamento il coniuge ed il figlio
minore di età superiore ai 12 anni non può essere
considerato quale discriminazione ingiustificata nei confronti del figlio
minore. Infatti, l’obiettivo stesso di un matrimonio è la costituzione di una
comunità di vita durevole tra i coniugi, laddove un figlio di
età superiore ai 12 anni non resterà necessariamente a lungo con i
propri genitori. Legittimamente, quindi, il legislatore comunitario ha potuto
tener conto di tale diversità di fattispecie, adottando una disciplina
differente senza cadere in contraddizione al riguardo.
76 Da
tutti i suesposti elementi emerge che l’art. 4, n. 1, ultimo comma,
della direttiva non può essere considerato in contrasto con il diritto
fondamentale al rispetto della vita familiare, con l’obbligo di prendere in
considerazione il superiore interesse del figlio minore ovvero con il principio
di non discriminazione in funzione dell’età, né in quanto tale, né nella parte
in cui autorizzerebbe espressamente o implicitamente gli Stati membri ad agire
in tal senso.
Sull’art. 4, n. 6, della direttiva
77 Per
motivi analoghi a quelli indicati nell’esame dell’art. 4, n. 1,
ultimo comma, della direttiva, il Parlamento sostiene che l’art. 4,
n. 6, della medesima – che consente agli Stati membri di disporre che le
domande di ricongiungimento familiare di figli minori vengano
presentate prima che questi raggiungano l’età di 15 anni – costituisce
parimenti una violazione del diritto al rispetto della vita familiare e del
divieto di discriminazione in funzione dell’età. Peraltro, gli Stati membri
resterebbero liberi di adottare nuove disposizioni derogatorie restrittive sino
alla data di attuazione della direttiva. Infine,
l’obbligo, per gli Stati membri che si avvalgano di
tale deroga, di esaminare le domande di ingresso e di soggiorno presentate da
figli minori di età superiore a 15 anni per «altri motivi» non definiti,
diversi dal ricongiungimento familiare, lascerebbe ampio margine al potere
discrezionale delle autorità nazionali e creerebbe una situazione di incertezza
del diritto.
78 Così
come per l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, il Parlamento
rileva che l’obiettivo dell’integrazione poteva essere realizzato con strumenti
meno radicali che non una discriminazione in funzione dell’età, non
giustificata oggettivamente e, conseguentemente, arbitraria.
79 Il
Consiglio sostiene che l’art. 4, n. 6, della direttiva è finalizzato
ad un’utilizzazione sul piano nazionale, compatibile
con i diritti fondamentali e, in particolare, proporzionata agli scopi
perseguiti. L’obiettivo sarebbe quello di incentivare
le famiglie emigrate a ricongiungersi nel paese ospitante con i loro figli
minori fin dalla loro più giovante età, al fine di facilitare la loro
integrazione. Si tratterebbe di un obiettivo legittimo, inserito nella politica
di immigrazione e ricompreso
nella sfera di applicazione dell’art. 8, n. 2, della CEDU.
80 L’ampia
formula «altri motivi» non dovrebbe essere censurata quale fonte di incertezza del diritto, in quanto essa sarebbe diretta a
favorire una decisione positiva nella maggior parte delle domande di cui
trattasi.
81 L’età
di 15 anni sarebbe stata prescelta al fine, da un lato, di ricomprendere
il maggior numero di casi, senza frapporre ostacoli, dall’altro, ad una scolarizzazione del minore nello Stato membro ospitante. Non
sussisterebbe quindi alcuna discriminazione arbitraria. Il Consiglio sostiene
che tale scelta ricade nella sua discrezionalità di legislatore.
82
83 Quanto
al limite di età fissato a 15 anni, si tratterebbe di
un limite non irragionevole che troverebbe la sua spiegazione nella connessione
esistente tra l’art. 4, n. 6, della direttiva e il periodo di attesa
di tre anni di cui all’art. 8 della direttiva medesima. Si tratterebbe,
infatti, di non rilasciare permessi di soggiorno a persone che, nel frattempo, abbiano raggiunto la maggiore età.
Giudizio della Corte
84 Si
deve rammentare che, nell’ambito del presente ricorso, il sindacato della Corte
verte sulla questione se la disposizione impugnata rispetti, di per sé, i
diritti fondamentali, e in particolare il diritto al
rispetto della vita familiare, l’obbligo di prendere in considerazione
l’interesse superiore dei minori ed il principio di non discriminazione in funzione
dell’età. Occorre, segnatamente, verificare se l’art. 4, n. 6, della
direttiva consenta espressamente o implicitamente agli Stati membri di
sottrarsi al rispetto di tali principi fondamentali consentendo loro, in deroga
alle altre disposizioni dell’art. 4 della direttiva, di stabilire un
requisito in funzione dell’età di un figlio minore per il quale venga fatta richiesta di ingresso e soggiorno sul territorio
nazionale nell’ambito di un ricongiungimento familiare.
85 Non
risulta che la disposizione impugnata violi il diritto
al rispetto della vita familiare sancito dall’art. 8 della CEDU come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’art. 4,
n. 6, della direttiva attribuisce, infatti, agli Stati membri la facoltà
di riservare l’applicazione dei requisiti del ricongiungimento familiare
previsti dalla direttiva alle domande proposte prima che i minori abbiano raggiunto l’età di 15 anni. Tale disposizione non
può essere tuttavia interpretata nel senso che essa vieterebbe agli Stati membri
di prendere in considerazione una domanda relativa ad un minore di età superiore a 15 anni ovvero che li autorizzerebbe a
non farlo.
86 A
tal riguardo, è irrilevante che l’ultimo periodo della disposizione impugnata
preveda che gli Stati membri che decidano di avvalersi della deroga autorizzino
l’ingresso e il soggiorno di minori per i quali venga
fatta richiesta successivamente al compimento dei 15 anni «per motivi diversi
dal ricongiungimento familiare». Il termine «ricongiungimento familiare» dev’essere, infatti, interpretato nel
contesto della direttiva nel senso di ricongiungimento familiare nelle
ipotesi in cui è imposto dalla direttiva medesima. Tale termine non può essere
interpretato nel senso che faccia divieto ad uno Stato
membro, che si avvalga della deroga, di consentire l’ingresso e il soggiorno ad
un minore al fine di consentirgli di ricongiungersi con i genitori.
87 L’art. 4,
n. 6, della direttiva dev’essere inoltre letto
alla luce dei principi enunciati dai successivi artt. 5,
n. 5, che impone agli Stati membri di prendere debitamente in
considerazione l’interesse superiore del minore, e 17, che impone loro di tener
conto di una serie di elementi tra cui figurano i
vincoli familiari della persona.
88 Ne
consegue che, se è pur vero che, per effetto dell’art. 4, n. 6, della
direttiva, uno Stato membro può legittimamente escludere che le domande
proposte per figli minori di età superiore a 15 anni
siano soggette ai requisiti generali dell’art. 4, n. 1, della
direttiva, lo Stato membro resta tuttavia tenuto ad esaminare la domanda
nell’interesse del minore e nell’ottica di favorire la vita familiare.
89 Per
il motivo esposto supra al punto 74, a fortiori, non risulta che la
scelta dell’età di 15 anni costituisca un criterio contrario al principio di
non discriminazione in funzione dell’età. Parimenti, per il motivo esposto supra al punto 72, non sembra che la clausola di standstill, ivi formulata, violi una qualsiasi norma
superiore di diritto.
90 Da
tutti i suesposti elementi emerge che l’art. 4, n. 6, della direttiva
non può essere considerato in contrasto con il diritto fondamentale al rispetto
della vita familiare, con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse
superiore del minore o con il principio di non discriminazione in funzione
dell’età, né di per sé, né laddove autorizzerebbe
espressamente o implicitamente gli Stati membri ad agire in tal senso.
Sull’art. 8 della direttiva
91 Il
Parlamento sottolinea l’importante limitazione del
diritto al ricongiungimento familiare derivante dai periodi di 2 e 3 anni
previsti dall’art. 8 della direttiva. Tale articolo, che non imporrebbe un
esame caso per caso delle domande, autorizzerebbe gli
Stati membri a mantenere misure sproporzionate rispetto all’equilibrio che
dovrebbe sussistere tra gli interessi in gioco.
92 Il
Parlamento sostiene, inoltre, che la deroga concessa dall’art. 8, secondo
comma, della direttiva rischia di dar luogo ad un trattamento differenziato in casi analoghi, a seconda che lo Stato
membro interessato disponga o meno di una normativa che prenda in
considerazione la propria capacità di accoglienza. Infine, un criterio fondato
sulla capacità di accoglienza dello Stato membro
sarebbe l’equivalente di un regime di quote, non compatibile con i requisiti
dettati dall’art. 8 della CEDU. La detta istituzione rileva, al riguardo,
che il sistema restrittivo delle quote annuali applicato dalla Repubblica
d’Austria sarebbe stato ritenuto incostituzionale dal Verfassungsgerichtshof (Corte costituzionale austriaca)
(sentenza 8 ottobre 2003, causa G 119,120/03-13).
93 Il
Consiglio sottolinea che l’art. 8 della direttiva
non impone, di per sé, periodi di attesa e che un periodo di attesa non
equivale al diniego di ricongiungimento familiare. La detta istituzione fa
peraltro valere che il periodo di attesa costituisce
un elemento classico della politica di immigrazione esistente nella maggior
parte degli Stati membri, senza che sia stato ritenuto illegittimo dalle
competenti giurisdizioni. Tale periodo di attesa
perseguirebbe uno scopo legittimo della politica di immigrazione, vale a dire
l’integrazione efficace dei familiari nella società ospitante, garantendo che
il ricongiungimento familiare abbia luogo solo dopo che il soggiornante si sia
creato nello Stato ospitante una base solida, sotto il profilo tanto economico
quanto familiare, per poter ivi installare una famiglia.
94 Il
Consiglio rileva che la differenza di trattamento fra gli Stati membri non è
che la conseguenza del processo di progressivo ravvicinamento delle
legislazioni e sottolinea che, al contrario di quanto
sostenuto dal Parlamento, l’art. 8 della direttiva opera un considerevole
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, tenuto conto del carattere
restrittivo della clausola di standstill ivi
contenuta.
95 Il
Consiglio contesta che il riferimento, di cui all’art. 8, secondo comma,
della direttiva, alla capacità di accoglienza di uno
Stato membro equivalga ad un regime di quote. Tale criterio servirebbe
unicamente a identificare gli Stati membri che possono prolungare il periodo di attesa a tre anni. Le considerazioni del Parlamento in ordine alle modalità di applicazione di tale disposizione
negli Stati membri sarebbero, inoltre, speculative.
96 Secondo
Giudizio della Corte
97 Al
pari delle altre disposizioni impugnate nell’ambito del presente ricorso,
l’art. 8 della direttiva autorizza gli Stati membri a
derogare alle regole del ricongiungimento familiare dettate dalla
direttiva stessa. Il primo comma del detto art. 8 autorizza gli Stati
membri ad esigere un soggiorno legale di due anni al massimo
prima che il soggiornante possa essere raggiunto dai suoi familiari. Il
secondo comma di tale articolo consente agli Stati membri la cui legislazione tenga conto della loro capacità di accoglienza di prevedere
un periodo di attesa non superiore a tre anni tra la presentazione della
domanda di ricongiungimento ed il rilascio del permesso di soggiorno ai
familiari.
98 Tale
disposizione non produce, quindi, l’effetto di impedire qualsiasi
ricongiungimento familiare, bensì mantiene a favore degli Stati membri un
margine di discrezionalità limitato, consentendo loro di assicurarsi che il
ricongiungimento familiare abbia luogo in condizioni
favorevoli, dopo un periodo di soggiorno sufficientemente lungo nello Stato
membro ospitante da parte del soggiornante perché si possa presumere un
insediamento stabile e un certo livello di integrazione. Pertanto,
il fatto che uno Stato membro prenda in considerazione tali elementi e la
facoltà di differire il ricongiungimento familiare di due anni o, secondo i
casi, di tre anni non si pongono in contrasto con il diritto al rispetto della
vita familiare sancito, in particolare, dall’art. 8 della CEDU come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
99 Si
deve ricordare che, come emerge dall’art. 17
della direttiva, la durata della residenza nello Stato membro costituisce solo
uno degli elementi che devono essere presi in considerazione dallo Stato
medesimo nell’ambito dell’esame di una domanda e che non si può imporre un
periodo di attesa senza tener conto, in casi specifici, del complesso degli
elementi pertinenti.
100 Le
stesse considerazioni valgono per il criterio della capacità di
accoglienza dello Stato membro, che può costituire uno degli elementi
presi in considerazione nell’ambito dell’esame di una domanda, ma che non può
essere interpretato nel senso che autorizzi un qualsivoglia sistema di quote
ovvero l’istituzione di un termine di attesa di tre anni imposto a prescindere
dalle particolari circostanze dei singoli specifici casi. Infatti, l’analisi
complessiva prevista dall’art. 17 della direttiva non consente di prendere
in considerazione unicamente tale elemento ed impone
di procedere ad un esame reale della capacità di accoglienza al momento della
domanda.
101 Nell’ambito
di tale analisi, gli Stati membri devono inoltre provvedere, come già
rammentato al punto 63 della presente sentenza, a prendere debitamente in
considerazione l’interesse superiore del minore.
102 La
coesistenza di situazioni differenti, a seconda che gli Stati membri scelgano di avvalersi o meno della possibilità di imporre un
periodo di attesa di due anni, ovvero di tre anni, nel caso in cui la loro
legislazione vigente alla data di adozione della direttiva tenga conto della
loro capacità di accoglienza, non costituisce altro che l’espressione della
difficoltà di procedere ad un ravvicinamento delle legislazioni in un settore
che, sino a quel momento, ricadeva unicamente nella competenza degli Stati
membri. Come riconosciuto dal Parlamento stesso, la direttiva, nel suo
complesso, è importante ai fini dell’attuazione armonizzata del diritto al
ricongiungimento familiare. Nella specie, non risulta
che il legislatore comunitario abbia oltrepassato i limiti imposti dai diritti
fondamentali laddove ha consentito agli Stati membri che disponessero o
intendessero adottare una normativa specifica di modulare taluni aspetti del
diritto al ricongiungimento.
103 Conseguentemente,
l’art. 8 della direttiva non può essere considerato in contrasto con il
diritto fondamentale al rispetto della vita familiare o con l’obbligo di
prendere in considerazione l’interesse superiore del minore, né di per sé, né
nella parte in cui autorizzerebbe espressamente o implicitamente gli Stati
membri ad agire in tal senso.
104 Infine,
si deve rilevare che, se è pur vero che la direttiva lascia agli Stati membri
un margine di discrezionalità, tale margine è
sufficientemente ampio per consentire loro di applicare le regole della
direttiva in senso conforme alle esigenze derivanti dalla tutela dei diritti
fondamentali (in tal senso, sentenza 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, Racc. pag. 2609,
punto 22).
105 Si
deve rammentare, a tal riguardo, che, come risulta da
costante giurisprudenza, le esigenze inerenti alla tutela dei principi generali
riconosciuti nell’ordinamento giuridico comunitario, fra i quali vanno
annoverati i diritti fondamentali, vincolano parimenti gli Stati membri quando
danno esecuzione alle discipline comunitarie, ed essi sono pertanto tenuti,
quanto più possibile, ad applicare tali discipline nel rispetto delle dette
esigenze. (v. sentenze 24 marzo 1994, causa C‑2/92,
Bostock, Racc. pag. I‑955,
punto 16; 18 maggio 2000, causa C‑107/97, Rombi e Arkopharma, Racc. pag. I‑3367,
punto 65; in tal senso sentenza ERT, citata supra,
punto 43).
106 L’attuazione
della direttiva è soggetta al sindacato dei giudici nazionali in quanto, come
previsto all’art. 18 della direttiva medesima, «gli Stati membri
assicurano che il soggiornante e/o i suoi familiari abbiano diritto a proporre
impugnativa in caso di rigetto della domanda di ricongiungimento familiare, di
mancato rinnovo o di ritiro del permesso di soggiorno o di adozione
di una misura di allontanamento». Ove essi incontrino difficoltà relative all’interpretazione o alla validità di tale
direttiva, spetterà ai giudici stessi sottoporre alla Corte una questione
pregiudiziale secondo le modalità enunciate agli artt. 68 CE
e 234 CE.
107 Per
quanto attiene agli Stati membri vincolati da tali strumenti, si deve peraltro
rammentare che la direttiva, come affermato all’art. 3, n. 4, della
medesima, non pregiudica le disposizioni più favorevoli contenute nella Carta
sociale europea del 18 ottobre 1961, nella Carta sociale europea riveduta del 3
maggio 1987 e nella Convenzione europea relativa allo status di lavoratore
migrante del 24 novembre 1977, nonché quelle contenute
negli accordi bilaterali e multilaterali stipulati tra
108 In
considerazione dell’infondatezza del ricorso, non occorre esaminare se le
disposizioni impugnate siano separabili dal resto
della direttiva.
109 Il
ricorso dev’essere conseguentemente respinto.
Sulle spese
110 Ai
sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente
è condannata alle spese, se ne è stata fatta domanda. Il Parlamento, essendo rimasto soccombente, dev’essere
pertanto condannato alle spese, come richiesto dal Consiglio. Ai sensi
del n. 4, primo comma, del medesimo articolo,
Per questi motivi,
1) Il
ricorso è respinto.
2) Il
Parlamento europeo è condannato alle spese.
3)
(Seguono le firme)