Corte di
Giustizia dell’Unione europea (Quarta Sezione)
7 novembre 2013, nelle cause riunite
da C‑199/12 a C‑201/12
«Direttiva 2004/83/CE – Norme minime sulle condizioni
per il riconoscimento dello status di rifugiato o di beneficiario della
protezione sussidiaria – Articolo 10, paragrafo 1, lettera d) – Appartenenza ad
un determinato gruppo sociale – Orientamento sessuale – Motivo della
persecuzione – Articolo 9, paragrafo 1 – Nozione di “atti di persecuzione” –
Timore fondato di essere perseguitato per il fatto di appartenere ad un
determinato gruppo sociale – Atti sufficientemente gravi da giustificare un
siffatto timore – Legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali –
Articolo 4 – Esame individuale dei fatti e delle circostanze»
Nelle cause riunite da C‑199/12 a C‑201/12,
aventi ad oggetto alcune domande di
pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, presentate dal Raad van State (Paesi Bassi), con
decisioni del 18 aprile 2012, pervenute in cancelleria il 27 aprile 2012, nei
procedimenti
Minister voor Immigratie
en Asiel
contro
X (C‑199/12),
Y (C‑200/12),
e
Z
contro
Minister voor Immigratie
en Asiel (C‑201/12),
con l’intervento di:
Hoog Commissariaat
van de Verenigde Naties voor de Vluchtelingen (da C‑199/12 a C‑201/12),
LA CORTE (Quarta Sezione),
composta da L. Bay Larsen
(relatore), presidente di Sezione, K. Lenaerts,
vicepresidente della Corte, facente funzione di giudice della Quarta Sezione,
M. Safjan, J. Malenovský e
A. Prechal, giudici,
avvocato generale: E. Sharpston
cancelliere: V. Tourrès,
amministratore
vista la fase scritta del procedimento e
in seguito all’udienza dell’11 aprile 2013,
considerate le osservazioni presentate:
– per X, da H. M. Pot
e C.S. Huijbers, advocaten;
– per
Y, da J. M. Walls, advocaat;
– per Z, da S. Sewnath
e P. Brochet, advocaten,
assistiti da K. Monaghan e J. Grierson,
barristers;
– per lo Hoog Commissariaat van de Verenigde Naties voor de Vluchtelingen, da P.
Moreau, in qualità di agente, assistita da M.‑E.
Demetriou, barrister;
– per il governo dei Paesi Bassi, da B. Koopman, C. S. Schillemans, C. Wissels e M. Noort, in qualità di
agenti;
– per il governo tedesco, da T. Henze, N. Graf Vitzthum e A. Wiedmann, in qualità di agenti;
– per il governo ellenico, da G. Papagianni e M. Michelogiannaki,
in qualità di agenti;
– per il governo francese, da G. de Bergues e S. Menez, in qualità di
agenti;
– per il governo del Regno Unito, da L.
Christie, in qualità di agente, assistito da S. Lee, barrister;
– per la Commissione europea, da M. Condou-Durande e R. Troosters, in
qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato
generale, presentate all’udienza dell’11 luglio 2013,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 Le domande di pronuncia pregiudiziale
vertono sull’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della
direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU L 304, pag.
12) (in prosieguo: la «direttiva»), in combinato disposto con l’articolo 9,
paragrafo 2, lettera c), della direttiva, nonché del suo articolo 10, paragrafo
1, lettera d).
2 Tali domande sono state presentate
nell’ambito delle controversie pendenti, da un lato, nelle cause C‑199/12 e C‑200/12, tra
il Minister voor Immigratie en Asiel (ministro per
l’Immigrazione e l’Asilo) (in prosieguo: il «Minister»),
e X e Y, cittadini rispettivamente della Sierra Leone e dell’Uganda, e,
dall’altro, nella causa C‑201/12, tra Z, cittadino del Senegal, e il Minister, in merito al rigetto, da parte di quest’ultimo,
delle domande di detti cittadini tese ad ottenere un permesso di soggiorno
temporaneo (asilo) nei Paesi Bassi.
Contesto normativo
Diritto internazionale
La Convenzione relativa allo status dei
rifugiati
3 La Convenzione relativa allo status
dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil
des traités des Nations Unies,
vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], è entrata in vigore il 22 aprile 1954. Essa
è stata completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso
a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in
prosieguo: la «convenzione di Ginevra»).
4 Ai sensi dell’articolo 1, sezione A,
paragrafo 2, primo comma, della convenzione di Ginevra, il termine «rifugiato»
è applicabile a chiunque «nel giustificato timore di essere perseguitato per la
sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un
determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello
Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole
domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e
trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non
può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».
La Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
5 L’articolo 8 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), intitolato «Diritto al
rispetto della vita privata e familiare», prevede quanto segue:
«1. Ogni persona ha diritto al rispetto
della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria
corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una
autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica,
è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere
economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla
protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle
libertà altrui».
6 L’articolo 14 della CEDU, intitolato
«Divieto di discriminazione», così dispone:
«Il godimento dei diritti e delle
libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza
nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il
colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere,
l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la
ricchezza, la nascita o ogni altra condizione».
7 L’articolo 15 della CEDU, intitolato
«Deroga in caso di stato d’urgenza», recita come segue:
«1. In caso di guerra o in caso di altro
pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente
può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente
Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a
condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi
derivanti dal diritto internazionale.
2. La disposizione precedente non
autorizza alcuna deroga all’articolo 2[, intitolato “Diritto alla vita”], salvo
il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3[,
intitolato “Proibizione della tortura”], 4 § 1[, intitolato “Proibizione della
schiavitù e del lavoro forzato”] e 7[, intitolato “Nulla poena
sine lege”].
(...)».
Diritto dell’Unione
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea
8 I diritti che non possono costituire
oggetto di deroga ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU sono
sanciti agli articoli 2, 4, 5, paragrafo 1, e 49, paragrafi 1 e 2, della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
La direttiva
9 Ai sensi del considerando 3 della
direttiva, la convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della
disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati.
10 Come emerge dal considerando 10 della
direttiva, letto alla luce dell’articolo 6, paragrafo 1, TUE, quest’ultima
rispetta i diritti, le libertà ed i principi enunciati nella Carta. Essa mira
in particolare ad assicurare, sulla base degli articoli 1 e 18 della Carta, il
pieno rispetto della dignità umana e il diritto di asilo dei richiedenti asilo.
11 I considerando 16 e 17 della
direttiva sono così formulati:
«(16) Dovrebbero essere stabilite norme
minime per la definizione ed il contenuto dello status di rifugiato, al fine di
orientare le competenti autorità nazionali degli Stati membri nell’applicazione
della convenzione di Ginevra.
(17) È necessario introdurre dei criteri
comuni per l’attribuzione ai richiedenti asilo, della qualifica di rifugiati ai
sensi dell’articolo 1 della convenzione di Ginevra».
12 Ai sensi del suo articolo 1, la
direttiva ha lo scopo di stabilire norme minime, da un lato, sull’attribuzione
ai cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di
protezione internazionale e, dall’altro, sul contenuto della protezione
riconosciuta.
13 Ai sensi dell’articolo 2, lettere c)
e k), della direttiva, ai fini della stessa, si intende per:
«c) “rifugiato”: cittadino di un paese
terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un
determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza
e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di
detto paese (…);
(...)
k) “paese di origine”: il paese o i
paesi di cui il richiedente è cittadino o, per un apolide, in cui aveva
precedentemente la dimora abituale».
14 L’articolo 4 della direttiva verte
sull’esame dei fatti e delle circostanze e, al suo paragrafo 3, dispone quanto
segue:
«L’esame della domanda di protezione
internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la
valutazione:
a) di tutti i fatti pertinenti che
riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in
merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del
paese d’origine e relative modalità di applicazione;
b) della dichiarazione e della
documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto
se ha già subito o rischia di subire persecuzioni (...);
c) della situazione individuale e delle
circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e
l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del
richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino
come persecuzione (...);
(...)».
15 A norma dell’articolo 4, paragrafo 4,
della direttiva, il fatto che un richiedente abbia già subito persecuzioni o
minacce dirette di siffatte persecuzioni costituisce un «serio indizio della
fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni» a meno che vi
siano buoni motivi per ritenere che tali persecuzioni non si ripeteranno.
16 L’articolo 9 della direttiva, ai suoi
paragrafi 1 e 2, definisce gli atti di persecuzione, disponendo quanto segue:
«1. Gli atti di persecuzione ai sensi
dell’articolo 1 [sezione] A della convenzione di Ginevra devono:
a) essere sufficientemente gravi, per
loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti
umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è
esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEDU]; oppure
b) costituire la somma di diverse
misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia
sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello
di cui alla lettera a).
2. Gli atti di persecuzione che
rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro,
assumere la forma di:
(...)
c) azioni giudiziarie o sanzioni penali
sproporzionate o discriminatorie;
(...)».
17 L’articolo 9, paragrafo 3, della
direttiva richiede che esista un collegamento tra i motivi di persecuzione di
cui all’articolo 10 della medesima e tali atti di persecuzione.
18 L’articolo 10 della direttiva,
intitolato «Motivi di persecuzione», così recita:
«1. Nel valutare i motivi di
persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi:
(...)
d) si considera che un gruppo
costituisce un particolare gruppo sociale in particolare quando:
– i membri di tale gruppo condividono
una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure
condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per
l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a
rinunciarvi, e
– tale gruppo possiede un’identità
distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla
società circostante.
In funzione delle circostanze nel paese
d’origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla
caratteristica comune dell’orientamento sessuale. L’interpretazione
dell’espressione “orientamento sessuale” non può includere atti penalmente
rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri. (...)
(...)».
19 Ai sensi dell’articolo 13 della
direttiva, lo Stato membro riconosce lo status di rifugiato al richiedente che
soddisfa, in particolare, i requisiti previsti dai suoi articoli 9 e 10.
Il diritto olandese
20 L’articolo 28, paragrafo 1, lettera
a), della legge del 2000 sugli stranieri (Vreemdelingenwet
2000, Stb. 2000, n. 495) autorizza il Minister ad accogliere, a respingere o a scartare senza
esaminarla la domanda di «permesso di soggiorno temporaneo».
21 Conformemente all’articolo 29,
paragrafo 1, lettera a), di tale legge del 2000, un permesso di soggiorno temporaneo,
come quello di cui al citato articolo 28, può essere concesso allo straniero
«che sia un rifugiato ai sensi della convenzione [di Ginevra]».
22 La circolare del 2000 sugli stranieri
(Vreemdelingencirculaire 2000), nella sua versione in
vigore alla data di deposito delle domande di cui trattasi, al suo punto
C2/2.10.2 dispone quanto segue:
«Allorché un richiedente asilo faccia
valere di aver avuto problemi a causa del suo orientamento sessuale, ciò, in
determinate circostanze, può giustificare la conclusione che l’interessato è un
rifugiato ai sensi della convenzione [di Ginevra]. (...)
Nel caso in cui una sanzione penale sia
irrogata in forza di una norma che riguarda soltanto gli omosessuali, si è in
presenza di un atto di persecuzione. Ciò avviene, ad esempio, allorché siano
perseguibili l’essere omosessuale o la manifestazione di sentimenti
specificamente omosessuali. Per consentire di concludere che l’interessato ha
la qualifica di rifugiato, è necessario che si tratti di una misura repressiva
di una certa gravità. Pertanto una mera sanzione pecuniaria sarà in genere
insufficiente per poter giustificare la qualifica di rifugiato.
Tuttavia, il semplice qualificare come
reato l’omosessualità o gli atti omosessuali in un paese non giustifica
senz’altro la conclusione che un omosessuale di tale paese sia un rifugiato. Il
richiedente asilo deve provare (se possibile sulla base di documenti) di avere
personalmente un fondato motivo di temere una persecuzione.
Non si può pretendere che le persone con
tendenze omosessuali nascondano il loro orientamento sessuale al rientro nel
loro paese d’origine
(...)».
Cause principali e questioni pregiudiziali
23 X, Y e Z, nati rispettivamente nel
1987, nel 1990 e nel 1982, hanno presentato domande di permesso di soggiorno
temporaneo (asilo) nei Paesi Bassi il 1° luglio 2009, il 27 aprile 2011 e il 25
luglio 2010.
24 A sostegno delle loro domande hanno
fatto valere che lo status di rifugiato dev’essere
loro riconosciuto per il fatto che essi hanno ragione di temere una
persecuzione nei loro rispettivi paesi d’origine a causa della propria
omosessualità.
25 Essi hanno, in particolare, affermato
di essere stati oggetto, sotto diversi profili, a causa del loro orientamento
sessuale, di reazioni violente da parte delle loro famiglie e dei loro
rispettivi ambienti sociali o di atti di repressione da parte delle autorità
dei loro rispettivi paesi d’origine.
26 Dalle decisioni di rinvio risulta
che, nei paesi d’origine di X, Y e Z, l’omosessualità è perseguita penalmente.
Così in Sierra Leone (causa C‑199/12), ai sensi dell’articolo 61 della legge del
1861 sui reati contro la persona (Offences against the Person Act 1861), gli atti omosessuali sono soggetti ad una pena
detentiva da un minimo di dieci anni all’ergastolo. In Uganda (causa C‑200/12), ai
sensi dell’articolo 145 del codice penale del 1950 (Penal
Code Act 1950), chi è giudicato colpevole di un reato
descritto come «conoscenza carnale contro le leggi di natura» è punito con una
pena detentiva che può arrivare all’ergastolo. In Senegal (causa C‑201/12), ai
sensi dell’articolo 319.3 del codice penale (Code pénal)
senegalese, una persona riconosciuta colpevole di atti omosessuali dev’essere condannata ad una pena detentiva da uno a cinque
anni e ad una sanzione pecuniaria compresa tra 100 000 franchi CFA (BCEAO)
(XOF) e 1 500 000 XOF (all’incirca tra EUR 150 e EUR 2 000).
27 Con decisioni del 18 marzo 2010, del
10 maggio 2011 e del 12 gennaio 2011, il Minister ha
rifiutato di concedere a X, Y e Z un permesso di soggiorno temporaneo (asilo).
28 Secondo il Minister,
sebbene l’orientamento sessuale dei suddetti richiedenti sia credibile, essi
non hanno provato in maniera sufficiente i fatti e le circostanze invocati e
non hanno quindi dimostrato la sussistenza, una volta fatto ritorno nei loro
rispettivi paesi d’origine, di un fondato timore di persecuzione a causa della
loro appartenenza ad un determinato gruppo sociale.
29 In seguito al rigetto delle loro
domande di permesso di soggiorno temporaneo (asilo), X e Z hanno proposto
ricorso dinanzi al Rechtbank ’s-Gravenhage.
Y ha presentato domanda di provvedimenti provvisori dinanzi al medesimo
giudice.
30 Con sentenze pronunciate il 23
novembre 2010 e il 9 giugno 2011, il Rechtbank ’s-Gravenhage ha accolto il ricorso di X e la domanda di Y.
Tale giudice ha considerato in particolare che, sebbene il Minister
avesse potuto ragionevolmente ritenere che i fatti esposti nelle domande di X e
di Y non fossero credibili, esso non aveva tuttavia sufficientemente motivato,
in ciascuna delle due cause, la questione se, con particolare riguardo al fatto
che nei paesi d’origine di cui trattasi gli atti omosessuali sono qualificati
come reato, il timore di persecuzione di X e di Y a causa della loro omosessualità
fosse fondato.
31 Con sentenza del 15 agosto 2011, il Rechtbank ’s-Gravenhage ha
respinto il ricorso proposto da Z. Esso ha considerato che non solo il Minister aveva potuto ragionevolmente ritenere che i fatti
esposti da Z non fossero credibili, ma anche che dalle informazioni e dai
documenti prodotti da Z non risultava che avesse luogo in generale in Senegal
una persecuzione delle persone omosessuali.
32 Il Minister
ha presentato appello dinanzi al Raad van State avverso le due sentenze che hanno annullato le
sue decisioni di respingere le domande presentate da X e Y.
33 Z ha presentato appello, dinanzi al
medesimo giudice, contro la sentenza che aveva respinto il suo ricorso avverso
la decisione del Minister recante rigetto della sua
domanda.
34 Il Raad van State ha precisato che, nei tre procedimenti
principali, non si contestano in appello né l’orientamento sessuale dei
richiedenti né il fatto che il Minister abbia potuto
ragionevolmente ritenere che i fatti esposti in tali domande di asilo non
fossero credibili.
35 Tale giudice ha peraltro precisato
che il Minister ha in particolare fatto valere che,
sebbene esso, conformemente alla politica di cui al punto C2/2.10.2 della
circolare del 2000 sugli stranieri, non esiga che i richiedenti tengano
nascosto il loro orientamento sessuale nei loro rispettivi paesi d’origine, ciò
non implica che essi debbano necessariamente essere liberi di esprimere
pubblicamente tale orientamento, come potrebbero fare nei Paesi Bassi.
36 Il Raad van State ha inoltre rilevato che le parti nel procedimento
principale non concordano sulla questione in che misura gli articoli 9 e 10
della direttiva tutelino il fatto di vivere pienamente un orientamento sessuale
come quello condiviso da X, Y e Z.
37 Alla luce di quanto sopra, il Raad van State ha deciso di
sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni
pregiudiziali, formulate in termini pressoché identici in ciascuno dei
procedimenti principali:
«1) Se gli stranieri di orientamento
omosessuale costituiscano un particolare gruppo sociale ai sensi dell’articolo
10, paragrafo 1, lettera d), della [direttiva].
2) In caso di risposta affermativa alla
prima questione, quali atti omosessuali rientrino nell’ambito di applicazione
della direttiva e, nel caso di persecuzione di siffatti atti e ove siano
soddisfatti gli ulteriori requisiti, se ciò possa determinare il riconoscimento
dello status di rifugiato. Questa domanda comprende le seguenti sottoquestioni:
a) Se si possa esigere da stranieri di
orientamento omosessuale che tengano segreta per tutti nel [rispettivo] paese
di origine la loro tendenza, al fine di evitare la persecuzione.
b) In caso di risposta negativa alla
questione che precede, se, ed eventualmente in che misura, si possa esigere
dagli stranieri di orientamento omosessuale che mantengano un atteggiamento
riservato riguardo a tale orientamento nel paese di origine al fine di evitare
la persecuzione. Se al riguardo ciò si possa esigere in maggior misura dagli
omosessuali che dagli eterosessuali.
c) Nell’ipotesi in cui, a questo
riguardo, si possa operare una distinzione tra forme di manifestazione che
riguardano il nucleo essenziale dell’orientamento e forme di manifestazione che
non lo riguardano, cosa si intenda per “nucleo essenziale” dell’orientamento
omosessuale e in che modo esso possa essere individuato.
3) Se il mero fatto di qualificare come
reati gli atti omosessuali e la comminatoria di una pena detentiva in relazione
ai medesimi, come stabilito [nell’Offences against the Person Act del 1861 della Sierra Leone (causa C‑199/12), nel
Penal Code Act del 1950
dell’Uganda (causa C‑200/12) e nel Code Pénal
del Senegal (causa C‑201/12)] costituiscano un atto di persecuzione ai
sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), in combinato disposto con
l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della direttiva. In caso negativo, in
che circostanze ciò si configuri».
38 Con ordinanza del presidente della
Corte del 19 giugno 2012, le cause da C‑199/12 a C‑201/12 sono state riunite ai fini delle fasi scritta
ed orale del procedimento, nonché della sentenza.
Sulle questioni pregiudiziali
Osservazioni
preliminari
39 Dai considerando 3, 16 e 17 della
direttiva risulta che la convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare
della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei
rifugiati e che le disposizioni della direttiva relative alle condizioni per il
riconoscimento dello status di rifugiato nonché al contenuto del medesimo status
sono state adottate al fine di aiutare le autorità competenti degli Stati
membri ad applicare detta convenzione basandosi su nozioni e criteri comuni
(sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z, C‑71/11 e C‑99/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto
47, nonché giurisprudenza ivi citata).
40 L’interpretazione delle disposizioni
della direttiva deve pertanto essere effettuata alla luce dell’impianto
sistematico e della finalità di quest’ultima, nel rispetto della convenzione di
Ginevra e degli altri trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1,
TFUE. Tale interpretazione deve pertanto essere effettuata, come emerge dal
considerando 10 della direttiva, nel rispetto dei diritti riconosciuti dalla
Carta (sentenza del 19 dicembre 2012, Abed El Karem El
Kott e a., C‑364/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto
43, nonché giurisprudenza ivi citata).
Sulla prima questione
41 Con la sua prima questione sollevata
in ciascuno dei procedimenti principali, il giudice del rinvio chiede
sostanzialmente se l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva
debba essere interpretato nel senso che sia possibile ritenere che, ai fini
della valutazione dei motivi di persecuzione invocati a sostegno di una domanda
volta ad ottenere lo status di rifugiato, le persone omosessuali costituiscano
un determinato gruppo sociale.
42 Al fine di rispondere a tale
questione va ricordato che, secondo il dettato dell’articolo 2, lettera c),
della direttiva, il rifugiato è, in particolare, un cittadino di un paese terzo
che si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza per il timore fondato di
essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione
politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale e non può o, a causa
di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese.
43 Il cittadino in questione deve
quindi, a causa delle circostanze esistenti nel suo paese d’origine e del
comportamento dei responsabili delle persecuzioni, trovarsi di fronte al
fondato timore di una persecuzione contro la sua persona per almeno uno dei
cinque motivi elencati nella direttiva e nella convenzione di Ginevra, tra i
quali si annovera l’«appartenenza ad un determinato gruppo sociale».
44 L’articolo 10, paragrafo 1, della
direttiva definisce ciò che costituisce un determinato gruppo sociale,
l’appartenenza al quale può dar luogo ad un fondato timore di persecuzione.
45 Ai sensi di tale definizione, un
gruppo è considerato un «determinato gruppo sociale» qualora siano soddisfatte,
in particolare, due condizioni cumulative. Da un lato, i membri del gruppo
devono condividere una caratteristica innata o una storia comune che non può
essere mutata oppure una caratteristica o una fede che è così fondamentale per
l’identità che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi.
Dall’altro, tale gruppo deve avere la propria identità, nel paese terzo di cui
trattasi, perché vi è percepito dalla società circostante come diverso.
46 Per quanto riguarda la prima di tali
condizioni, è pacifico che l’orientamento sessuale di una persona costituisce
una caratteristica così fondamentale per la sua identità che essa non dovrebbe
essere costretta a rinunciarvi. Tale interpretazione è confermata dall’articolo
10, paragrafo 1, lettera d), secondo comma, della direttiva, da cui risulta
che, in funzione delle circostanze esistenti nel paese d’origine, un
particolare gruppo sociale può essere un gruppo i cui membri hanno come
caratteristica comune un determinato orientamento sessuale.
47 La seconda condizione presuppone che,
nel paese d’origine interessato, il gruppo i cui membri condividono lo stesso
orientamento sessuale abbia la propria identità perché vi è percepito dalla
società circostante come diverso.
48 A tale riguardo si deve ammettere che
l’esistenza di una legislazione penale come quelle di cui trattasi in ciascuno
dei procedimenti principali, che riguarda in modo specifico le persone
omosessuali, consente di affermare che tali persone costituiscono un gruppo a
parte che è percepito dalla società circostante come diverso.
49 Occorre pertanto rispondere alla
prima questione sollevata in ciascuno dei procedimenti principali dichiarando
che l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva dev’essere
interpretato nel senso che l’esistenza di una legislazione penale come quelle
di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, che riguarda in modo
specifico le persone omosessuali, consente di affermare che tali persone devono
essere considerate costituire un determinato gruppo sociale.
Sulla terza questione
50 Con la sua terza questione sollevata
in ciascuno dei procedimenti principali, che occorre esaminare prima della
seconda questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo
9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, in combinato disposto con
l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della medesima, debba essere
interpretato nel senso che il mero fatto di qualificare come reato gli atti
omosessuali e la comminatoria di una pena detentiva in relazione ai medesimi
costituiscono un atto di persecuzione. In caso di risposta negativa, detto
giudice chiede in quali circostanze si configuri la qualificazione come atto di
persecuzione.
51 Per rispondere a tale questione
occorre ricordare che l’articolo 9 della direttiva definisce gli elementi che
consentono di qualificare taluni atti come atti di persecuzione ai sensi
dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra. A tale riguardo,
l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, richiamato dal giudice
del rinvio, precisa che gli atti pertinenti devono essere sufficientemente
gravi, per la loro natura o la loro reiterazione, da rappresentare una
violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti
assoluti per i quali, in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, non è
ammessa deroga.
52 Peraltro, l’articolo 9, paragrafo 1,
lettera b), della direttiva precisa che dev’essere
considerata una persecuzione anche la somma di diverse misure, comprese le
violazioni dei diritti umani, che sia sufficientemente grave da esercitare
sulla persona un effetto analogo a quello indicato all’articolo 9, paragrafo 1,
lettera a), della direttiva.
53 Da tali disposizioni risulta che,
affinché una violazione dei diritti fondamentali costituisca una persecuzione
ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra, essa deve
raggiungere un determinato livello di gravità. Non tutte le violazioni dei
diritti fondamentali di un richiedente asilo omosessuale raggiungeranno
pertanto necessariamente tale livello di gravità.
54 A tale riguardo si deve anzitutto
constatare che i diritti fondamentali specificamente legati all’orientamento
sessuale, di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, quali il
diritto al rispetto della vita privata e familiare, che è tutelato
dall’articolo 8 della CEDU, cui corrisponde l’articolo 7 della Carta, se del
caso in combinato disposto con l’articolo 14 della CEDU, cui s’ispira
l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, non figurano tra i diritti umani
fondamentali inderogabili.
55 Ciò considerato, la mera esistenza di
una legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali non può essere
ritenuta un atto che incide sul richiedente in maniera così rilevante da
raggiungere il livello di gravità necessario per ritenere che detta
qualificazione penale costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 9,
paragrafo 1, della direttiva.
56 La pena detentiva comminata da una
disposizione legislativa che, come quelle di cui ai procedimenti principali,
sanziona gli atti omosessuali può invece, di per sé, costituire un atto di
persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva, purché
essa trovi effettivamente applicazione nel paese d’origine che ha adottato una
simile legislazione.
57 Una pena siffatta viola infatti
l’articolo 8 della CEDU, cui corrisponde l’articolo 7 della Carta, e
costituisce una sanzione sproporzionata o discriminatoria ai sensi
dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della direttiva.
58 Alla luce di tali considerazioni,
qualora un richiedente asilo si avvalga, come avviene in ciascuno dei
procedimenti principali, dell’esistenza nel proprio paese d’origine di una
legislazione che qualifica come reato taluni atti omosessuali, spetta alle
autorità nazionali procedere, nell’ambito del loro esame dei fatti e delle
circostanze ai sensi dell’articolo 4 della direttiva, ad un esame di tutti i
fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine, comprese le disposizioni
legislative e regolamentari del paese d’origine e relative modalità di
applicazione, come previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, lettera a), della
direttiva.
59 Nell’ambito di tale esame spetta, in
particolare, a dette autorità determinare se, nel paese d’origine del
richiedente, la pena detentiva prevista da una siffatta legislazione trovi
applicazione nella prassi.
60 È sulla base di tali elementi che
spetta alle autorità nazionali decidere se si debba ritenere che effettivamente
il richiedente abbia ragione di temere, una volta rientrato nel proprio paese
d’origine, una persecuzione ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della
direttiva, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 3, della medesima.
61 Tenuto conto del complesso delle
suesposte considerazioni, occorre rispondere alla terza questione sollevata in
ciascuno dei procedimenti principali dichiarando che l’articolo 9, paragrafo 1,
della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera
c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso
che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non
costituisce, di per sé, un atto di persecuzione. Invece, una pena detentiva che
sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel
paese d’origine che ha adottato una siffatta legislazione dev’essere
considerata una sanzione sproporzionata o discriminatoria e costituisce
pertanto un atto di persecuzione.
Sulla seconda questione
Osservazioni preliminari
62 Con la sua seconda questione
sollevata in ciascuno dei procedimenti principali, il giudice del rinvio chiede
sostanzialmente se, nel caso in cui si debba ritenere che un richiedente
omosessuale appartenga ad un determinato gruppo sociale ai fini dell’articolo
10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, occorra operare una distinzione
tra gli atti omosessuali che rientrano nell’ambito di applicazione della
direttiva e quelli che non vi rientrano e non possono pertanto dar luogo al
riconoscimento dello status di rifugiato.
63 Per rispondere a tale questione, che
il giudice del rinvio ha suddiviso in diverse sottoquestioni, è necessario
osservare che essa riguarda una situazione in cui, come nel caso dei
procedimenti principali, il richiedente non ha dimostrato di avere già subito
una persecuzione o di essere già stato oggetto di minacce dirette di
persecuzione per il fatto di appartenere ad uno specifico gruppo sociale i cui
membri condividono lo stesso orientamento sessuale.
64 La mancanza di un siffatto serio
indizio della fondatezza del timore dei richiedenti ai sensi dell’articolo 4,
paragrafo 4, della direttiva spiega la necessità del giudice del rinvio di
sapere in che misura, qualora il richiedente non possa fondare il proprio
timore su una persecuzione già subita a causa della propria appartenenza al
suddetto gruppo, si possa esigere che egli, una volta rientrato nel proprio
paese d’origine, continui ad evitare il rischio di persecuzione nascondendo la
propria omosessualità o, quanto meno, dando prova di riservatezza
nell’esprimere il proprio orientamento sessuale.
Sulla seconda questione, lettere a) e b)
65 Con la sua seconda questione, lettere
a) e b), sollevata in ciascuno dei procedimenti principali, che occorre
esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se
l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, in combinato disposto
con l’articolo 2, lettera c), della medesima, debba essere interpretato nel
senso che non è ragionevole attendersi che, per evitare la persecuzione, un
richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine o
dia prova di riservatezza nell’esprimere tale orientamento sessuale. Tale
giudice chiede inoltre se, eventualmente, tale riservatezza debba essere
maggiore rispetto a quella di una persona di orientamento eterosessuale.
66 A tale riguardo occorre anzitutto
precisare che, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della
direttiva, non si può ritenere che l’orientamento sessuale includa atti
penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri.
67 Al di fuori di tali atti penalmente
rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri, nulla, nel tenore
letterale dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), indica che il legislatore
dell’Unione abbia inteso escludere dall’ambito di applicazione di tale
disposizione taluni altri tipi di atti o di espressioni legati all’orientamento
sessuale.
68 In tal senso, l’articolo 10,
paragrafo 1, lettera d), della direttiva non prevede limitazioni quanto
all’atteggiamento che i membri dello specifico gruppo sociale possono adottare
relativamente alla loro identità o ai comportamenti rientranti o meno nella
nozione di orientamento sessuale ai fini di tale disposizione.
69 Il mero fatto che dall’articolo 10,
paragrafo 1, lettera b), della direttiva risulti espressamente che il termine
«religione» include anche la partecipazione a riti di culto celebrati in
privato o in pubblico non consente di concludere che il termine «orientamento
sessuale», cui fa riferimento l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), di tale
direttiva, debba includere solo atti connessi alla sfera della vita privata
della persona interessata e non anche atti della sua vita pubblica.
70 A tale riguardo occorre constatare
che il fatto di esigere dai membri di un gruppo sociale che condividono lo
stesso orientamento sessuale che nascondano tale orientamento è contrario al
riconoscimento stesso di una caratteristica così fondamentale per l’identità
che gli interessati non dovrebbero essere costretti a rinunciarvi.
71 Non è pertanto lecito attendersi che,
per evitare la persecuzione, un richiedente asilo nasconda la propria
omosessualità nel suo paese d’origine.
72 Per quanto riguarda la riservatezza
di cui la persona dovrebbe dar prova, nel sistema istituito dalla direttiva,
quando le autorità competenti valutano se il timore del richiedente di essere
perseguitato sia fondato, esse cercano di appurare se le circostanze accertate
rappresentino o meno una minaccia tale da far fondatamente temere alla persona
interessata, alla luce della sua situazione individuale, di essere
effettivamente oggetto di atti di persecuzione (v., in tal senso, sentenza Y et Z, cit., punto 76).
73 Questa valutazione dell’entità del
rischio, che deve essere operata in tutti i casi con vigilanza e prudenza
(sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a., C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, Racc. pag. I‑1493, punto 90), è fondata unicamente sull’esame
concreto dei fatti e delle circostanze conformemente alle disposizioni
figuranti, segnatamente, all’articolo 4 della direttiva (sentenza Y e Z, cit.,
punto 77).
74 Da nessuna di tali norme risulta che,
nel valutare l’entità del rischio di subire effettivamente atti di persecuzione
in un determinato contesto, occorrerebbe prendere in considerazione la
possibilità che il richiedente avrebbe di evitare un rischio di persecuzione,
in particolare dando prova di riservatezza nell’esprimere un orientamento
sessuale che egli vive in quanto membro di uno specifico gruppo sociale (v.,
per analogia, sentenza Y e Z, cit., punto 78).
75 Ne consegue che all’interessato dovrà
essere riconosciuto lo status di rifugiato, conformemente all’articolo 13 della
direttiva, qualora sia accertato che, una volta fatto ritorno al proprio paese
d’origine, la sua omosessualità lo esporrà ad un concreto rischio di
persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva. A tale
riguardo, non si deve tener conto del fatto che egli potrebbe evitare il
rischio dando prova, nell’esprimere il proprio orientamento sessuale, di
maggiore riservatezza rispetto ad una persona eterosessuale.
76 Alla luce dei suesposti rilievi,
occorre rispondere alla seconda questione, lettere a) e b), sollevata in
ciascuno dei tre procedimenti principali, dichiarando che l’articolo 10,
paragrafo 1, lettera d), della direttiva, in combinato disposto con l’articolo
2, lettera c), della medesima, dev’essere
interpretato nel senso che solo gli atti omosessuali penalmente rilevanti ai
sensi del diritto interno degli Stati membri sono esclusi dal suo ambito di
applicazione. In sede di valutazione di una domanda diretta ad ottenere lo
status di rifugiato, le autorità competenti non possono ragionevolmente
attendersi che, per evitare il rischio di persecuzione, il richiedente asilo
nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine o dia prova di
riservatezza nell’esprimere il proprio orientamento sessuale.
Sulla
seconda questione, lettera c)
77 Tenuto conto della risposta fornita
alla seconda questione, lettere a) e b), non occorre risolvere la seconda
questione, lettera c).
78 Occorre tuttavia ricordare che, al
fine di determinare quali siano in concreto gli atti che possono essere
considerati una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della
direttiva, non è pertinente distinguere tra gli atti che potrebbero
pregiudicare un nucleo essenziale dell’espressione di un orientamento sessuale,
ammesso che sia possibile identificarne uno, e quelli che non riguarderebbero
tale asserito nucleo essenziale (v., per analogia, sentenza Y e Z, cit., punto
72).
Sulle spese
79 Nei confronti delle parti nel
procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato
dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese
sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono
dar luogo a rifusione.
Per questi motivi,
la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
1) L’articolo 10, paragrafo 1, lettera
d), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme
minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica
di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, dev’essere interpretato nel senso che l’esistenza di una
legislazione penale come quelle di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti
principali, che riguarda in modo specifico le persone omosessuali, consente di
affermare che tali persone devono essere considerate costituire un determinato
gruppo sociale.
2) L’articolo 9, paragrafo 1, della
direttiva 2004/83, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera
c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso
che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non
costituisce, di per sé, un atto di persecuzione. Invece, una pena detentiva che
sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel
paese d’origine che ha adottato una siffatta legislazione dev’essere
considerata una sanzione sproporzionata o discriminatoria e costituisce
pertanto un atto di persecuzione.
3) L’articolo 10, paragrafo 1, lettera
d), della direttiva 2004/83, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera
c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso
che solo gli atti omosessuali penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno
degli Stati membri sono esclusi dal suo ambito di applicazione. In sede di
valutazione di una domanda diretta ad ottenere lo status di rifugiato, le
autorità competenti non possono ragionevolmente attendersi che, per evitare il
rischio di persecuzione, il richiedente asilo nasconda la propria omosessualità
nel suo paese d’origine o dia prova di riservatezza nell’esprimere il proprio
orientamento sessuale.
Firme
*
Lingua processuale: il neerlandese.