SENTENZA N. 79
ANNO 2016
Commento alla decisione di
Gian Paolo Dolso
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), in relazione al successivo comma 6, promosso dal Tribunale ordinario di Catania, nel procedimento penale a carico di N.G. ed altri, con ordinanza del 1° dicembre 2014, iscritta al n. 42 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 marzo 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 1° dicembre 2014 il Tribunale ordinario di Catania, in composizione monocratica, ha sollevato – in riferimento all’art. 3 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), in relazione al successivo comma 6 della medesima disposizione.
Il rimettente è chiamato alla celebrazione di un giudizio per fatti asseritamente riconducibili al divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni nell’ambito di elezioni amministrative.
In particolare, è contestato a N.G., nella sua qualità di direttore generale di Azienda sanitaria, di essersi fatto promotore e organizzatore, in data 5 giugno 2008 – dunque nell’imminenza delle elezioni del Sindaco del Comune di Catania, del Presidente della Provincia e del Consiglio comunale, indette per i giorni 15 e 16 giugno 2008 – di due incontri nei locali del predetto plesso ospedaliero, finalizzati a consentire a tre candidati della medesima area politica di esporre ai partecipanti il proprio programma elettorale. N.G., nella veste di ufficiale rappresentante dell’ente, avrebbe messo a disposizione due sale e avrebbe poi convocato, in orario di lavoro, il personale dipendente della struttura sanitaria, affinché prendesse parte all’incontro. Ai tre candidati – N.F. (figlio di N.G.), S.R. e C.G. – è contestato il concorso nella condotta addebitata a N.G.
In relazione a tali fatti si procede nel giudizio a quo per il delitto di cui all’art. 29, commi 5 e 6, della legge n. 81 del 1993: il comma 6 vieta a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa; il comma 5 stabilisce che chi contravviene al divieto di cui al citato comma 6 è punito con la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni.
In punto di rilevanza, il rimettente afferma che i fatti per i quali si procede sono sussumibili, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, nella fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993, e che un accoglimento della questione prospettata determinerebbe l’assoluzione degli imputati per non essere più il fatto previsto dalla legge come reato.
Nel merito, il Tribunale ordinario di Catania rileva che l’art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993, nella parte in cui si applica alla fattispecie di cui al comma 6 della medesima disposizione, contrasterebbe con l’art. 3 Cost.
Ricorda il rimettente che disposizione analoga a quella censurata era contenuta nell’art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), il quale vietava a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per la durata della stessa, ad eccezione delle attività di comunicazione istituzionale indispensabili per l’efficace assolvimento delle funzioni proprie delle amministrazioni pubbliche. Tale divieto non era però assistito da sanzione penale. Osserva ancora il giudice a quo che la successiva legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), all’art. 13, ha abrogato l’art. 5 della legge n. 515 del 1993, introducendo una nuova disciplina all’art. 9 della stessa legge n. 28 del 2000. La disposizione da ultimo ricordata stabilisce, al comma 1, che, dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto, è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione, ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni. Secondo il rimettente, il citato art. 9, comma 1, benché imponga un divieto sovrapponibile a quello della disposizione censurata, rappresenterebbe un precetto sprovvisto di sanzione, in quanto il successivo art. 10, rubricato «Provvedimenti e sanzioni», non ne indicherebbe alcuna applicabile in caso di violazione delle disposizioni contenute nell’art. 9.
Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, il giudice a quo ritiene che la differenza di trattamento tra la condotta posta in essere durante le elezioni amministrative e la medesima condotta tenuta nell’imminenza delle elezioni politiche non trovi giustificazione, e si ponga perciò in contrasto con il principio di eguaglianza. A suo avviso, tale distinzione non potrebbe, infatti, plausibilmente trovare la sua ratio in un presunto diverso grado di offensività delle condotte, determinabile a seconda della dimensione dell’ambito territoriale in cui si svolge la competizione elettorale. Infatti, se il divieto contenuto nelle citate disposizioni è preordinato a evitare il rischio di attività propagandistiche ad opera di amministrazioni pubbliche dirette a sostenere liste o candidati, sarebbe evidente l’identica necessità di preservare l’imparzialità e la genuinità del confronto elettorale, con riferimento tanto alle elezioni politiche, quanto a quelle locali.
Secondo il rimettente, la rilevata differenziazione si contrapporrebbe «a quel trend di omogeneità» a cui sembra essersi ispirato, ormai da tempo, il legislatore nel disciplinare la materia della propaganda elettorale, e che è stato evidenziato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 287 del 2001. In tale decisione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993, nella parte in cui puniva un determinato fatto con la multa anziché con la sanzione amministrativa, la Corte costituzionale avrebbe osservato come tale materia sia caratterizzata «da una disciplina sostanzialmente applicabile a qualsiasi tipo di competizione elettorale, in base ad un criterio di omogeneità».
Secondo il Tribunale ordinario di Catania, la violazione del principio di eguaglianza deriverebbe «[t]anto più» dalla circostanza che la previsione di una sanzione penale, in caso di violazione del divieto di propaganda di cui all’art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993, costituirebbe «una singolare eccezione» a fronte della larga depenalizzazione operata nei confronti delle misure punitive ricollegate all’inosservanza di gran parte dei precetti in materia. A sostegno di tale assunto, il rimettente ricorda ancorala sentenza n. 287 del 2001, nonché la più risalente sentenza n. 52 del 1996, nella quale – dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 17, della legge n. 515 del 1993, nella parte in cui puniva penalmente il fatto previsto dall’art. 7 della legge 24 aprile 1975, n. 130 (Modifiche alla disciplina della propaganda elettorale ed alle norme per la presentazione delle candidature e delle liste dei candidati nonché dei contrassegni nelle elezioni politiche, regionali, provinciali e comunali) – la Corte costituzionale aveva sottolineato come, in un contesto di complessiva decriminalizzazione, era rimasta in vigore, «per una probabile dimenticanza del legislatore», la previsione della sanzione penale.
Per le ragioni ricordate, il Tribunale ordinario di Catania ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993, in relazione al successivo comma 6, per violazione dell’art. 3 Cost.
2.– È intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 21 aprile 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso nel senso della manifesta infondatezza della questione.
Premette l’Avvocatura generale che il divieto, per tutte le amministrazioni pubbliche, di svolgere attività di propaganda istituzionale è preordinato a garantire il principio di imparzialità dell’agire amministrativo sancito dall’art. 97 Cost., al fine di prevenire i rischi di interferenza e le distorsioni che la comunicazione degli enti pubblici potrebbe determinare rispetto ad una libera consultazione elettorale. In particolare, il divieto mirerebbe ad evitare che l’attività di comunicazione, realizzata dalle pubbliche amministrazioni durante il periodo elettorale, «possa sovrapporsi ed interagire con l’attività propagandistica svolta dalle liste e dai candidati, originando una forma parallela di campagna elettorale, sottratta a qualsiasi tipo di regolamentazione»; in secondo luogo, il divieto sarebbe diretto ad impedire il consolidarsi di un vantaggio elettorale a favore dei politici uscenti nei confronti degli sfidanti, date le innumerevoli facilitazioni, in termini di comunicazione e visibilità, di cui i primi dispongono in via esclusiva e gratuita.
Ciò premesso, la difesa statale osserva – muovendo da un presupposto interpretativo differente da quello del giudice rimettente – che il divieto di propaganda in capo alle pubbliche amministrazioni, stabilito dall’art. 9 della legge n. 28 del 2000 non è affatto privo di sanzione, in quanto il successivo art. 10 attribuisce all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il compito di perseguire le violazioni della legge n. 28 del 2000 e, dunque, anche quelle dell’art. 9.
La scelta di un differente trattamento sanzionatorio, a seconda che il divieto sia violato durante le elezioni amministrative a livello locale, ovvero durante le elezioni politiche (essendo prevista la sanzione penale nel primo caso, e invece sanzioni amministrative disposte dall’Autorità garante nel secondo), rientrerebbe nella discrezionalità legislativa, che può essere oggetto di censura solo ove manifestamente irragionevole (è citata l’ordinanza della Corte costituzionale n. 62 – recte: n. 262 – del 2005, oltre alle sentenze n. 394 del 2006, n. 144 del 2005, n. 364 del 2004, n. 287 del 2001 e n. 455 del 1998).
Nella fattispecie, la violazione del divieto di propaganda realizzata dagli enti pubblici nel contesto delle elezioni amministrative a livello locale sarebbe punita più severamente, in quanto il più ristretto ambito territoriale in cui si svolgono queste ultime determinerebbe un maggiore condizionamento delle consultazioni elettorali di cui si intende garantire, invece, un libero svolgimento, privo di interferenze. Anche il vantaggio elettorale, in termini di visibilità, che riceverebbe il politico uscente nei confronti degli altri candidati sarebbe sicuramente maggiore in tali contesti territoriali.
In conclusione, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la censura prospettata sia manifestamente infondata, in quanto l’esigenza di evitare che la comunicazione degli enti pubblici possa determinare interferenze e distorsioni rispetto ad una libera consultazione elettorale sarebbe maggiormente avvertita con riferimento alle consultazioni elettorali amministrative, le quali presentano una dimensione locale, rispetto alle altre consultazioni, che riguardano invece l’intero territorio nazionale o, comunque, regionale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Catania, in composizione monocratica, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale). Tale disposizione punisce con la sanzione della multa le pubbliche amministrazioni che, in violazione del divieto loro imposto dal successivo comma 6, svolgano attività di propaganda di qualsiasi genere, anche se inerente alla rispettiva attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale per le elezioni amministrative locali, e per tutta la durata della stessa.
Secondo il giudice rimettente, la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto, sanzionando penalmente le descritte condotte, poste in essere dalle pubbliche amministrazioni nell’imminenza delle elezioni amministrative a livello locale, determinerebbe un trattamento irragionevolmente difforme rispetto a condotte, asseritamente identiche, poste in essere dalle stesse amministrazioni in prossimità di elezioni regionali, politiche ed europee: queste ultime condotte, infatti, in virtù dell’art. 9 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), resterebbero esenti da qualunque sanzione.
2.– Un’identica questione era già stata sollevata dal medesimo giudice, nel medesimo grado di giudizio, ma era stata dichiarata manifestamente inammissibile da questa Corte, per oscurità del petitum e per difetto di motivazione sulla rilevanza (ordinanza n. 260 del 2011). Il giudice a quo ha ora integrato la precedente motivazione, descrivendo in modo esaustivo i fatti che hanno dato origine al procedimento penale e individuando con chiarezza la questione sollevata. In base alla costante giurisprudenza costituzionale, non vi sono pertanto ostacoli alla sua riproposizione (sentenze n. 38 del 2009, n. 287 del 2001 e n. 176 del 2000; ordinanza n. 369 del 2000).
3.– La disposizione censurata – art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993 – presidia con la sanzione penale della multa il precetto stabilito dal successivo comma 6, che vieta «a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa».
Il giudice rimettente ricorda che analoga disposizione era contenuta nell’art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), il quale vietava a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per la durata della stessa, ad eccezione delle attività di comunicazione istituzionale indispensabili per l’efficace assolvimento delle funzioni proprie delle amministrazioni pubbliche.
Tale divieto – rivolto, come risulta dall’art. 20 della legge n. 515 del 1993, alle condotte poste in essere in tutte le campagne elettorali, tranne in quelle amministrative in ambito locale (regolate, appunto, dalla disposizione censurata) – era assistito, sottolinea il giudice rimettente, da una sanzione di carattere amministrativo e non penale.
Il giudice a quo mette, inoltre, in evidenza che la successiva legge n. 28 del 2000, abrogando, con l’art. 13, l’appena ricordato art. 5 della legge n. 515 del 1993, avrebbe introdotto una disciplina asseritamente sovrapponibile a quest’ultima, e a quella contenuta nel vigente art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993.
L’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000, invero, prevede che «[d]alla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni».
Muovendo dal presupposto interpretativo secondo il quale il divieto appena menzionato non sarebbe assistito da alcuna sanzione, il giudice a quo ne trae il convincimento che due condotte identiche sarebbero, attualmente, l’una penalmente punita – con disposizione di carattere speciale e, perciò, applicabile alla fattispecie da cui origina la questione – e l’altra, invece, non sanzionata in alcun modo, con conseguente irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost.
Censura perciò l’art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993, in relazione al successivo comma 6, per violazione dell’art. 3 Cost., assumendo come tertium comparationis l’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000.
4.– La questione, così posta, non è fondata.
4.1.– Nell’ambito dell’ampia discrezionalità concessa al legislatore nell’individuazione delle condotte punibili e nella configurazione del relativo trattamento sanzionatorio, è ben vero che la costante giurisprudenza di questa Corte afferma che le scelte legislative sono sindacabili ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, «come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione» (ex multis, sentenze n. 68 del 2012, n. 161 del 2009 e n. 324 del 2008).
Diversamente da quanto accadeva nelle questioni decise da questa Corte con le sentenze n. 287 del 2001 e n. 52 del 1996, richiamate dal rimettente, le fattispecie poste a raffronto nel caso ora in esame non sono, tuttavia, omogenee e l’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000 non è, quindi, correttamente utilizzabile quale tertium comparationis a sostegno dell’asserita disparità di trattamento.
Tale ultima disposizione è inserita nel contesto di un’organica disciplina della comunicazione politica, dettata per i periodi di campagna elettorale relativi ad ogni tipo di consultazione ed elezione, e fa divieto alle amministrazioni pubbliche di «svolgere attività di comunicazione» durante tali periodi. Il riferimento alle “pubbliche amministrazioni” deve essere inteso come un rinvio agli enti e agli organi, non già ai singoli soggetti titolari di cariche pubbliche, anche se le condotte e i comportamenti vietati alle amministrazioni non possono che essere realizzati da questi ultimi. Ratio della disposizione è, infatti, evitare che le pubbliche amministrazioni forniscano, attraverso modalità comunicative e contenuti informativi non neutrali, «una rappresentazione suggestiva, a fini elettorali, dell’amministrazione e dei suoi organi titolari» (sentenza n. 502 del 2000). L’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000 non intende, perciò, impedire in assoluto le attività di comunicazione: le consente, purché siano effettuate in forma impersonale e risultino indispensabili per l’efficace assolvimento delle funzioni attribuite alle amministrazioni pubbliche, alla luce della necessaria informazione dei cittadini e degli obblighi di trasparenza gravanti sulle amministrazioni stesse. Il divieto contenuto nel citato art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000, in sostanza, mira ad evitare che la comunicazione istituzionale delle amministrazioni venga piegata ad obiettivi elettorali, promuovendo l’immagine dell’ente, dei suoi componenti o di determinati attori politici, in violazione degli obblighi di neutralità politica degli apparati amministrativi (art. 97 Cost.), della necessaria parità di condizione tra i candidati alle elezioni e della libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.).
Va, inoltre, sottolineato, diversamente da quanto asserisce il giudice a quo, che tale divieto non resta privo di sanzioni, poiché, nel sistema desumibile dalla legge n. 28 del 2000, la fattispecie di cui all’art. 9, comma 1, è soggetta al controllo e al potere sanzionatorio amministrativo dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in base all’art. 10, comma 8, della stessa legge n. 28 del 2000, come del resto risulta dall’attività in concreto svolta dall’Autorità garante.
La tipologia di sanzioni irrogabili dall’Autorità (che consistono nell’ordine di trasmettere o pubblicare messaggi recanti l’indicazione della violazione commessa, ovvero rettifiche della comunicazione effettuata) conferma, d’altra parte, che destinatarie del divieto sono direttamente le amministrazioni pubbliche e non personalmente i soggetti che ne esercitano le funzioni.
Non è un caso, inoltre, che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni verifichi il rispetto del divieto di cui all’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000 anche con riferimento a condotte poste in essere nell’imminenza di elezioni amministrative a livello locale, evidentemente sul presupposto che esso si riferisca a fattispecie distinguibili da quelle previste dall’art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993.
In definitiva, il divieto ora descritto è precipuamente indirizzato a regolare l’attività di comunicazione delle amministrazioni pubbliche, in stretta attinenza ai loro compiti istituzionali e allo scopo di evitare che tali compiti siano perseguiti con modalità comunicative non corrette.
La fattispecie contenuta nell’art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993, che contiene il divieto assistito dalla sanzione penale, è invece riferita alla propaganda «di qualsiasi genere», ancorché inerente all’attività istituzionale delle amministrazioni. Tale fattispecie riguarda condotte ulteriori e diverse rispetto a quelle poste in essere nello svolgimento delle funzioni istituzionali dell’amministrazione (in tal senso anche Consiglio di Stato, sezione quinta giurisdizionale, sentenza 23 marzo 2000, n. 1593), rivelando una formulazione più ampia rispetto a quella di cui all’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000.
Inoltre, il divieto dettato dalla norma sospettata di incostituzionalità, pur essendo testualmente rivolto anch’esso alle pubbliche amministrazioni, per il principio della personalità della responsabilità penale non può che indirizzarsi direttamente ai soggetti titolari di cariche pubbliche a livello locale. Tali soggetti infrangono il divieto se svolgono attività di propaganda, ancorché inerente all’attività istituzionale delle amministrazioni di cui fanno parte, utilizzandone mezzi, risorse, personale e strutture. Se candidati essi stessi, ferme restando le disposizioni in tema di ineleggibilità a livello locale, ben possono esercitare i relativi diritti costituzionalmente garantiti, e perciò svolgere anche attività di propaganda elettorale: ma, anche in tale ipotesi, il divieto in esame esige che ciò facciano al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali e, di nuovo, senza utilizzare mezzi, risorse, personale e strutture assegnati alle pubbliche amministrazioni di appartenenza.
L’art. 29, commi 5 e 6, della legge n. 81 del 1993 delinea perciò una fattispecie obiettivamente diversa da quella disciplinata all’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000. Ciò non impedisce di riscontrare che anch’essa presidia gli stessi principi costituzionali: giacché anche il titolare di cariche pubbliche, candidato o meno che sia, infrangendo il divieto, coinvolge l’ente nella competizione politico-elettorale, violandone il dovere di neutralità politica (art. 97 Cost.), provoca un’alterazione delle eguali opportunità dei candidati e influisce illecitamente sulla formazione del convincimento degli elettori (art. 48 Cost.).
Infine, a conferma ulteriore della non sovrapponibilità tra le due fattispecie messe a confronto dal giudice a quo, va notato che l’arco temporale di efficacia dei due divieti non necessariamente coincide, poiché, mentre l’art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993 circoscrive il divieto all’intervallo tra i trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e la conclusione di questa, l’art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000 lo fa decorrere dalla data di convocazione dei comizi elettorali, estendendolo fino alla chiusura delle operazioni di voto.
Alla luce della obbiettiva differenza tra le due fattispecie messe a raffronto, la questione non è quindi fondata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), in relazione al successivo comma 6, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2016.