SENTENZA N. 287
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 29, commi 3 e 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), promosso con ordinanza emessa il 18 agosto 1999 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bologna nel procedimento penale a carico di P. L., iscritta al n. 112 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2001.
Udito nella camera di consiglio del 20 giugno 2001 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti.
Ritenuto in fatto
1. — Il Giudice per le indagini preliminari (infra: g.i.p.) presso il Tribunale di Bologna ha sollevato, con ordinanza del 18 agosto 1999, pervenuta alla Corte il 29 gennaio 2001, questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, commi 3 e 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
2. — Il rimettente premette che nel giudizio a quo si procede nei confronti di un candidato alle elezioni comunali, imputato dei reati previsti dall’art. 9 della legge 4 aprile 1956, n. 212 (recte: illecito amministrativo) e dall’art. 29, commi 3 e 5, della legge n. 81 del 1993 e che per entrambe le norme egli ha già sollevato questione di legittimità costituzionale, dichiarata da questa Corte manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza (ordinanza n. 301 del 1998).
Il g.i.p. deduce che con lo stesso provvedimento con il quale propone la questione egli ha dichiarato "non luogo a procedere" in ordine alla contestazione riferita all’art. 9, della legge n. 212 del 1956, poichè l’illecito previsto da quest’ultima norma é stato depenalizzato. Egli ritiene, invece, di impugnare nuovamente l’art. 29, commi 3 e 5, della legge n. 81 del 1993, integrando la motivazione svolta nell’ordinanza con la quale, in precedenza, ha già censurato detta disposizione.
Il rimettente espone, quindi, che la norma impugnata punisce con la pena della multa da lire un milione a lire cinquanta milioni la diffusione di pubblicazioni di propaganda elettorale prive dell’indicazione del nome del committente responsabile e precisa che all’imputato, candidato alle elezioni amministrative comunali, é stato contestato di avere affisso manifesti pubblicizzanti la propria candidatura, privi di siffatta indicazione.
Secondo il g.i.p., una condotta analoga a quella in esame, tenuta in <<un contesto logicamente identico>>, ossia in occasione delle elezioni politiche, é punita meno gravemente, dato che per essa é prevista la sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni.
A suo avviso, la norma impugnata si porrebbe, quindi, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, sia perchè, in violazione del principio di eguaglianza, realizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra due situazioni omologhe, sia perchè tutti gli illeciti previsti dalla legge n. 212 del 1956 sarebbero stati depenalizzati, cosicchè sarebbe irragionevole che soltanto per la "ipotesi residuale" in esame permanga la previsione di una sanzione penale.
Considerato in diritto
1. ― La questione di legittimitΰ costituzionale sollevata con l'ordinanza indicata in epigrafe concerne l'art. 29, commi 3 e 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81, nella parte in cui stabilisce che, in occasione delle campagne elettorali per le elezioni amministrative, la mancata indicazione del nome del committente responsabile sulle pubblicazioni di propaganda elettorale specificate nel comma 3 é punita con la multa da un milione a cinquanta milioni di lire.
Secondo il giudice rimettente la norma impugnata violerebbe l'art. 3 della Costituzione, sia perchè realizzerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto all'identica condotta, punita con una sanzione amministrativa pecuniaria, tenuta in occasione delle campagne elettorali per le elezioni politiche, sia perchè tutti gli illeciti previsti in materia dalla legge 4 aprile 1956, n. 212 (Norme per la disciplina della propaganda elettorale) sono stati depenalizzati, cosicchè sarebbe irragionevole che soltanto per la "ipotesi residuale" in esame sia mantenuta la previsione di una sanzione penale.
2. ― Preliminarmente va dichiarata l'ammissibilitΰ della questione, già in precedenza ritenuta da questa Corte manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza (ordinanza n. 301 del 1998), in quanto il giudice a quo ha integrato la precedente motivazione (ex plurimis, sentenza n. 176 del 2000), specificando che i dubbi di costituzionalità prospettati si riferivano ad una vicenda verificatasi in occasione delle elezioni amministrative.
Ancora in via preliminare va precisato che la questione di legittimità si deve incentrare esclusivamente sul comma 5 dell'art. 29 della legge n. 81 del 1993, giacchè il rimettente, nonostante abbia espressamente indicato nell'ordinanza di rinvio i commi 3 e 5 del citato articolo, non svolge alcuna censura in ordine alla prima di queste due disposizioni, la quale stabilisce appunto l'obbligo di indicare il nome del committente responsabile sulle pubblicazioni di propaganda elettorale.
3. ― Nel merito la questione θ fondata nei termini di seguito indicati.
Va premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, pur rientrando nella "discrezionalità legislativa il potere di configurare le ipotesi criminose (...) e di depenalizzare fatti dianzi configurati come reato" (da ultimo, ordinanza n. 144 del 2001), tuttavia lo scrutinio di costituzionalità può investire il merito delle scelte del legislatore quando l'opzione legislativa contrasti con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell'arbitrarietà o della manifesta irragionevolezza (tra le più recenti: sentenze n. 531 e n. 508 del 2000).
Nel quadro di questi orientamenti giurisprudenziali occorre dunque accertare se la fattispecie oggetto della norma censurata sia omologa rispetto al tertium comparationis individuato dal rimettente con riferimento alla corrispondente condotta tenuta in occasione delle campagne elettorali per le elezioni politiche (artt. 3, comma 2, e 15, comma 2, della legge 10 dicembre 1993, n. 515, recante <<Disciplina delle campagne elettorali per l'elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica>>). In proposito va ricordato che l'art. 29, comma 3, della legge n. 81 del 1993 nel disciplinare la propaganda elettorale in occasione delle elezioni amministrative dispone espressamente, tra l'altro, che "tutte le pubblicazioni di propaganda elettorale a mezzo di scritti, stampa o fotostampa, radio, televisione, incisione magnetica ed ogni altro mezzo di divulgazione, debbono indicare il nome del committente responsabile". Analogamente l'art. 3, comma 2, della legge n. 515 del 1993 stabilisce, con formulazione lessicalmente identica, lo stesso obbligo per le campagne elettorali per le elezioni alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica.
A questa identità delle condotte oggetto delle due norme citate si contrappone invece un differente trattamento sanzionatorio, giacchè, in caso di inosservanza, l'art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993 prevede, quando si tratta di elezioni amministrative, "la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni", mentre l'art. 15, comma 2, della legge n. 515 del 1993 prevede, quando si tratta di elezioni politiche, "la sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni".
4. ― La prospettata diversitΰ della disciplina sanzionatoria in riferimento a condotte sostanzialmente identiche appare quindi priva di giustificazioni. Tanto più che la materia della propaganda elettorale, nella quale tradizionalmente vengono ricompresi gli illeciti in esame (sentenza n. 52 del 1996), é stata da tempo caratterizzata, a partire dalla legge n. 212 del 1956 per arrivare alla legge 22 febbraio 2000, n. 28, da una disciplina sostanzialmente applicabile a qualsiasi tipo di competizione elettorale, in base ad un criterio di omogeneità, non derogato dalle modificazioni introdotte dalla legge 24 aprile 1975, n. 130 (Modifiche alla disciplina della propaganda elettorale ed alle norme per la presentazione delle candidature e delle liste dei candidati nonchè dei contrassegni nelle elezioni politiche, regionali, provinciali e comunali).
In particolare va poi tenuto presente che la legge n. 515 del 1993, nel disciplinare le campagne elettorali per le elezioni politiche, da un lato ha operato -come ha anche rilevato questa Corte (sentenza n. 52 del 1996)- "un ampio intervento sul versante della decriminalizzazione" che ha riguardato "figure di reati in materia di propaganda elettorale" già previste dalla legge n. 212 del 1956. Dall'altro lato é specificamente intervenuta, con l'art. 15, comma 18, proprio sull'impugnato art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993, sostanzialmente modificando l'originaria pena della multa in sanzione pecuniaria amministrativa per le ipotesi di violazioni ivi previste, ad eccezione appunto di quella relativa all'obbligo di indicazione del committente responsabile sulle pubblicazioni di propaganda elettorale.
In via di principio, peraltro, l'introduzione, da parte della citata legge n. 81 riguardo alle campagne elettorali per le elezioni amministrative, della figura del committente responsabile avrebbe potuto anche corrispondere ad una ratio tale da rendere, di per sè, non arbitraria la singolarità della disciplina sanzionatoria irrogata appunto nel caso di violazione dell'obbligo stabilito dal comma 3 dell'art. 29. Ma essendo stati previsti, a distanza di pochi mesi, in riferimento alle campagne elettorali per le elezioni politiche, un'analoga figura ed un analogo obbligo, risulta ancor meno individuabile, nel quadro di una disciplina sostanzialmente unitaria della materia, una qualsiasi giustificazione della disparità di trattamento sanzionatorio, posta in essere dalla norma impugnata riguardo all'altra fattispecie omologa.
Si deve dunque ritenere che l'art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993 stabilisca, nella parte censurata, un trattamento sanzionatorio arbitrariamente più severo rispetto alla situazione invocata come tertium comparationis, tanto più irrazionale ed ingiustificato nel contesto delle modificazioni legislative sopra ricordate e nel quadro di depenalizzazione degli illeciti in materia di propaganda elettorale disposta per i vari tipi di competizione elettorale dalla citata legge n. 515 del 1993.
Si deve pertanto ripristinare l'eguaglianza violata, dichiarando illegittima, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, la norma censurata nella parte in cui dispone, per il caso di inosservanza dell'obbligo previsto dal comma 3, la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni, anzichè prevedere la sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, comma 5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale) nella parte in cui punisce il fatto previsto dal comma 3 con la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni, anzichè con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire un milione a lire cinquanta milioni.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2001.