ORDINANZA N. 66
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZAnei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), o nel testo risultante dalle modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), promossi dal Tribunale ordinario di Livorno con ordinanza del 3 novembre 2008, dal Tribunale ordinario di Agrigento con ordinanza dell’8 luglio 2008, dal Tribunale ordinario di Trieste con due ordinanze del 4 marzo 2009 e dal Tribunale ordinario di Agrigento con ordinanza del 19 maggio 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 80, 103, 133, 134 e 251 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12, 15, 19 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto che il Tribunale ordinario di Livorno, in composizione monocratica, con ordinanza del 3 novembre 2008 (r.o. n. 80 del 2009), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica);
che nel giudizio a quo si procede, nei confronti di un cittadino straniero, per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), contestato con l’aggravante dell’avere l’imputato commesso il fatto «trovandosi illegalmente sul territorio nazionale»;
che il rimettente, il quale pure ha promosso l’incidente di costituzionalità dopo l’approvazione della legge 24 luglio 2008, n. 125 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), censura la previsione aggravante nella versione introdotta con il provvedimento d’urgenza, e non in quella adottata in sede di conversione;
che la disposizione censurata, secondo il giudice a quo, si fonda su una presunzione – la maggior pericolosità implicata dalla situazione di «clandestinità» del reo – che non trova fondamento in tutti i casi cui si riferisce, dato che la norma comprende ogni situazione di presenza irregolare (ad esempio quella dello straniero munito di permesso di soggiorno scaduto), e dunque prescinde dall’effettiva «clandestinità» dell’interessato e dalla stessa illegalità delle circostanze culminate con il suo ingresso nel territorio nazionale;
che proprio la parificazione indiscriminata tra le situazioni descritte e quelle di pericolosità effettiva comporta, a parere del Tribunale, una violazione dell’art. 3 Cost.;
che la norma censurata, d’altra parte, non sarebbe assimilabile alle previsioni di cui ai numeri 9 e 11 dell’art. 61 cod. pen. (ove è sanzionato l’abuso della posizione di comando, di protezione o di rapporto fiduciario), né alle fattispecie fondate sulla condizione di latitanza e di recidiva del reo (ove l’aggravamento della pena riguarda soggetti dei quali è già stata accertata una responsabilità penale, o che sono stati raggiunti da un provvedimento giudiziale che ne presuppone la pericolosità);
che, infatti, un’analoga determinazione criminale non potrebbe essere attribuita a persone le quali si trovano, talvolta per il solo effetto di circostanze contingenti o di difficoltà burocratiche, a violare una prescrizione di carattere amministrativo;
che la norma censurata contrasterebbe, secondo il giudice a quo, anche con il principio di personalità della responsabilità penale, dato che connette un aumento di pena al «tipo d’autore», e non già alla pericolosità concretamente manifestata dal reo;
che il difetto di proporzione nel trattamento punitivo, d’altra parte, priverebbe la pena della sua funzione rieducativa, non potendo l’interessato percepirla come strumento per un suo reinserimento nel tessuto sociale, ma solo ed appunto come una punizione eccedente la sua responsabilità;
che infine, in punto di rilevanza, il rimettente osserva come l’astratta possibilità di neutralizzare gli effetti della circostanza attraverso il giudizio di comparazione regolato dall’art. 69 cod. pen. non valga a superare i denunciati profili di illegittimità, perché proprio la ricorrenza dell’aggravante impone il bilanciamento con eventuali attenuanti ed influisce, dunque, sul procedimento di computo della sanzione, indipendentemente dall’esito del procedimento stesso;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 7 aprile 2009, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza;
che la difesa erariale ricorda, in proposito, come la prima parte dell’art. 61 cod. pen. subordini l’applicazione delle aggravanti «comuni» alla condizione che non consistano di elementi già compresi nella figura del reato cui la circostanza, nel caso concreto, dovrebbe accedere;
che, nella specie, la contestazione dell’aggravante è stata operata con riguardo ad un delitto concernente proprio la violazione delle regole in materia di immigrazione, e dovrebbe quindi prodursi – al fine di evitare un bis in idem sostanziale nella determinazione del trattamento punitivo – un fenomeno di «assorbimento» (è richiamato l’art. 15 cod. pen.), con la necessaria esclusione dell’aggravante, e con la conseguente irrilevanza della questione sollevata;
che il Tribunale ordinario di Agrigento, in composizione monocratica, con ordinanza dell’8 luglio 2008 (r.o. n. 103 del 2009), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge n. 92 del 2008;
che il rimettente procede, con rito abbreviato, nei confronti di un cittadino non comunitario, imputato dei reati di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 cod. pen.), lesioni personali aggravate (artt. 582, 585, 61, n. 2, cod. pen.) e «indebito trattenimento» nel territorio dello Stato (art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998), con l’aggravante, per i primi due tra i delitti elencati, prevista dall’art. 61, numero 11-bis, cod. pen.;
che i fatti contestati, secondo il giudice a quo, sono stati posti in essere quando l’imputato si trovava nel territorio nazionale in condizione di soggiorno illegale, cosicché la previsione aggravante dovrebbe essere effettivamente applicata;
che detta previsione, tuttavia, contrasterebbe con il principio di necessaria offensività del fatto penalmente rilevante (principio desumibile dagli artt. 25 e 27 Cost.);
che la connotazione di offensività, riferita agli elementi accidentali del reato, deriverebbe da una relazione qualificata tra la fattispecie aggravante e la condotta illecita cui la stessa dovrebbe accedere, fondata sull’incremento del danno o del pericolo di lesione dell’interesse tutelato;
che la violazione delle regole sul soggiorno, al contrario, costituirebbe un mero antecedente cronologico del reato commesso dallo straniero, e non avrebbe con esso alcuna relazione, né sotto il profilo d’una eventuale affinità tra i beni pregiudicati dalle rispettive violazioni, né con riferimento ad un incremento di pericolosità riguardo al bene protetto dalla norma violata dopo l’illecito amministrativo;
che l’aggravamento della pena nei casi in esame – non essendo ammissibile una presunzione di pericolosità fondata sulla violazione delle norme amministrative in materia di soggiorno (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2007) – si connetterebbe ad una condizione personale del responsabile, e non al maggior disvalore del fatto, così evocando una dimensione tipica del diritto penale d’autore;
che la stessa mancanza di relazione tra fatto e previsione aggravante priverebbe di giustificazione, e renderebbe dunque illegittima anche in riferimento all’art. 3 Cost., ogni differenza del trattamento sanzionatorio per uno stesso reato, a seconda che sia commesso da uno straniero in condizione di soggiorno irregolare o da un cittadino, o ancora da uno straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato;
che la previsione censurata, secondo il giudice a quo, non è comparabile ad altre, che pure consistono in aggravanti «comuni» fondate su condotte antecedenti al reato;
che in particolare, per quanto attiene alla recidiva (art. 99 cod. pen.), il rimettente considera significativo, sebbene non dirimente, il fatto che venga valorizzata, tra i comportamenti antecedenti al reato, una condotta penalmente illecita, piuttosto che una mera violazione amministrativa;
che comunque – osserva il Tribunale – la condotta antecedente al nuovo reato assume rilievo, ai fini della recidiva, solo dopo essere stata previamente accertata (necessità che invece difetta per la violazione delle norme amministrative sul soggiorno degli stranieri), ed alla sola condizione – salvi i casi di cosiddetta applicazione obbligatoria – che il giudice la ritenga in concreto sintomatica di una maggior pericolosità o di una accentuata colpevolezza del reo;
che l’aggravante oggetto di censura, al contrario, dovrebbe essere applicata a prescindere da ogni valutazione circa la rilevanza concreta, in punto di pericolosità o colpevolezza, della pregressa violazione delle norme sul soggiorno degli stranieri;
che la fattispecie della latitanza (art. 61, numero 6, cod. pen.) presuppone una valutazione giudiziale, non presuntiva, in merito alla ricorrenza di gravi indizi della responsabilità per un precedente delitto ed alla concreta pericolosità dell’incolpato, mentre la previsione in esame si fonda sulla mera violazione di un precetto amministrativo, e non presuppone che detta violazione sia stata accertata e previamente contestata all’interessato;
che il rimettente sviluppa considerazioni analoghe ponendo in comparazione la norma oggetto di censura con l’art. 7 delle legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), posto che l’aggravante prevista in tale ultima norma si applica solo per determinate classi di reati, nei confronti di persone già assoggettate a misura di prevenzione, ed entro un certo termine dalla cessazione del relativo trattamento;
che la previsione censurata, in definitiva, collegherebbe una (maggior) sanzione ad un mero fatto di disobbedienza, oppure ad uno status privo di qualunque connessione con il fatto illecito, così violando i principi di offensività, di uguaglianza e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 5 maggio 2009, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata manifestamente inammissibile «e comunque infondata»;
che la denunciata inammissibilità si connetterebbe – secondo la difesa erariale – alla necessaria esclusione dell’aggravante censurata nel caso di reati concernenti il governo dell’immigrazione;
che la nuova previsione circostanziale, comunque, sarebbe parte di un più generale sistema di contrasto all’immigrazione clandestina e di repressione dei reati commessi da stranieri in posizione irregolare, adeguato alla «aumentata percezione sociale della pericolosità» del fenomeno, secondo scelte la cui pertinenza alla discrezionalità legislativa sarebbe già stata riconosciuta dalla Corte costituzionale (è citata la sentenza n. 236 del 2008);
che l’interesse al governo dei flussi migratori, d’altra parte, sarebbe oggetto di immediata rilevanza costituzionale, tale da legittimare un più severo trattamento di condotte che, pur presentando analogie di struttura con altre punite meno severamente, pregiudicano appunto l’interesse in questione (è citata, a tale proposito, la sentenza n. 261 del 2005);
che dovrebbe escludersi, a parere dell’Avvocatura generale, la pertinenza della norma censurata ad un mero status della persona, posto che l’aggravante, a norma dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., potrebbe essere applicata solo nei confronti dello straniero che commetta un reato nella consapevolezza di trovarsi in posizione di soggiorno irregolare;
che sussisterebbe, dunque, una sostanziale identità tra la previsione in esame e l’aggravante della latitanza, la quale del resto prescinderebbe dalla concreta pericolosità dell’interessato e da un legame con il reato commesso dal latitante, fondandosi piuttosto, come quella del soggiorno irregolare, su una condotta di «sottrazione al potere coercitivo dello Stato»;
che l’ordinamento del resto riconosce, in generale, le «circostanze inerenti alla persona del colpevole» (art. 70 cod. pen.), e valorizza, sul piano sanzionatorio, le condotte antecedenti al reato (art. 133 cod. pen.), di talché sarebbe arbitrario l’assunto, attribuito al rimettente, che la Costituzione vieti l’introduzione di circostanze non pertinenti alla dimensione obiettiva del fatto di reato;
che il Tribunale ordinario di Trieste in composizione monocratica, con ordinanza del 4 marzo 2009 (r.o. n. 133 del 2009), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 125 del 2008;
che nel giudizio a quo si procede, con rito ordinario, nei confronti di un cittadino straniero imputato del reato di tentato furto aggravato (artt. 56, 110, 624, 625, primo comma, n. 2, cod. pen.), per il quale risulta contestata l’ulteriore aggravante di cui all’art. 61, numero 11-bis, cod. pen.;
che il rimettente osserva, in punto di rilevanza, come l’imputato si trovasse effettivamente, al momento dei fatti, in condizione di soggiorno illegale nel territorio dello Stato, e come dunque sussistano i presupposti per l’applicazione della norma censurata, a nulla valendo l’astratta possibilità di neutralizzare l’effetto aggravante mediante il giudizio di comparazione con circostanze di segno opposto (poiché la ricorrenza della fattispecie varrebbe comunque a determinare un concorso tra circostanze eterogenee, ed a condizionarne l’esito);
che, secondo il Tribunale, la «qualità personale» del reo sulla quale è fondata la previsione aggravante non sarebbe in alcun modo collegata al fatto illecito ed alla sua gravità, anche considerando i profili soggettivi del reato;
che, infatti, la circostanza non potrebbe essere comparata ad altre fattispecie le quali, pur incentrate su una qualifica personale dell’agente, sanzionano l’abuso di un ruolo socialmente rilevante, che facilita la commissione del fatto ed esprime una concreta relazione tra la condizione del reo e la gravità dell’illecito (sono citate, a titolo di esempio, le ipotesi di cui ai numeri 9 ed 11 dell’art. 61 cod. pen.);
che la fattispecie censurata, ad avviso del giudice a quo, non potrebbe essere comparata neanche alla recidiva, che pure non risponde ad una logica di necessaria e concreta relazione con la tipologia del reato contestato, poiché detta circostanza si fonda sulla responsabilità per un precedente illecito penale e dunque può esprimere una pericolosità qualificata, da verificare per altro in ciascun caso concreto (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 192 del 2007);
che, invece, la fattispecie in esame – fondata sulla violazione di precetti amministrativi e dunque non ragionevolmente comparabile alla consumazione di un reato – dovrebbe essere applicata prescindendo da ogni correlazione tra lo status dell’agente e la condotta criminale che gli viene ascritta, e senza neppure che l’infrazione di carattere amministrativo sia stata accertata in modo definitivo, come invece è richiesto per la recidiva;
che l’assenza di un pregresso accertamento dell’illecito riduce, nella prospettazione del rimettente, il valore sintomatico della «resistenza» opposta dal reo ai precetti dell’ordinamento, di talché l’aggravante censurata non sarebbe assimilabile a quella cosiddetta della latitanza (art. 61, numero 6, e art. 576, primo comma, numero 3, cod. pen.) né alle fattispecie che presuppongono l’accertata pertinenza a pericolose organizzazioni criminali o l’intervenuta applicazione di misure di prevenzione (sono citati l’art. 576, primo comma, numero 4, l’art. 628, terzo comma, numero 3, l’art. 629, secondo comma, cod. pen., nonché l’art. 7 della legge n. 575 del 1965);
che il Tribunale prosegue osservando come alcune violazioni della disciplina concernente l’immigrazione siano penalmente sanzionate per se stesse (è citato l’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998), e come l’applicazione della norma censurata, in casi del genere, comporti una duplicazione irrazionale del trattamento punitivo, a titolo di sanzione per il reato specifico e di aggravamento della pena per l’ulteriore illecito commesso dallo straniero;
che in definitiva, a parere del rimettente, la fattispecie censurata entrerebbe a pieno titolo in quel quadro di «squilibri, sproporzioni e disarmonie» già posto in evidenza dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 22 del 2007, dando luogo ad un contrasto coi principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità, desumibili dall’art. 3 Cost.;
che la previsione del numero 11-bis dell’art. 61 cod. pen. contrasterebbe con il principio di ragionevolezza, secondo il giudice a quo, anche nella prospettiva dell’art. 13 Cost., ove il diritto inviolabile della persona alla propria libertà riguarda senza distinzione i cittadini e gli stranieri (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 62 del 1994);
che, in particolare, le privazioni della libertà personale potrebbero fondarsi solo su presunzioni di pericolosità ancorate ad elementi realmente sintomatici, e tale non sarebbe la condizione di soggiorno irregolare dello straniero, come la Corte costituzionale avrebbe già riconosciuto a proposito dell’espulsione quale misura di sicurezza (è richiamata la sentenza n. 58 del 1995);
che il rilievo della funzione di governo dei flussi migratori non giustifica, a parere del Tribunale, una compressione del bene concorrente della libertà personale, quando la stessa sia fondata su presunzioni arbitrarie, poiché la discrezionalità legislativa nella regolazione della materia trova un limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte operate (è citata, tra le altre, la sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 2008);
che la norma censurata, secondo il rimettente, contrasta anche con il principio di offensività, implicando un aumento di pena che prescinde dall’effettiva incidenza della condizione dello straniero sulla gravità del reato, ed esprime la logica del «diritto penale d’autore», rifiutata dal sistema costituzionale nella prospettiva combinata dell’offensività (art. 25, secondo comma, Cost.) e della pari dignità tra tutti gli uomini;
che il giudice a quo prospetta, infine, una violazione dell’art. 27 Cost., «sotto il profilo della personalità della responsabilità penale, del principio di proporzionalità della pena, del principio rieducativo della pena»;
che, per quanto attiene al primo comma dell’art. 27 Cost., la norma censurata non esprimerebbe un rimprovero connesso ad una qualificata attitudine delinquenziale, prescindendo dal «grado di partecipazione psichica» dell’interessato rispetto alla propria condizione di «illegalità» nel soggiorno, così da determinare una sproporzione della pena rispetto alle sue «personali» responsabilità;
che la violazione del principio di colpevolezza sarebbe confermata dall’omessa previsione della clausola concernente il «giustificato motivo», che invece può escludere la rilevanza penale di alcuni comportamenti contrari alle regole in materia di soggiorno ed espulsione;
che il difetto di proporzionalità della pena inflitta, almeno nel rapporto tra l’aumento dovuto all’applicazione della norma censurata e la sostanziale identità del fatto nei suoi profili offensivi, comporterebbe, a parere del rimettente, anche la violazione del terzo comma dell’art. 27 Cost., poiché la funzionalità rieducativa della sanzione è condizionata, appunto, dalla sua proporzionalità (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 103 del 1982 e n. 72 del 1980);
che il difetto di capacità rieducativa della pena sarebbe aggravato dalle discriminazioni che la norma censurata introduce (con violazione concomitante dell’art. 3 Cost.) tra gli stessi stranieri illegalmente presenti nel territorio nazionale, assimilando persone semplicemente prive del titolo di soggiorno a soggetti già colpiti da un provvedimento di espulsione e non ottemperanti all’ordine di lasciare il territorio dello Stato, e delineando un automatismo che la stessa Corte costituzionale avrebbe giudicato intollerabile trattando della recidiva (è richiamata ancora la sentenza n. 192 del 2007);
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 29 maggio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;
che la difesa erariale ricorda, in particolare, come la prima parte dell’art. 61 cod. pen. stabilisca che le aggravanti «comuni» si applicano solo quando i pertinenti elementi costitutivi non concorrano anche alla definizione del reato cui la circostanza dovrebbe accedere, e come dunque la fattispecie censurata non possa essere applicata a reati che già si fondino sulla violazione della normativa in materia di immigrazione;
che il Tribunale ordinario di Trieste in composizione monocratica, con ordinanza del 4 marzo 2009 (r.o. n. 134 del 2009), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 125 del 2008;
che il rimettente procede, con rito abbreviato, nei confronti di un cittadino straniero imputato dei reati di tentata rapina (artt. 56, 110, 628, secondo comma, cod. pen.) e di false dichiarazioni sulla propria identità (art. 496 cod. pen.), entrambi aggravati a norma dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen.;
che il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, come l’imputato si trovasse effettivamente, al momento dei fatti, in condizione di soggiorno illegale nel territorio dello Stato, e come dunque sussistano i presupposti per l’applicazione della norma censurata, a nulla valendo l’astratta possibilità di neutralizzare l’effetto aggravante mediante il giudizio di comparazione con circostanze di segno opposto (poiché la ricorrenza della fattispecie varrebbe comunque a determinare un concorso tra circostanze eterogenee, ed a condizionarne l’esito);
che il Tribunale, riguardo alla non manifesta infondatezza della questione sollevata, propone gli stessi argomenti già illustrati in un precedente provvedimento, sopra riassunti (r.o. n. 133 del 2009);
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 29 maggio 2009, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile;
che infatti detta questione sarebbe irrilevante nel giudizio a quo per le ragioni già illustrate con l’atto di intervento depositato riguardo ad altra ordinanza del medesimo rimettente (r.o. n. 133 del 2009);
che il Tribunale ordinario di Agrigento, in composizione monocratica, con ordinanza del 19 maggio 2009 (r.o. n. 251 del 2009), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, cod. pen., come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge n. 92 del 2008;
che il rimettente procede, con rito abbreviato, nei confronti di un cittadino non comunitario, imputato dei reati di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 cod. pen.) e lesioni personali aggravate (artt. 582, primo e secondo comma, e 61, n. 10, cod. pen.), con la contestazione, per entrambi, della circostanza di cui all’art. 61, numero 11-bis, cod. pen.;
che il giudice a quo, in punto di rilevanza, osserva come l’imputato si trovasse effettivamente, al momento dei fatti, in condizione di soggiorno illegale nel territorio nazionale;
che, riguardo alla non manifesta infondatezza della questione sollevata, il rimettente propone gli stessi argomenti già illustrati in un precedente provvedimento, sopra riassunti (r.o. n. 103 del 2009);
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 22 ottobre 2009, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata «inammissibile e non fondata»;
che la difesa erariale ricorda, in particolare, come la prima parte dell’art. 61 cod. pen. subordini l’applicazione delle aggravanti «comuni» alla condizione che i loro elementi costitutivi non concorrano alla definizione del reato, sicché la fattispecie oggetto di censura non sarebbe applicabile a reati concernenti l’ingresso o la permanenza dello straniero;
che dunque, sempre secondo l’Avvocatura generale, nel caso della contestazione di reati riguardanti l’immigrazione si determinerebbe un fenomeno di assorbimento dell’aggravante (è citato l’art. 15 cod. pen.), necessario per escludere un sostanziale bis in idem nella punizione del colpevole;
che la questione sollevata sarebbe mirata a sindacare il legittimo esercizio della discrezionalità legislativa, e d’altronde non potrebbe negarsi, nel merito, che la violazione delle norme sull’ingresso ed il soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale «costituisca univoco indice di maggior pericolosità sociale dell’individuo».
Considerato che i Tribunali ordinari di Livorno, Agrigento e Trieste – con le cinque ordinanze meglio sopra indicate – hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, nel testo introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), o nel testo risultante dalle modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125;
che parte dei rimettenti ravvisa una violazione del principio di uguaglianza, anzitutto, nel fatto che illeciti di natura identica siano puniti in misura differente a seconda che l’agente, al momento del reato, si trovasse o non regolarmente nel territorio dello Stato (r.o. n. 103, n. 133, n. 134 e n. 251 del 2009);
che tutti i giudici a quibus, sul presupposto che la previsione censurata si riferisce ad un comportamento antecedente al reato che non integra (necessariamente) un illecito penale, giudicano indebita l’analogia di trattamento istituita tra lo straniero in condizione di soggiorno irregolare ed il recidivo od il latitante;
che sarebbe ingiustificata, inoltre, la parificazione del trattamento riservato allo straniero a quello previsto per soggetti che abbiano abusato della propria funzione o qualità personale (art. 61, numeri 9 e 11, cod. pen.), o siano già stati individuati come persone pericolose mediante un provvedimento giudiziale (art. 61, numero 6, art. 576, primo comma, numeri 3 e 4, art. 628, terzo comma, numero 3, art. 629, secondo comma, cod. pen.; art. 7 della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro la mafia»);
che sarebbe affetta da intrinseca irragionevolezza una presunzione di maggior pericolosità collegata alla mera assenza di un titolo di legittimo soggiorno nel territorio dello Stato, senza alcuna distinzione tra le varie possibili infrazioni alla legge sull’immigrazione (r.o. n. 80, n. 133 e n. 134 del 2009);
che, inoltre, parte dei rimettenti considera violato l’art. 3 Cost. anche in ragione dell’intrinseca irragionevolezza di una presunzione di maggior pericolosità collegata alla mera mancanza di un titolo di legittimo soggiorno nel territorio dello Stato, senza alcuna necessaria correlazione tra la condizione del reo e la gravità del reato (r.o. n. 103 e n. 251 del 2009);
che il solo Tribunale di Trieste prospetta una violazione concorrente dell’art. 13 Cost., poiché il diritto alla libertà personale, inviolabile e come tale riferibile in pari misura al cittadino ed allo straniero, sarebbe sacrificato senza alcun ragionevole bilanciamento con la tutela di beni di analogo rango costituzionale;
che, secondo parte dei rimettenti, la disposizione censurata violerebbe anche gli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, Cost., per il difetto di pertinenza del maggior trattamento punitivo al fatto di reato, e per l’esclusiva inerenza della maggiorazione di pena ad uno status personale del reo, con elusione del principio di offensività e secondo la logica del «diritto penale d’autore» (r.o. n. 103, n. 133, n. 134 e n. 251 del 2009);
che la previsione aggravante, secondo i Tribunali di Livorno e Agrigento, si porrebbe in conflitto con l’art. 27, primo comma, Cost., per la rottura del rapporto di proporzionalità tra la pena ed il grado della responsabilità personalmente riferibile al reo, e per il trasferimento della logica punitiva dalla colpevolezza al tipo d’autore;
che tutti i rimettenti, infine, ritengono la previsione censurata incompatibile col precetto fissato nel terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto l’eccedenza della sanzione rispetto al fatto escluderebbe la finalizzazione rieducativa della pena (r.o. n. 103, n. 133, n. 134 e n. 251 del 2009), anche per la percezione del condannato in merito ad una sproporzione per eccesso tra la sua colpa e la conseguente punizione (r.o. n. 80 del 2009);
che, data la comunanza del relativo oggetto, i giudizi possono essere riuniti al fine di una trattazione unitaria delle questioni;
che la questione sollevata dal Tribunale di Livorno deve ritenersi manifestamente inammissibile, per l’assoluta carenza di motivazione in ordine ad una condizione essenziale di rilevanza della questione medesima;
che l’ordinanza di rimessione non illustra, infatti, la ragione per la quale una circostanza aggravante fondata sulla «illegalità» del soggiorno dovrebbe applicarsi anche per reati che consistono, come quello contestato nel giudizio principale, proprio in violazioni della disciplina della immigrazione, posto che, secondo quanto stabilito nella prima parte dell’art. 61 cod. pen., le circostanze comuni aggravano il reato solo «quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali» (ordinanza n. 277 del 2009);
che vanno disattese, invece, le eccezioni di inammissibilità che l’Avvocatura generale dello Stato, fondandosi sul medesimo argomento, ha prospettato riguardo alle questioni sollevate dai Tribunali di Agrigento e Trieste, posto che l’aggravante non è stata contestata, nei giudizi a quibus, per reati concernenti la disciplina dell’immigrazione;
che piuttosto, in riferimento alle questioni citate da ultimo, gli atti devono essere restituiti ai rimettenti perché possano procedere ad una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni medesime;
che deve rilevarsi, a tale proposito, come siano intervenute, in epoca successiva alle ordinanze di rimessione, modifiche normative tali da incidere, in via diretta o mediata, sulla disciplina introdotta dalla disposizione censurata;
che una delle questioni, in particolare, è stata sollevata prima che la norma censurata fosse modificata dalla legge di conversione del decreto-legge che l’ha introdotta (legge n. 125 del 2008), così che attualmente aggrava il reato «l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale» (r.o. n. 103 del 2009);
che in epoca successiva a tutte le ordinanze di rimessione – con l’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – è stato previsto che «la disposizione di cui all’art. 61, numero 11-bis), del codice penale si intende riferita ai cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea e agli apolidi»;
che inoltre – in un quadro segnato da molteplici disposizioni concernenti la disciplina, penale ed extrapenale, del fenomeno dell’immigrazione – il legislatore ha introdotto nell’ordinamento la nuova fattispecie criminosa di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» (art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», introdotto dall’art. 1, comma 16, della citata legge n. 94 del 2009);
che la nuova disposizione incriminatrice sanziona, con la pena dell’ammenda, lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni contenute nello stesso d.lgs. n. 286 del 1998 o nell’art. 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68 (Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio);
che la normativa sopravvenuta attiene ad un profilo centrale dei percorsi argomentativi seguiti dai giudici a quibus nel motivare la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, posto che le condotte riconducibili alla previsione censurata costituiscono ormai l’oggetto di un’autonoma incriminazione, e non la mera espressione di un illecito amministrativo;
che – come questa Corte ha già stabilito in casi analoghi a quelli che costituiscono l’oggetto del presente giudizio (ordinanza n. 277 del 2009) – spetta ai rimettenti la valutazione del rilievo che possono assumere le descritte variazioni del quadro normativo di riferimento, sia in relazione alla disciplina codicistica della successione nel tempo di leggi penali, sia, e comunque, in rapporto al mutato equilibrio tra i fattori che questa Corte è chiamata a prendere in considerazione ai fini della propria decisione;
che, in particolare, è compito dei rimettenti, nel valutare la legittimità della previsione quale circostanza aggravante comune di ogni pregressa violazione delle norme in materia di immigrazione, procedere ad una nuova ponderazione del ruolo che, in tale prospettiva, deve assegnarsi al carattere amministrativo, o penalmente illecito, della violazione medesima.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALEriuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 61, numero 11-bis, del codice penale, come introdotto dall’art. 1, lettera f), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), sollevate, con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Livorno, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
ordina la restituzione degli atti ai Tribunali ordinari di Agrigento e Trieste.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 febbraio 2010.