Sentenza n. 129 del 2006

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SENTENZA N. 129

ANNO 2006

 

Commento alla decisione di

 

Alessandro Venturi

Standard qualitativi e strumenti compensativi nella recente legge lombarda sul governo del territorio: incostituzionalità per "incompatibilità" comunitaria?

 

 (per gentile concessione del Forum di Quaderni Costituzionali)

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale             MARINI                                            Presidente

- Franco               BILE                                                   Giudice

- Giovanni Maria   FLICK                                                    

- Francesco          AMIRANTE                                            

- Ugo                   DE SIERVO                                            

- Romano             VACCARELLA                                       

- Paolo                 MADDALENA                                        

- Alfio                  FINOCCHIARO                                      

- Alfonso              QUARANTA                                           

- Franco               GALLO                                                   

- Gaetano             SILVESTRI                                             

- Sabino               CASSESE                                               

- Maria Rita          SAULLE                                                 

- Giuseppe            TESAURO                                              

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 12 e 13, in combinato disposto con l’art. 11, comma 3; dell’art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e dell’art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all’art. 55, comma 1, lettera b), e all’art. 57, comma 1, lettere a) e b); dell’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, e dell’art. 33 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 16 maggio 2005, depositato in cancelleria il successivo 24 maggio 2005 ed iscritto al n. 62 del registro ricorsi 2005.

         Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia nonché gli atti di intervento di TIM ITALIA S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V.;

         udito nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2006 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

         uditi l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Andrea Manzi e Nicolò Zanon per la Regione Lombardia.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 16 maggio 2005 e depositato il 24 maggio 2005, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 9, commi 12 e 13, e dell’art. 11, comma 3; dell’art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e dell’art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all’art. 55, comma 1, lettera b), e all’art. 57, comma 1, lettere a) e b); dell’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, e dell’art. 33 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 11 del 16 marzo 2005, in riferimento all’art. 117, primo e terzo comma, della Costituzione.

L’Avvocatura dello Stato, preliminarmente, precisa che la presentazione del ricorso è stata decisa dal Consiglio dei ministri nella riunione del 13 maggio 2005 e che «si depositeranno» estratto del verbale e relazione del Ministro proponente. L’estratto e la relazione risultano però depositati contestualmente al ricorso.

Il ricorrente passa poi ad inquadrare l’oggetto della legge impugnata nella materia «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. ed inizia l’esame delle singole norme poste ad oggetto del ricorso.

1.1. – In primo luogo, è censurato il combinato disposto dell’art. 9, commi 12 e 13, e dell’art. 11, comma 3. Il comma 12 dell’art. 9 prevede la possibilità da parte del proprietario di un’area sottoposta a vincoli espropriativi di realizzare direttamente attrezzature e servizi indicati dal «piano dei servizi», per la cui attuazione è preordinato il vincolo di espropriazione. Il successivo comma 13 stabilisce che «non configurano vincolo espropriativo e non sono soggette a decadenza le previsioni del piano dei servizi che demandino al proprietario dell’area la diretta realizzazione di attrezzature e servizi, ovvero ne contemplino la facoltà in alternativa all’intervento della pubblica amministrazione». Infine, l’art. 11, al comma 3, dopo aver stabilito che «alle aree destinate alla realizzazione di interventi di interesse pubblico o generale, non disciplinate da piani e da atti di programmazione, possono essere attribuiti, a compensazione della loro cessione gratuita al Comune, aree in permuta o diritti edificatori trasferibili su aree edificabili previste dagli atti di PGT anche non soggette a piano attuativo», prevede che, in alternativa a tale attribuzione di diritti edificatori, «sulla base delle indicazioni del piano dei servizi il proprietario può realizzare direttamente gli interventi di interesse pubblico o generale, mediante accreditamento o stipulazione di convenzione con il Comune per la gestione del servizio».

L’Avvocatura dello Stato ritiene che le norme sopra indicate, qualora l’entità dei lavori da realizzare superi la soglia stabilita dalla normativa comunitaria, si pongano in contrasto con quest’ultima e con la normativa statale che disciplina le modalità di affidamento degli appalti pubblici di lavori e servizi. In particolare, sarebbero violati i principi generali del Trattato sull’Unione europea in materia di tutela della concorrenza e, nell’ambito specifico degli appalti, le direttive del Consiglio delle Comunità europee 92/50 del 18 giugno 1992 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi), 93/36 del 14 giugno 1993 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture), 93/37 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori), 93/38 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni), e le relative norme statali di attuazione, che prevedono il ricorso a procedure di aggiudicazione ad evidenza pubblica per la realizzazione degli interventi in questione. In proposito viene specificamente richiamato l’art. 19, comma 01, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), secondo cui i lavori pubblici possono essere realizzati esclusivamente mediante contratto di appalto o di concessione; quest’ultimo contratto, come ricorda il ricorrente, negli anni è stato equiparato dalla normativa comunitaria agli appalti pubblici, quanto alla procedura di scelta del contraente, proprio per evitare che diventasse uno strumento per eludere la disciplina comunitaria in materia.

Nel ricorso governativo si osserva che lo «scambio» ipotizzato nelle norme impugnate, tra il proprietario dell’area, che realizza direttamente i servizi previsti nel piano, e l’ente pubblico, che li acquista, «riguarda comunque valori e diritti di stretta pertinenza pubblica, in relazione ai quali il soggetto privato acquista connotazioni tipiche di "organismo di diritto pubblico”, tali da non poter ragionevolmente sottrarsi all’onere di realizzare tali interventi (finanziati, come detto, in tutto o in parte con risorse e diritti di appartenenza pubblica) attraverso procedure di evidenza pubblica che assicurino il miglior uso delle risorse collettive». Si ricorda, al riguardo, la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. VI, del 12 luglio 2001, in causa C-399/98, secondo cui, qualora il titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione realizzi direttamente le opere di urbanizzazione, a scomputo totale o parziale dei contributi dovuti per il rilascio della concessione, si è in presenza in ogni caso di un appalto di lavori secondo la normativa comunitaria, con il conseguente ricorso alle procedure di evidenza pubblica allorché il valore dell’opera eguagli o superi la soglia comunitaria. Questa conclusione sarebbe confermata dall’art. 2, comma 5, della legge n. 109 del 1994, il quale dispone che, per le singole opere d’importo superiore alla soglia comunitaria, i soggetti privati sono tenuti ad affidare le stesse nel rispetto delle procedure di gara previste dalla direttiva 93/37/CEE.

1.2. – Sono oggetto di censura, inoltre, l’art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e l’art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all’art. 55, comma 1, lettera b), e all’art. 57, comma 1, lettere a) e b), della impugnata legge della Regione Lombardia.

La prima delle norme citate prevede che il piano territoriale regionale definisca gli indirizzi generali per il riassetto del territorio ai fini della prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici, secondo quanto disposto dall’articolo 55, comma 1, lettera b). Quest’ultima norma, a sua volta, assegna alla competenza della Giunta regionale la definizione degli «indirizzi per il riassetto del territorio, anche in raccordo con i contenuti dei piani di bacino, ai fini della prevenzione dei rischi geologici ed idrogeologici e della loro mitigazione», nonché delle «direttive per la prevenzione del rischio sismico e l’individuazione delle zone sismiche, ivi compresi la formazione e l’aggiornamento degli elenchi delle zone medesime».

L’art. 57 stabilisce che, nel piano di governo del territorio, il «documento di piano» contenga la definizione dell’assetto geologico, idrogeologico e sismico comunale sulla base dei criteri ed indirizzi emanati dalla Giunta regionale e che il piano delle regole dia attuazione ai criteri e agli indirizzi in parola.

A parere del ricorrente le norme suddette si porrebbero in contrasto con l’art. 107 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) e con l’art. 5 del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343 (Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture preposte alle attività di protezione civile e per migliorare le strutture logistiche nel settore della difesa civile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 9 novembre 2001, n. 401. Queste due norme, ritenute principi fondamentali della materia protezione civile, vincolanti pertanto la relativa potestà concorrente delle Regioni, affermerebbero la competenza statale in ordine alla predisposizione degli indirizzi e dei criteri generali nonché delle direttive per la previsione e la prevenzione delle varie ipotesi di rischio.

Per le stesse ragioni viene censurato l’art. 10, comma 1, lettera d), nella parte in cui si richiama a quanto previsto dall’art. 57, comma 1, lettera b).

1.3. – Infine, le censure governative si appuntano sull’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, e sull’art. 33 della citata legge regionale n. 12 del 2005. La prima delle due norme afferma che «l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione» rientra fra gli «interventi di nuova costruzione», cioè fra quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. Di conseguenza l’installazione di torri, tralicci e ripetitori di cui sopra è soggetta a permesso di costruire ai sensi dell’art. 33 della legge impugnata.

Secondo il ricorrente le norme in parola, sottoponendo l’installazione degli impianti di comunicazione elettronica ad un iter autorizzatorio comunale «ulteriore» rispetto a quello già previsto dall’art. 87 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), attuativo di alcune direttive comunitarie, darebbero vita ad un «ingiustificato appesantimento del procedimento», con conseguente violazione della normativa nazionale e comunitaria richiamata.

In particolare, la difesa erariale ricorda come il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 100 del 2005, abbia stabilito che la procedura di autorizzazione da applicare al riguardo sia soltanto quella di cui all’art. 87 del citato d.lgs. n. 259 del 2003 e non risulti pertanto necessario il rilascio del permesso di costruire.

2. – Si è costituita in giudizio, con memoria depositata il 6 giugno 2005, la Regione Lombardia, chiedendo che il ricorso sia dichiarato manifestamente inammissibile o, in subordine, manifestamente infondato.

3. – In data 27 giugno 2005, TIM ITALIA S.p.a. ha depositato atto di intervento chiedendo che sia accolto il ricorso del Governo e che la legge reg. della Lombardia n. 12 del 2005 sia quindi dichiarata costituzionalmente illegittima, nei termini indicati dal ricorrente.

4. – In data 5 luglio 2005, VODAFONE OMNITEL N.V. ha depositato atto di intervento chiedendo che sia accolto il ricorso del Governo.

5. – In data 20 settembre 2005, la Regione Lombardia ha depositato memoria, contenente una nuova procura con la quale è stato integrato il collegio difensivo, chiedendo che, previa dichiarazione di inammissibilità degli interventi di TIM ITALIA S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V., sia dichiarato inammissibile o, in subordine, infondato il ricorso.

5.1. – Con detta memoria la difesa regionale, preliminarmente, eccepisce l’inammissibilità del ricorso del Governo, in quanto quest’ultimo è stato depositato senza il contestuale deposito del verbale del Consiglio dei ministri e della relazione ministeriale.

Secondo la resistente, ciò avrebbe privato la Regione della possibilità di verificare «fin da subito» la corrispondenza tra quanto contenuto nel verbale e nella relazione e quanto contenuto nel ricorso, «eccependo se del caso la difformità tra tali contenuti». Né, secondo la Regione, questa inammissibilità potrebbe essere sanata da un deposito successivo, il quale «consentirebbe, al più, di far pervenire verbale e relazione nelle mani della difesa regionale solo nel momento in cui viene autorizzato lo scambio delle memorie, quando è ormai scaduto il termine di cui all’art. 10 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale».

La Regione Lombardia passa quindi in rassegna una serie di pronunzie di questa Corte che «rendono palese l’importanza del verbale e della relazione ministeriale», sottolineando come, nel caso di specie, le ragioni dell’inammissibilità del ricorso appaiano, «se possibile, in modo ancora più chiaro». Nel presente giudizio, infatti, non vi sarebbe «questione di incertezze sulle norme impugnate o di contraddizioni tra delibera, relazione ministeriale e ricorso: è questione invece della totale assenza del verbale e della relazione».

La difesa regionale esclude, in particolare, che possa pervenirsi a conclusione diversa dall’inammissibilità del ricorso sulla scorta delle sentenze n. 134 del 2004 e n. 321 del 2005 di questa Corte. A detta della Regione, il fatto che nei relativi giudizi la Corte abbia acquisito d’ufficio, con ordinanza istruttoria, l’estratto del processo verbale della riunione del Consiglio dei ministri e la relazione del Ministro per gli affari regionali, non esenta il Governo dall’obbligo di depositare verbale e relazione. Inoltre, in tali giudizi, le Regioni resistenti, «accettando di difendersi sulla sola base di quanto contenuto nel ricorso», non hanno sollevato alcuna eccezione, «come invece fa qui esplicitamente la Regione Lombardia».

5.2. – Passando alle norme oggetto delle singole censure governative, la Regione Lombardia eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità del ricorso nella parte in cui concerne il comma 13 dell’art. 9. Si osserva al riguardo come nessuna autonoma motivazione venga addotta a sostegno della censura né sia possibile individuare alcun «legame diretto» tra l’asserita necessità di espletare procedure di aggiudicazione ad evidenza pubblica e la disposizione in parola, la quale stabilisce che non configurano vincolo espropriativo le previsioni del piano dei servizi che demandino al proprietario dell’area la diretta realizzazione di attrezzature e servizi.

In merito alle censure mosse all’art. 9, comma 12, e all’art. 11, comma 3, la resistente ricorda che, secondo il ricorrente, sarebbero violate le norme di principio dettate in materia di lavori pubblici e le norme comunitarie relative alle modalità di affidamento degli appalti pubblici di lavori e servizi. Al riguardo, la difesa regionale osserva che, dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, non può più parlarsi della materia «lavori pubblici» e che, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2003, si tratta di «ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti».

A detta della Regione, pertanto, le norme della legge impugnata vanno inquadrate nella materia dell’urbanistica e quindi in quella del «governo del territorio».

La difesa regionale, dopo aver sottolineato l’estrema difficoltà di individuare i principi fondamentali in siffatta materia, ritiene che possa essere utile, pur non costituendo ancora diritto vigente, l’esame del disegno di legge AS 3519 (Principi in materia di governo del territorio). In particolare, la Regione si sofferma sull’art. 7 del citato disegno che prevedendo «la realizzazione diretta degli interventi di interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’amministrazione per la gestione dei servizi», presenterebbe, a suo dire, una «pressoché totale identità di contenuti» rispetto alle norme della legge regionale impugnata.

Pur ribadendo che si tratta di norme non ancora vigenti, la resistente ritiene che esse non costituiscano «una novità assoluta nel panorama dell’urbanistica»; il disegno di legge citato rappresenterebbe, infatti, «soltanto la conferma definitiva dell’ingresso dei principi "consensual-perequativi” all’interno della materia urbanistica». In proposito, la difesa della Regione ricorda come la legislazione statale e regionale preveda già il ricorso ad alcune forme di accordi pubblico-privato, analogamente a quanto introdotto dalle norme impugnate.

Si sottolinea, poi, come l’adozione di modelli perequativi risponda alla necessità di coniugare le scelte urbanistiche con le esigenze di uguaglianza e giustizia sociale. Inoltre le norme della Regione Lombardia troverebbero, a suo dire, ampia copertura nel principio di sussidiarietà orizzontale di cui al nuovo art. 118 Cost., nonché nella sentenza n. 179 del 1999 di questa Corte, nella quale è stata riconosciuta la validità dell’accordo tra il privato e l’amministrazione pubblica nella materia in questione.

Per quanto attiene alla presunta violazione del diritto comunitario, la difesa regionale contesta che il privato, realizzando i servizi e le attrezzature pubbliche grazie al finanziamento, totale o parziale, da parte della pubblica amministrazione, acquisti la veste di organismo di diritto pubblico. Al riguardo la Regione sottolinea come, ai sensi della direttiva 93/37/CEE, per potersi parlare di organismo di diritto pubblico sia necessaria la coesistenza di tre diversi requisiti: a) una distinta personalità giuridica; b) la dipendenza, anche in termini economici, da un ente pubblico; c) il perseguimento di obiettivi di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale.

Nel caso di specie, alla luce di quanto sopra, dovrebbe escludersi l’esistenza dei requisiti di cui alle lettere a) e b): infatti, per un verso, la nozione di organismo «sembra indicare sempre e comunque un "ente”, una "persona giuridica”, e difficilmente può estendersi a ricomprendere una persona fisica», mentre, per altro verso, la legge «in nessun modo prevede che l’opera venga finanziata attraverso contributi statali».

In merito poi alla sentenza della Corte di giustizia 12 luglio 2001 (C-399/98), citata dal ricorrente, la difesa della Regione Lombardia osserva come la controversia risolta in quella sede presentasse profili assai diversi da quelli dell’odierno giudizio. In particolare, la differenza tra i due casi emergerebbe dal fatto che le norme della Regione Lombardia non si rivolgono al titolare di una concessione o di un piano di lottizzazione, come nel caso risolto dalla Corte di giustizia, ma al proprietario dell’area. Ciò renderebbe «non comparabili» le due situazioni, anche in considerazione del fatto che, nella normativa oggi impugnata, si prevede che l’area resti di proprietà privata.

Sempre in relazione alla presunta violazione del diritto comunitario, la difesa regionale ricorda come i requisiti stabiliti dall’art. 1, lettera a), della direttiva 93/37/CEE, ai fini dell’applicazione della stessa, siano sei: 1) la contrattualità; 2) l’onerosità; 3) la forma scritta del contratto; 4) la qualifica soggettiva di amministrazione aggiudicatrice per una parte; 5) la qualificazione soggettiva di imprenditore per l’altra; 6) la natura di opera pubblica dell’oggetto dei lavori.

In particolare la Regione contesta che nel caso di specie sussista il carattere dell’onerosità, in quanto la possibilità di realizzare direttamente l’opera, «oltre ad essere sottoposta alle condizioni che verranno stabilite nell’apposita convenzione, garantisce al proprietario la compensazione per la cessione gratuita dell’area». Si sottolinea, inoltre, che proprio perché la possibilità di realizzare direttamente l’opera è stata pensata in un regime compensativo, questo obiettivo sarebbe vanificato qualora fosse necessaria una procedura di gara. Semmai, osserva la resistente, l’opportunità di una gara potrebbe riguardare le modalità di attribuzione della gestione delle attrezzature e dei servizi realizzati sulle aree in questione; in questo caso, però, spetterebbe alla convenzione tra privato e amministrazione farsi carico della necessità di rispettare le regole comunitarie sulla concorrenza e, a tal proposito, nessun rilievo è contenuto nel ricorso del Governo.

In via subordinata, qualora la Corte costituzionale non ritenesse di condividere le considerazioni della Regione sopra esposte, la difesa di quest’ultima chiede che le norme regionali impugnate siano «fatte salve per tutti i lavori di importo non superiore alla soglia comunitaria».

5.3. – In merito alle censure mosse all’art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e all’art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all’art. 55, comma 1, lettera b), e all’art. 57, comma 1, lettere a) e b), della citata legge della Regione Lombardia, la difesa regionale ritiene che esse siano infondate per i motivi di seguito esposti.

In particolare, si sottolinea come l’intero sistema della protezione civile, secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 327 del 2003, sia «ispirato ad un modello non più centralizzato, ma caratterizzato da una organizzazione diffusa a carattere policentrico». In questo modello un «rilevante ruolo» sarebbe riconosciuto alle Regioni, sia per l’adozione di atti normativi, sia per lo svolgimento di funzioni amministrative.

A detta della resistente le norme impugnate, e specificamente l’art. 55, sarebbero rispettose dell’art. 108 del d.lgs. n. 112 del 1998, che attribuisce alle Regioni le funzioni relative alla predisposizione degli indirizzi di previsione e prevenzione dei rischi, sulla base degli indirizzi nazionali, e di quelle relative agli indirizzi per la predisposizione dei piani provinciali di emergenza in caso di eventi calamitosi.

Ulteriori conferme della competenza regionale in materia si avrebbero dalla sentenza n. 228 del 2003, in relazione al d.l. n. 343 del 2001, e dal decreto-legge 31 maggio 2005, n. 90 (Disposizioni urgenti in materia di protezione civile) che, all’art. 4, ha fatto salve le competenze regionali previste dalla normativa vigente.

A parere della difesa regionale, la conferma decisiva si avrebbe, comunque, dalla sentenza n. 327 del 2003 di questa Corte. Nell’occasione sono state dichiarate infondate alcune questioni di legittimità costituzionale su norme della Regione Marche che, a detta della resistente, attribuiscono alla competenza regionale funzioni «analoghe» a quelle previste dalla legge lombarda oggetto del presente giudizio.

5.4. – Infine, in relazione all’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, e all’art. 33 della citata legge regionale n. 12 del 2005, la Regione Lombardia eccepisce, preliminarmente, l’inammissibilità delle relative censure. Mancherebbe, infatti, qualsiasi riferimento alle norme costituzionali violate e non sarebbe individuato l’ambito materiale cui sarebbe riconducibile la fattispecie in questione.

Nel merito, la difesa regionale ritiene che il ricorso sia infondato. Al riguardo, si ricorda come questa Corte, con la sentenza n. 303 del 2003, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, del decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198 (Disposizioni volte ad accelerare la realizzazione delle infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443), il quale, al comma 2 dell’art. 3, stabiliva che le stazioni radio base per reti di comunicazione mobili GSM/UMTS «sono compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica e sono realizzabili in ogni parte del territorio comunale, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di legge o di regolamento». La Regione fa notare come questa disposizione non sia stata riprodotta nel d.lgs. n. 259 del 2003: da ciò deriverebbe che attualmente la localizzazione delle infrastrutture per telecomunicazioni «non è più "libera”, ma deve essere necessariamente conforme sia alla legislazione nazionale e regionale in tema, sia a quella locale approvata dai Comuni, ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge statale n. 36 del 2001, e contenuta negli strumenti urbanistici generali o in regolamenti ad hoc».

In particolare, osserva la resistente, questa Corte ha riconosciuto (sentenza n. 307 del 2003) che «l’autonoma capacità delle Regioni e degli enti locali di regolare l’uso del proprio territorio trova pieno vigore, purché criteri localizzativi e standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi».

Di conseguenza, sempre a detta della difesa regionale, stante il disposto dell’art. 86, comma 3, del d.lgs. n. 259 del 2003, il quale assimila le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, soggette a permesso di costruire, deve ritenersi che anche per le infrastrutture citate sia necessario il «titolo abilitativo edilizio».

La Regione Lombardia conclude sul punto ricordando che la legge regionale impugnata, all’art. 41, riconosce a chi abbia titolo per presentare istanza di permesso di costruire la «facoltà, alternativamente e per gli stessi interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia, di inoltrare al Comune denuncia di inizio attività». In questo modo sarebbe comunque garantito «un procedimento celere, alternativo a quello che tende a ottenere il permesso di costruire», in ossequio ai principi di semplificazione amministrativa e di celerità richiamati da questa Corte nella sentenza n. 336 del 2005 e dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 100 del 2005.

5.5. – Infine la Regione Lombardia, dopo aver ricordato che nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale il contraddittorio è riservato a Stato e Regioni, con esclusione dell’ammissibilità di interventi di soggetti terzi, chiede che siano dichiarati inammissibili gli interventi in giudizio di TIM ITALIA S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V.

6. – In prossimità dell’udienza TIM ITALIA S.p.a. ha depositato una memoria nella quale, preliminarmente e con specifico riguardo alle censure mosse agli artt. 27 e 33 della legge impugnata, sostiene di avere un «interesse rilevante, autonomo e particolarmente qualificato ad ottenere l’accertamento della illegittimità» delle norme censurate dal Governo. Trattandosi infatti di soggetto titolare di licenze per l’installazione e l’esercizio di reti di radiotelefonia cellulare, osserva la difesa dell’interveniente, l’esito del giudizio di legittimità costituzionale avrà «un effetto diretto e immediato» sulla sua sfera giuridica.

In particolare, si rileva come «l’installazione, l’esercizio e la fornitura di reti di telecomunicazione, nonché la prestazione dei servizi ad essa connessi accessibili al pubblico» costituiscano «attività di preminente interesse generale» ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 259 del 2003. Inoltre, il possesso della licenza per i servizi di telefonia mobile «costituisce dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere di realizzazione della rete».

Quindi la società interveniente, in quanto titolare di licenza di un’attività di preminente interesse generale, presenterebbe «un puntuale titolo di qualificazione all’intervento». Ad ulteriore sostegno di queste considerazioni, si osserva che TIM ha altresì l’obbligo di assicurare il «servizio universale» ai sensi del decreto del Ministro delle comunicazioni 10 marzo 1998 (Finanziamento del servizio universale nel settore delle telecomunicazioni), inteso come insieme minimo di servizi di qualità a disposizione della generalità dell’utenza. Inoltre, la rete di telefonia mobile è definita come «strumento dell’azione amministrativa di protezione civile».

Dopo aver sinteticamente illustrato i principi fondamentali vigenti nella normativa comunitaria in materia, la difesa dell’interveniente conclude sul punto sottolineando «l’estrema rilevanza che ha per il gestore l’eliminazione di norme regionali che bloccano la realizzazione in modo celere della rete», nonché l’«innegabile» utilità della partecipazione al processo da parte del gestore «al fine di una esauriente acquisizione di elementi oggettivi di giudizio». Si precisa infine che dall’eventuale rigetto del ricorso del Governo, TIM subirebbe una «diretta e irrimediabile lesione della propria sfera giuridica e precisamente del proprio diritto costituzionale di libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.)»; tra l’altro, quanto statuito dalla Corte costituzionale, se non venisse ammesso l’intervento in giudizio, risulterebbe «incontestabile in altre sedi giudiziarie», con conseguente pregiudizio del diritto di difesa.

Qualora, poi, la Corte non ritenesse di ammettere l’intervento, l’interveniente chiede che venga accettato il «contributo collaborativo di TIM quale amicus curiae»; ciò in virtù della «specifica competenza scaturente dal suo ruolo di esercente un servizio di sicura rilevanza pubblicistica» e della «puntuale conoscenza del regime della rete».

Nel merito, la difesa della società chiede che sia accolto il ricorso presentato avverso la legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005.

7. – In prossimità dell’udienza VODAFONE OMNITEL N.V. ha depositato una memoria nella quale, preliminarmente, chiede venga riconsiderato l’orientamento di questa Corte, che nega l’ammissibilità dell’intervento, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale, di soggetti diversi da quelli titolari delle potestà legislative della cui delimitazione si discute.

In particolare, un’apertura in tal senso sarebbe rinvenibile nell’ordinanza n. 20 del 2005, nella quale gli interventi in giudizio di soggetti diversi da quelli legittimati al ricorso sono stati dichiarati inammissibili «non essendo stati addotti argomenti che inducano questa Corte ad abbandonare il proprio precedente indirizzo». Osserva l’interveniente che, a contrario, «in talune circostanze e a fronte di validi motivi» la Corte potrebbe mutare orientamento; in altre parole, secondo la difesa di VODAFONE, l’intervento dovrebbe essere ammesso qualora sia «sufficientemente qualificato», cioè «quando sia accertata in capo al soggetto interveniente la rappresentatività o la titolarità di interessi a cui l’ordinamento giuridico riconosce espressa tutela» e «quando vi sia una valutazione positiva della rilevanza e dell’incidenza che l’atto legislativo esercita su quegli stessi interessi».

Nel caso di specie la società interveniente ritiene che sussistano i presupposti per l’ammissibilità del suo intervento, rappresentati dalla titolarità di licenze individuali rilasciate dal Ministero delle comunicazioni, dal carattere di «preminente interesse generale» riconosciuto dal legislatore nazionale agli impianti di telecomunicazioni, dagli effetti «rilevanti, diretti ed immediati» che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate produrrebbe sull’attività svolta da VODAFONE ed infine dalla ingiustificata compressione del diritto di difesa che essa subirebbe qualora l’intervento fosse dichiarato inammissibile.

Nel merito la difesa della società chiede che sia accolta la questione di legittimità costituzionale promossa dal Governo e che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 27, comma 1, lettera e), numero 4, e 33 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005.

8. – In prossimità dell’udienza la Regione Lombardia ha depositato un’ulteriore memoria integrativa con la quale, richiamate tutte le argomentazioni e le conclusioni prospettate in precedenza, segnala che, in virtù di quanto statuito nell’art. 1, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il Consiglio dei ministri, nella seduta del 22 dicembre 2005, ha approvato uno schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali vigenti in materia di governo del territorio.

Al riguardo si sottolinea come esso, pur non essendo attualmente diritto vigente, risulti «non irrilevante» ai fini della risoluzione del presente giudizio; si tratta infatti di principi già esistenti in materia.

8.1. – Con riferimento al primo motivo di ricorso, avente ad oggetto l’art. 9, commi 12 e 13, e l’art. 11, comma 3, della legge impugnata, la resistente ritiene di particolare interesse il contenuto dell’art. 8, commi 11 e 16, dello schema di decreto legislativo sopra citato. In particolare, il comma 11 prevede la possibilità per l’amministrazione di ricorrere all’«iniziativa economica privata, o mista pubblica-privata, tramite strumenti di convenzionamento, senza la necessità di ablazione del bene privato» al fine di realizzare obiettivi di interesse generale per dotare il territorio di attrezzature e servizi.

Il comma 16 del medesimo art. 8, invece, stabilisce che l’amministrazione, «ai fini dell’attuazione dello strumento urbanistico generale», può applicare il principio della «perequazione urbanistica», consistente «nel riconoscere a tutte le proprietà immobiliari ricomprese in ambiti oggetto di trasformazione urbanistica un diritto edificatorio la cui entità sia indifferente rispetto alla destinazione d’uso, ma derivi invece dallo stato di fatto e di diritto in cui si trovano le proprietà stesse al momento della formazione del piano urbanistico».

I principi espressi dalle due norme sopra menzionate, a detta della difesa regionale, coinciderebbero con quelli che ispirano le norme regionali impugnate.

La Regione Lombardia si sofferma poi sull’art. 71, comma 4, dello schema di decreto legislativo; la norma da ultimo citata stabilisce infatti che ai soggetti privati che eseguono lavori considerati di pubblica utilità e di interesse generale si applicano le norme della legge n. 109 del 1994, solo se i lavori siano di importo superiore ad un milione di euro e se per la realizzazione «sia previsto, da parte di pubbliche amministrazioni o organismi di diritto pubblico, un contributo diretto e specifico in conto interessi o in conto capitale che, attualizzato, superi il cinquanta per cento dell’importo dei lavori».

Da questa disposizione, a detta della difesa regionale, si ricaverebbe a contrario che le norme regionali impugnate non si porrebbero in contrasto con alcun principio fondamentale, non prevedendo in nessun modo che l’opera venga finanziata attraverso contributi statali.

8.2. – Anche per quanto attiene al secondo motivo di ricorso, la difesa della Regione Lombardia ritiene che possano trarsi utili indicazioni dallo schema di decreto legislativo citato. La resistente si sofferma in special modo sull’art. 8, comma 1-bis, il quale stabilisce che le Regioni emanino norme «sui criteri per la formazione degli strumenti urbanistici ai fini della prevenzione del rischio sismico», e sull’art. 51, che si limita a disporre un rinvio agli articoli da 83 a 106 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) ed al d.l. n. 343 del 2001.

Fra le norme cui fa rinvio l’art. 51, la difesa regionale reputa di particolare importanza l’art. 83 del t.u. sull’edilizia, secondo il quale «le Regioni, sentite le Province e i Comuni interessati, provvedono alla individuazione delle zone dichiarate sismiche, alla formazione e all’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone e dei valori attribuiti ai gradi di sismicità, nel rispetto dei criteri generali».

Si sottolinea, inoltre, come l’art. 89 del t.u. individui nell’ufficio tecnico regionale l’autorità competente a fornire, ai Comuni nei quali sono applicabili le norme relative alla prevenzione sismica, il parere sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati e sulle lottizzazioni e loro varianti.

8.3. – In merito all’ultimo motivo di ricorso, la difesa regionale ribadisce che il d.lgs. n. 259 del 2003, a differenza del precedente d.lgs. n. 198 del 2002, non ha introdotto una clausola di esclusività per quanto attiene alle procedure da seguire per l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazioni.

La resistente ritiene, al riguardo, che «l’unicità e l’onnicomprensività» dell’autorizzazione prevista nel Codice delle comunicazioni elettroniche avrebbero dovuto essere esplicitamente previste, come nel d.lgs. n. 198 del 2002. Di conseguenza, nel silenzio del legislatore statale, le norme regionali non contrastano con i principi fondamentali in materia.

La Regione insiste poi sulla duplice valenza delle installazioni in parola, che «sono sicuramente parti di una rete di servizi di comunicazione elettronica» ma anche «infrastrutture edilizie» ed in particolare opere di urbanizzazione primaria; in quanto tali sono soggette a permesso di costruire in base al testo unico dell’edilizia.

Infine, si sottolinea come il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. I-quater, con ordinanza 16 dicembre 2004, n. 16332, abbia sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 87 e 88 del Codice delle comunicazioni, in riferimento agli artt. 3, 76, 97 e 117 Cost. In particolare, secondo il Tribunale rimettente, la violazione dell’art. 76 Cost. si avrebbe in quanto l’art. 41 della legge delega 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), non avrebbe affidato al Governo la revisione della disciplina urbanistico-edilizia con specifico riguardo al permesso di costruire.

Inoltre, gli artt. 87 e 88 sarebbero lesivi delle competenze regionali in materia di governo del territorio.

La difesa regionale conclude affermando l’esistenza di un rapporto di pregiudizialità tra la questione di cui ora si discute e quella sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con la conseguenza che un eventuale accoglimento di quest’ultima non potrebbe che comportare il rigetto del presente ricorso governativo.

Considerato in diritto

1. – Con ricorso notificato il 16 maggio 2005 e depositato il 24 maggio 2005, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 9, commi 12 e 13, e dell’art. 11, comma 3; dell’art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e dell’art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all’art. 55, comma 1, lettera b), e all’art. 57, comma 1, lettere a) e b); dell’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, e dell’art. 33 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 11 del 16 marzo 2005, in riferimento all’art. 117, primo e terzo comma, della Costituzione.

2. – Preliminarmente vanno dichiarati inammissibili gli interventi nel presente procedimento di TIM ITALIA S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V. Infatti, nel giudizio di costituzionalità delle leggi promosso in via d’azione, parti sono soltanto i soggetti titolari delle potestà legislative in contestazione. Pertanto, alla stregua della normativa in vigore e conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: sentenze numeri 80, 59 e 51 del 2006, 469 e 383 del 2005), non è ammesso l’intervento in tali giudizi di soggetti privi di potere legislativo.

3. – La Regione Lombardia eccepisce in via preliminare l’inammissibilità del ricorso governativo per non essere stato effettuato il deposito contestuale dell’estratto del verbale del Consiglio dei ministri e della relazione del Ministro proponente. Ciò risulterebbe dallo stesso ricorso, che si riferisce ad un futuro deposito, successivo alla notifica dell’atto introduttivo del presente giudizio.

L’eccezione non può essere accolta.

I due documenti prima citati risultano essere stati effettivamente depositati presso la cancelleria della Corte costituzionale e non emergono elementi per ritenere che tale deposito non sia stato contestuale a quello del ricorso.

4. – Con specifico riguardo alle censure contenute nel ricorso governativo, va anzitutto dichiarata l’inammissibilità di quella avente ad oggetto il comma 13 dell’art. 9 della legge regionale impugnata, in quanto manca ogni motivazione circa la sua asserita illegittimità costituzionale. La norma in questione si limita infatti a stabilire che non costituiscono vincolo espropriativo e non sono soggette a decadenza le previsioni del piano dei servizi che demandino al proprietario dell’area la diretta realizzazione di attrezzature e servizi, ovvero ne contemplino la facoltà in alternativa all’intervento della pubblica amministrazione. Nessun legame emerge tra tale disposizione e le questioni di legittimità costituzionale illustrate nel ricorso dall’Avvocatura dello Stato, con la conseguenza che la stessa non può essere assoggettata a controllo di costituzionalità.

5. – Espunto il comma 13 dell’art. 9 della legge regionale impugnata, rimane da esaminare la censura riguardante il comma 12 del medesimo articolo, in combinato disposto con l’art. 11, comma 3, della stessa legge. Il ricorrente sostiene che tale norma sia costituzionalmente illegittima perché non prevede – e quindi implicitamente esclude – che nell’ipotesi di realizzazione diretta, da parte del proprietario dell’area sottoposta a vincolo espropriativo, delle attrezzature e dei servizi per la cui attuazione è preordinato il detto vincolo, la scelta del contraente, per appalti che eguaglino o superino la soglia comunitaria, avvenga secondo procedure di evidenza pubblica. Vi sarebbe violazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee 92/50 del 18 giugno 1992 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici dei servizi), 93/36 del 14 giugno 1993 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture), 93/37 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori) e 93/38 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni) e quindi dell’art. 117, primo comma, della Costituzione.

5.1. – La questione è fondata nei limiti di seguito precisati.

5.2. – La normativa comunitaria in materia di appalti pubblici, contenuta in un gruppo di direttive, che hanno ricevuto attuazione mediante atti legislativi nazionali, prevede che in ogni caso, quando si realizzi un’opera o si affidi un servizio o una fornitura per importi uguali o superiori ad un certo valore, il soggetto che procede all’appalto debba adottare procedure di evidenza pubblica per la scelta del contraente. L’obbligo sussiste sia che l’attribuzione dell’appalto spetti ad un ente pubblico territoriale o ad altro «organismo di diritto pubblico» (secondo la dizione delle direttive prima citate), sia che lo stesso venga effettuato da un privato, il quale in tal caso assume – come chiarito dalla Corte di giustizia delle Comunità europee – la veste di «titolare di un mandato espresso», conferito dall’ente pubblico che intende realizzare l’opera o il servizio (sentenza 12 luglio 2001, in causa C-399/98). La citata pronuncia della Corte di giustizia riguarda il caso del titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione, cui è consentita la realizzazione diretta di un’opera di urbanizzazione, a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, quando il valore di tale opera eguagli o superi la soglia comunitaria.

Il principio fissato dalla Corte di giustizia è stato riversato nell’ordinamento italiano per mezzo dell’art. 2, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), nel testo sostituito dall’art. 7, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), che, riferendosi agli interventi eseguiti direttamente dai privati a scomputo di contributi connessi all’attività edilizia o alla lottizzazione di aree, stabilisce che «per le singole opere d’importo superiore alla soglia comunitaria i soggetti privati sono tenuti ad affidare le stesse nel rispetto delle procedure di gara previste dalla […] direttiva 93/37/CEE».

La fattispecie configurata dalle norme regionali impugnate è assimilabile a quella oggetto delle direttive comunitarie sopra citate, nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia e riprodotta dal legislatore nazionale italiano. Si tratta infatti di accordi che i privati proprietari di aree destinate ad essere espropriate per la realizzazione di attrezzature e servizi pubblici possono stipulare con il Comune competente, in base ai quali «il proprietario può realizzare direttamente gli interventi di interesse pubblico o generale, mediante accreditamento o stipulazione di convenzione con il Comune per la gestione del servizio» (art. 11, comma 3, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Si tratta quindi di accordi a titolo oneroso, dai quali derivano per le parti contraenti diritti e obblighi reciproci, che consentono al proprietario espropriando, in particolare, di mantenere la proprietà dell’area e di ottenere la gestione del servizio previsto in cambio della realizzazione diretta degli interventi necessari. Tutta l’operazione prevista dalle norme impugnate è preordinata alla soddisfazione di interessi pubblici, come viene confermato dall’art. 9, comma 12, della legge regionale de qua, che fa riferimento a vincoli previsti «per la realizzazione esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi».

Da quanto sinora detto si deduce come sia applicabile anche al proprietario espropriando che accetta di realizzare l’opera prevista dall’ente pubblico la qualifica di «titolare di un mandato espresso» conferito dal Comune, di cui alla citata sentenza della Corte di giustizia.

Non entrano in discussione, per i profili di costituzionalità evocati nella presente questione, le modalità della cosiddetta urbanistica consensuale e perequativa, ma soltanto l’obbligo di procedere alle prescritte gare di appalto, poste a base della normativa europea citata, a tutela della trasparenza e della concorrenza, qualora l’importo delle realizzazioni superi un certo limite. Il ricorso a procedure di evidenza pubblica per la scelta del contraente non può peraltro essere ritenuto incompatibile con gli accordi tra privati e pubblica amministrazione, giacché la possibilità che tali procedure siano svolte dagli stessi privati risulta già ammessa nell’ordinamento proprio nella fattispecie oggetto della richiamata pronuncia della Corte di giustizia e disciplinata in modo conforme dal citato art. 2, comma 5, della legge n. 109 del 1994, come sostituito dalla legge n. 166 del 2002.

5.3. – Sulla scorta delle precedenti considerazioni, non si può dubitare che le direttive comunitarie prima citate – in materia di procedure ad evidenza pubblica per l’attribuzione di lavori, forniture e servizi – debbano essere osservate anche nell’ipotesi che sia conferito ad un privato il compito di realizzare direttamente l’opera necessaria per la successiva prestazione del servizio pubblico, la cui gestione può essere affidata, mediante convenzione, al privato medesimo. Come questa Corte ha già affermato (sentenze n. 406 del 2005, n. 7 e n. 166 del 2004), le direttive comunitarie fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost. La norma costituzionale citata, collocata nella Parte seconda della Costituzione, si ricollega al principio fondamentale contenuto nell’art. 11 Cost. e presuppone il rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana. Pertanto la mancata previsione, nelle norme regionali impugnate, dell’obbligo di adottare procedure ad evidenza pubblica in ogni caso in cui l’appalto sia di importo uguale o superiore alla soglia comunitaria, determina la loro illegittimità costituzionale.

6. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha pure impugnato l’art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e l’art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all’art. 55, comma 1, lettera b) ed all’art. 57, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005. Tali norme violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost., ed in particolare i principi fondamentali della materia «protezione civile», di cui all’art. 107 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997 n. 59), in quanto attribuiscono alla Regione, e non allo Stato, la predisposizione degli indirizzi e dei criteri generali per il riassetto del territorio ai fini della prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici, nonché delle direttive per la prevenzione del rischio sismico.

6.1. – La questione non è fondata.

6.2. – Questa Corte ha già rilevato che il legislatore statale, con la legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), «ha rinunciato ad un modello centralizzato per una organizzazione diffusa a carattere policentrico» (sentenza n. 327 del 2003). In materia di prevenzione dei rischi, la legislazione nazionale vigente configura un sistema composito di competenze, ordinato secondo il criterio della maggiore o minore generalità degli indirizzi, in base al quale ciascun livello di governo deve contenere l’esercizio dei propri poteri all’interno degli indirizzi dettati su più vasta scala dal livello superiore.

Alla luce del criterio prima indicato, si può osservare che l’art. 107 del d.lgs. n. 112 del 1998 attribuisce allo Stato «gli indirizzi per la predisposizione e l’attuazione dei programmi di previsione e prevenzione in relazione alle varie ipotesi di rischio». Le norme regionali impugnate attribuiscono alla Giunta regionale la definizione degli indirizzi per il riassetto del territorio, «ai fini della prevenzione dei rischi geologici e idrogeologici e della loro mitigazione» (art. 55, comma 1, lettera b, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Gli indirizzi in parola devono però confluire nel piano territoriale regionale (art. 19, comma 2, lettera b, numero 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005), il quale costituisce «atto fondamentale di indirizzo, agli effetti territoriali, della programmazione di settore della Regione, nonché di orientamento della programmazione e pianificazione territoriale dei Comuni e delle Province» (art. 19, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).

Dall’esame della normativa statale e regionale in materia emerge che la Regione ha solo voluto disciplinare l’esercizio delle funzioni di prevenzione dei rischi nell’ambito del proprio territorio. Ciò non implica un’invasione della sfera di competenza dello Stato, in quanto, come questa Corte ha già statuito (sentenza n. 327 del 2003), la mancanza dell’esplicita menzione dell’obbligo di rispetto degli indirizzi nazionali non comporta la loro violazione, che dovrà essere eventualmente accertata nelle singole norme e nei singoli atti.

6.3. – Per quanto riguarda l’individuazione delle zone sismiche, bisogna rilevare che l’art. 83 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), dispone: «Le regioni, sentite le province e i comuni interessati, provvedono alla individuazione delle zone dichiarate sismiche […], alla formazione e all’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone e dei valori attribuiti ai gradi di sismicità, nel rispetto dei criteri generali di cui al comma 2». Tale ultima disposizione richiamata stabilisce che il Ministro per le infrastrutture ed i trasporti, di concerto con il Ministro per l’interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata, determina con proprio decreto «i criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado di sismicità da prendere a base per la determinazione delle azioni sismiche e di quant’altro specificato dalle norme tecniche».

Come si vede, il quadro normativo sistematico di allocazione delle competenze ai vari livelli di governo è chiaro e non risulta contraddetto dalla norma regionale impugnata, che deve essere interpretata nel contesto ora richiamato.

7. – Il Governo ha infine promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, e dell’art. 33 della legge reg. della Lombardia n. 12 del 2005, per violazione dell’art. 87 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), in quanto sottopongono l’installazione di torri e tralicci per impianti di radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione ad un iter autorizzatorio comunale (rilascio del permesso di costruire) ulteriore rispetto a quello già previsto dal citato art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003.

7.1. – Preliminarmente si deve rigettare l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa regionale e motivata dalla mancanza, nel ricorso dell’Avvocatura dello Stato, dell’indicazione del parametro di costituzionalità di cui si assume la violazione. Deve infatti rilevarsi che l’art. 117, terzo comma, Cost. è evocato nella parte generale del ricorso, con particolare riferimento alla materia «governo del territorio», e che la norma impugnata è indicata espressamente nel medesimo contesto. Nel punto 3) dei motivi specifici, il ricorrente non ha ritenuto di dover ripetere l’indicazione della norma costituzionale e si è limitato a far riferimento alla norma interposta. Ciò non determina tuttavia incertezze nella individuazione della disposizione costituzionale di cui si lamenta la violazione.

7.2. – Nel merito la questione è fondata.

7.3. – L’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 costituisce attuazione della delega legislativa contenuta nell’art. 41, comma 2, lettera a), della legge n. 166 del 2002, che in materia di telecomunicazioni prescrive, al numero 3, la «previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture», e al numero 4 la «riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per la installazione delle infrastrutture di reti mobili».

Con tali norme il legislatore nazionale ha posto la tempestività delle procedure e la riduzione dei termini per l’autorizzazione all’installazione delle infrastrutture di cui sopra come principi fondamentali operanti nella materia «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente. La confluenza in un unico procedimento dell’iter finalizzato all’ottenimento dell’autorizzazione a costruire tali impianti risponde pertanto ai principi generali sopra richiamati perché, come ha osservato il Consiglio di Stato (sezione VI, sentenza n. 4159 del 2005), le «esigenze di tempestività e contenimento dei termini resterebbero vanificate se il nuovo procedimento venisse ad abbinarsi e non a sostituirsi a quello previsto in materia edilizia».

Bisogna aggiungere che l’unificazione dei procedimenti non priva l’ente locale del suo potere di verificare la compatibilità urbanistica dell’impianto per cui si chiede l’autorizzazione. Il citato art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 prevede infatti che tali installazioni vengano autorizzate dagli enti locali, previo accertamento, da parte dell’organismo competente ad effettuare i controlli, della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità. Questi ultimi sono specificati dall’art. 3, comma 1, lettera d), numeri 1 e 2, della legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici). Nella suddetta disposizione sono compresi «i criteri di localizzazione» e «gli standard urbanistici». La tutela del territorio e la programmazione urbanistica sono salvaguardate dalle norme statali in vigore ed affidate proprio agli enti locali competenti, i quali, al pari delle Regioni (sentenza n. 336 del 2005), non vengono perciò spogliati delle loro attribuzioni in materia, ma sono semplicemente tenuti ad esercitarle all’interno dell’unico procedimento previsto dalla normativa nazionale, anziché porre in essere un distinto procedimento.

7.4. – Da quanto detto si deduce che la previsione di un ulteriore procedimento finalizzato al rilascio del permesso di costruire, che si sovrappone ai controlli da effettuarsi a cura dello stesso ente locale nell’ambito del procedimento unificato, costituisce un inutile appesantimento dell’iter autorizzatorio per l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione, in contrasto con le esigenze di tempestività e di contenimento dei termini, da ritenersi, con riferimento a questo tipo di costruzioni, principi fondamentali di governo del territorio. Da ciò consegue l’illegittimità costituzionale delle norme regionali impugnate per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

8. – L’art. 33 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, impugnato insieme all’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, resta immune dalla censura di illegittimità costituzionale prospettata nel ricorso, giacché disciplina in generale il permesso di costruire, dall’ambito del quale viene sottratta, per effetto della presente sentenza, l’autorizzazione all’installazione di torri e tralicci per le finalità di cui sopra.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili gli interventi di TIM ITALIA S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V.;

dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 9, comma 12, e dell’art. 11, comma 3, della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nella parte in cui non prevede l’obbligo di procedure ad evidenza pubblica per tutti i lavori, da chiunque effettuati, di importo pari o superiore alla soglia comunitaria;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e dell’art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all’art. 55, comma 1, lettera b), e all’art. 57, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal Governo in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal Governo in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 13, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal Governo in riferimento all’art. 117, primo e terzo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2006.

Annibale MARINI, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2006.