Sentenza n. 75 del 2017

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SENTENZA N. 75

ANNO 2017

 

Commento alla decisione di

 

Michele Belletti

Liberalizzare senza inquinare: il caso della miscelazione di rifiuti pericolosi, ovvero, la salvaguardia di valori fondamentali, il rispetto di discipline eurounitarie e la tutela – indiretta – delle competenze regionali

 

per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Giorgio                        LATTANZI                                         Giudice

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                              ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                    ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

-           Franco                         MODUGNO                                            ”

-           Augusto Antonio        BARBERA                                               ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 49 della legge 28 dicembre 2015, n. 221 (Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali), promosso dalla Regione Lombardia con ricorso notificato il 18 marzo 2016, depositato in cancelleria il 25 marzo 2016 ed iscritto al n. 22 del registro ricorsi 2016.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 21 marzo 2017 il Giudice relatore Daria de Pretis;

uditi l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Lombardia e l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 18 marzo 2016, depositato il 25 marzo 2016 e iscritto al n. 22 del registro ricorsi 2016, la Regione Lombardia ha impugnato l’art. 49 della legge 28 dicembre 2015, n. 221 (Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali). Tale disposizione aggiunge il comma 3-bis nell’art. 187 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale» (in prosieguo, anche: codice dell’ambiente). L’art. 187, comma 1, pone il divieto di «miscelare rifiuti pericolosi aventi differenti caratteristiche di pericolosità ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi», precisando che «[l]a miscelazione comprende la diluizione di sostanze pericolose»; il comma 2 dispone che, «[i]n deroga al comma 1, la miscelazione dei rifiuti pericolosi che non presentino la stessa caratteristica di pericolosità, tra loro o con altri rifiuti, sostanze o materiali, può essere autorizzata ai sensi degli articoli 208, 209 e 211 […]», a determinate condizioni di seguito elencate; il comma 3-bis, aggiunto con la disposizione impugnata, statuisce che «[l]e miscelazioni non vietate in base al presente articolo non sono sottoposte ad autorizzazione e, anche se effettuate da enti o imprese autorizzati ai sensi degli articoli 208, 209 e 211, non possono essere sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori rispetto a quelle previste per legge».

La Regione osserva che il comma 3-bis «“liberalizza” le miscelazioni non vietate (quindi quelle relative a rifiuti con uguali caratteristiche di pericolosità oppure non pericolosi), disponendo anzi l’impossibilità di sottoporre l’operazione di miscelazione a limitazioni in sede autorizzatoria». Essa ricorda poi l’art. 23, paragrafo 1, della direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive: «[g]li Stati membri impongono a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente. Tali autorizzazioni precisano almeno quanto segue: a) i tipi e i quantitativi di rifiuti che possono essere trattati; b) per ciascun tipo di operazione autorizzata, i requisiti tecnici e di altro tipo applicabili al sito interessato; c) le misure precauzionali e di sicurezza da prendere; d) il metodo da utilizzare per ciascun tipo di operazione; e) le operazioni di monitoraggio e di controllo che si rivelano necessarie; f) le disposizioni relative alla chiusura e agli interventi ad essa successivi che si rivelano necessarie». La ricorrente richiama poi l’art. 24 della citata direttiva, in base al quale «[g]li Stati membri possono dispensare dall’obbligo di cui all’articolo 23, paragrafo 1, gli enti o le imprese che effettuano le seguenti operazioni: a) smaltimento dei propri rifiuti non pericolosi nei luoghi di produzione; o b) recupero dei rifiuti».

La Regione rileva che «la miscelazione dei rifiuti è l’unione di diversi rifiuti aventi diverso CER, al fine di inviare la miscela ottenuta ad un impianto di smaltimento o recupero». Essa «costituisce una delle operazioni di smaltimento e di gestione dei rifiuti e, pertanto, è disciplinata all’interno dell’autorizzazione all’esercizio dell’impianto, con proprie prescrizioni». La ricorrente afferma che tali operazioni sono sottoposte ad autorizzazione dall’art. 23 della direttiva n. 2008/98/CE e che, fino all’entrata in vigore della norma impugnata, «le Regioni (o gli enti dalle stesse delegati), nell’emanare le autorizzazioni, potevano stabilire delle condizioni di esercizio “impianto specifiche” per garantire l’attuazione dei principi di precauzione, prevenzione, sostenibilità ai fini della protezione dell’ambiente e della salute umana, secondo quanto dispone l’art. 29 sexies, comma 9 del d. lgs. n. 152/06».

In attuazione di tale disposizione e dell’art. 3-quinquies del d.lgs. n. 152 del 2006, la Regione Lombardia ricorda di avere «adottato, con proprie deliberazioni, degli atti generali per il rilascio delle autorizzazioni di miscelazione dei rifiuti (DGR n. 8571/2008; DGR n. 3596/2012; DGR n. 127/2013), al dichiarato fine di garantire la tutela dell’ambiente, della salute pubblica e della sicurezza dei lavoratori, considerato che la miscelazione indiscriminata può comportare rischi a causa di reazioni impreviste o di emanazioni di sostanze tossiche».

La ricorrente osserva poi che la norma censurata incide sulle materie, di sua competenza, della «tutela della salute» e «tutela e sicurezza del lavoro», comprimendo l’autonomia legislativa e amministrativa. Dunque, la Regione sarebbe legittimata a invocare anche parametri diversi da quelli contenuti nel Titolo V, «essendovi una ridondanza sulle attribuzioni regionali».

2.– Avverso la disposizione impugnata vengono sollevate cinque questioni di costituzionalità.

In primo luogo, la ricorrente lamenta la violazione «degli articoli 11 e 117, comma 1, della Costituzione, in relazione alla Direttiva 2008/98/CE, e dell’art. 117, commi 2 e 3 della Costituzione». La norma statale sottrarrebbe all’autorizzazione «e alle prescrizioni ad essa connesse» alcune operazioni di miscelazione di rifiuti (sopra indicate), che invece il citato art. 23 della direttiva n. 2008/98/CE assoggetterebbe ad autorizzazione.

Nella prospettiva della normativa europea, non si potrebbe «prescindere dalle considerazioni ed eventuali prescrizioni specifiche per ciascun impianto, così come non si può prescindere dal monitoraggio».

La violazione della citata direttiva sarebbe apprezzabile anche sotto altro profilo. L’art. 17 di essa dispone che «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie affinché la produzione, la raccolta, il trasporto, lo stoccaggio e il trattamento dei rifiuti pericolosi siano eseguiti in condizioni tali da garantire la protezione dell’ambiente e della salute umana, al fine di ottemperare le disposizioni di cui all’articolo 13, comprese misure volte a garantire la tracciabilità dalla produzione alla destinazione finale e il controllo dei rifiuti pericolosi al fine di soddisfare i requisiti di cui agli articoli 35 e 36». Consentendo «la miscelazione priva di autorizzazione e di controllo di rifiuti con uguale indice di pericolosità», l’impugnato art. 49 della legge n. 221 del 2015 ne inibirebbe la tracciabilità, «posto che l’operazione di miscelazione termina con l’unione di diversi rifiuti». La Regione ricorda che la tracciabilità dei rifiuti è richiesta anche dall’art. 118-bis del d.lgs. n. 150 del 2006 (recte: art. 188-bis del d.lgs. n. 152 del 2006).

Contrastando con la direttiva, la norma impugnata violerebbe gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., con ridondanza «sulle attribuzioni regionali in tema di tutela dell’ambiente che fanno sì che la Regione possa e debba prevedere livelli di tutela adeguati alle norme comunitarie, attraverso la propria legislazione e la propria attività amministrativa» (art. 117, secondo e terzo comma, Cost.).

In secondo luogo, la Regione lamenta la «violazione dell’art. 117, comma 2 e comma 3, perché [la norma impugnata] non consente di garantire i livelli ulteriori di tutela ambientale della Regione ai sensi dell’art. 3-quinquies comma 2 del d.lgs. n. 152/06, e inibisce la tracciabilità dei rifiuti».

La violazione della direttiva europea si rifletterebbe «sulle attribuzioni regionali in materia di ambiente che, pur se oggetto di legislazione esclusiva, vedono l’intervento regionale quale garante di livelli di tutela ulteriori, al fine di disciplinare nel modo migliore gli oggetti delle loro competenze (Corte cost. n. 61/2009303/2013 citate)». La norma impugnata impedirebbe «alla Regione l’esercizio di questa attività di garanzia ad ulteriore protezione dell’ambiente, liberalizzando un’attività che è potenzialmente dannosa per l’ambiente, se non contenuta in limiti, prescrizioni e controlli che solo l’autorizzazione può garantire» (viene citata la sentenza n. 149 del 2015), in conformità all’art. 23 della direttiva n. 2008/98/CE e agli artt. 3-quinquies, comma 2, e 208 del d.lgs. n. 152 del 2006 e con riferimento alle «condizioni specifiche dei siti e degli impianti».

Né potrebbe «porsi in dubbio che le operazioni di miscelazione rientrino nella categoria del trattamento rifiuti»: a tal proposito la ricorrente richiama le linee guida della Commissione europea per l’attuazione della direttiva n. 2008/98/CE e l’Allegato I della stessa direttiva.

Anche la violazione del principio della tracciabilità inibirebbe «la realizzazione delle funzioni di garanzia di elevati livelli di tutela ambientale, in termini di prevenzione e trasparenza». La sottrazione alle autorizzazioni di alcune operazioni di miscelazione comporterebbe «la pratica perdita delle tracce di una serie di rifiuti che, mescolati, danno origine ad un nuovo rifiuto».

In terzo luogo, la ricorrente denuncia la «violazione dell’art. 117, comma 3, in relazione alla potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute e sicurezza del lavoro».

La miscelazione, «priva di prescrizioni “impianto specifiche”», potrebbe comportare «rischi per la salute pubblica e la sicurezza dei lavoratori a causa di reazioni impreviste o emanazione di sostanze tossiche»: in tal senso la norma statale violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., che riconosce la potestà legislativa regionale concorrente nelle materie della «tutela della salute» e della «tutela e sicurezza del lavoro».

Nell’esercizio delle loro competenze, «intrecciate con la materia dell’ambiente», alle Regioni sarebbe «consentito legiferare – oltre che esercitare le proprie funzioni amministrative – purché in melius rispetto alla tutela ambientale» (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 407 del 2002 e n. 278, n. 116 e n. 106 del 2012).

La norma statale sarebbe dettagliata e impedirebbe alle autorità competenti di vietare la miscelazione dei rifiuti.

In quarto luogo, la Regione lamenta la «violazione dell’art. 118 Cost., in relazione alla lesione del principio di sussidiarietà nell’esercizio delle funzioni amministrative da parte delle Autorità competenti e per contrasto con l’ordinato svolgimento delle attribuzioni regionali».

La ricorrente rileva che «[l]e funzioni amministrative regionali, anche ai sensi dell’art. 208 del d.lgs. n. 152/06, ricomprendono le autorizzazioni allo smaltimento dei rifiuti» ed hanno come corollari «la possibilità di introdurre misure di tutela in melius e di graduare le prescrizioni in considerazione delle specificità degli impianti e dei siti». La norma impugnata violerebbe il primo e il secondo comma dell’art. 118 Cost., «dal momento che sottrae alle Regioni […] la stessa possibilità di emanare autorizzazioni per alcune operazioni di smaltimento rifiuti».

La Regione ricorda che con alcune delibere della Giunta regionale «ha inteso disciplinare le modalità autorizzative e gestionali dell’operazioni di miscelazione rifiuti, sia quella ricadente nell’ambito del comma 2 (miscelazione in deroga), sia quella non vietata». Tali delibere dovrebbero essere disapplicate dalle autorità competenti, in virtù della norma impugnata, con la conseguenza che «le operazioni di miscelazione rifiuti saranno effettuate da soggetti privi di autorizzazione e dunque in maniera indiscriminata, senza tracciabilità e senza controlli».

Il contrasto «con l’ordinato svolgimento delle funzioni amministrative regionali» sarebbe apprezzabile anche sotto il profilo dell’incertezza della situazione giuridica che si determina per la mancanza di autorizzazione regionale, in difformità sia dal diritto europeo che dall’art. 178 del d.lgs. n. 152 del 2006.

L’art. 49 della legge n. 221 del 2015 violerebbe anche il principio di leale collaborazione, «ostacolando l’esercizio delle potestà regionali e invadendone le competenze».

In quinto luogo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 97 Cost. L’incertezza nelle situazioni giuridiche causata dalla norma impugnata, che lascerebbe «all’iniziativa individuale di stabilire le modalità di smaltimento rifiuti», comporterebbe la violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., «sotto il profilo della certezza del diritto e della chiarezza normativa» (viene richiamata la sentenza n. 364 del 2010). La mancanza di chiarezza potrebbe «determinare un cattivo esercizio delle funzioni affidate alla cura della pubblica amministrazione».

3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio con atto depositato il 27 aprile 2016.

In esso osserva che la direttiva n. 2008/98/CE si occupa della miscelazione dei rifiuti nell’art. 18, che sarebbe stato recepito dall’art. 187, commi 1 e 2, del d.lgs n. 152 del 2006. L’impugnato comma 3-bis dello stesso art. 187 consentirebbe le miscelazioni non vietate ai sensi del comma 1, cioè quelle «tra rifiuti non pericolosi o tra rifiuti non pericolosi ed altri materiali o sostanze», che sarebbero «consentite a livello europeo», fatto salvo quanto previsto dall’art. 10, paragrafo 2, della direttiva (cui corrisponde l’art. 181, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006), in materia di raccolta differenziata a fini di recupero dei rifiuti.

La difesa statale osserva che «sulla base della vigente normativa comunitaria e nazionale la miscelazione costituisce attività di gestione dei rifiuti e deve essere disciplinata nell’ambito dell’autorizzazione all’esercizio dell’impianto»; essa è dunque soggetta «alle specifiche prescrizioni e condizioni riportate negli atti autorizzativi di cui agli artt. 208, 209 e 211» del d.lgs. n. 152 del 2006. La stessa norma impugnata chiarisce che intende escludere solo le limitazioni «“diverse o ulteriori” rispetto a quelle previste per legge», il che garantirebbe il rispetto della normativa europea e del codice dell’ambiente.

Inoltre, il principio di tracciabilità di cui all’art. 17 della direttiva si applicherebbe solo ai rifiuti pericolosi, ma in ambito nazionale avrebbe più ampia applicazione, date le procedure previste dagli artt. 189, 190 e 193 del codice dell’ambiente per i rifiuti non pericolosi.

Dunque, sarebbe infondata la censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Quanto alle altre censure, l’Avvocatura rileva che, secondo la giurisprudenza costituzionale (si cita la sentenza n. 61 del 2009), la materia dei rifiuti rientra in quella della «tutela dell’ambiente», di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. La legislazione regionale potrebbe «determinare una maggiore salvaguardia ambientale solo in via mediata ed attuativa, regolando oggetti che afferiscono alle materie di propria competenza, concorrente e residuale».

Il motivo basato sulla lesione del potere regionale di fissare livelli più elevati di tutela dell’ambiente sarebbe inammissibile per carenza di interesse a ricorrere, in quanto la Regione farebbe riferimento ad atti generali, recanti linee guida per le province lombarde, mentre la competenza regionale in tale materia dovrebbe esplicarsi attraverso atti legislativi.

Il legislatore statale avrebbe esercitato la propria competenza esclusiva, dettando comunque una norma che «non sembra avere innovato nulla in materia di autorizzazioni», avendo solo ribadito che le miscelazioni non vietate non possono essere sottoposte ad autorizzazioni.

La norma impugnata sarebbe volta «ad assicurare una tutela dell’ambiente omogenea su tutto il territorio nazionale, nonché a risolvere le questioni interpretative in materia sorte nel tempo» (si cita il documento della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome 22 novembre 2012, n. 12/165/CR8C/C5).

In particolare, l’impugnato art. 49 della legge n. 221 del 2015 avrebbe lo scopo di «eliminare ogni possibile profilo di gold plating, consistente […] nell’introduzione o nel mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee, con riferimento ai requisiti standard, oneri o obblighi a carico degli operatori, con i conseguenti riflessi di carattere finanziario, non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive medesime». Si tratterebbe dunque di una «misura di parziale liberalizzazione», riconducibile «alla materia della tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale.

Secondo l’Avvocatura, qualora accanto agli interessi ambientali ne vengano in rilievo altri, riguardanti settori diversi, gli standard di tutela ambientale vanno intesi anche come «principi fondamentali nella materia oggetto sulla quale si interviene», soprattutto quando tali standard «rappresentano il risultato del bilanciamento operato dal legislatore statale tra gli interessi di tutela ambientale e quelli del settore di volta in volta considerato». In tali casi, questi standard sono vincolanti per il legislatore regionale, «che non può modificarli né in melius né in pejus (Cfr C. Cost. 307/2003)».

La difesa statale poi ricorda che, a partire dal 2007, la Corte costituzionale ha considerato la tutela dell’ambiente non solo come un fine da perseguire “trasversalmente” alle materie regionali «ma a sua volta come una materia oggetto»: l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. varrebbe dunque come titolo di legittimazione nel settore della gestione dei rifiuti.

Anche la violazione dell’art. 118 Cost. sarebbe insussistente, perché un’attività non vietata non potrebbe essere sottoposta ad autorizzazione.

Infine, la difesa dello Stato nega la violazione dell’art. 97 Cost., in quanto la norma impugnata non ingenera confusione ma, al contrario, «ripristina un adeguato livello di certezza tra gli operatori del settore […] chiarendo una volta per tutte quali sono gli ambiti di attività subordinati al rilascio della preventiva autorizzazione».

4.– Sia l’Avvocatura dello Stato che la Regione Lombardia hanno depositato memorie integrative in data 28 febbraio 2017.

La difesa dello Stato solleva, in primo luogo, con riguardo alle questioni riferite agli artt. 11, 97 e 117, primo comma, Cost., un’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di motivazione sulla “ridondanza” della violazione sull’autonomia amministrativa regionale. La Regione non indicherebbe né le specifiche funzioni amministrative lese né il loro rango costituzionale, mancando nel ricorso la dimostrazione della necessaria titolarità regionale della funzione autorizzatoria, in base al principio di sussidiarietà.

In secondo luogo, l’Avvocatura nega l’esistenza di competenze legislative regionali che potrebbero essere «anche solo astrattamente» incise dalla norma impugnata. Secondo la difesa statale, le regioni non avrebbero competenza in materia ambientale, potendo dettare livelli di tutela più elevati solo nell’esercizio di proprie competenze relative ad altre materie. Inoltre, non sarebbe corretto invocare la materia «tutela e sicurezza del lavoro» perché essa atterrebbe «alla disciplina di istituti riferibili alla sfera delle politiche attive del lavoro». Infine, l’Avvocatura richiama un filone giurisprudenziale secondo il quale la tutela dell’ambiente sarebbe una «materia-oggetto», che può essere disciplinata in via esclusiva dal legislatore statale. La miscelazione dei rifiuti, «in quanto volta ad evitare “frodi” nella gestione degli stessi, tramite la diluizione di sostanze pericolose in sostanze meno pericolose», rientrerebbe appunto in tale materia.

Dal canto suo, la Regione Lombardia ribadisce che la norma impugnata “liberalizza” anche la miscelazione fra rifiuti aventi lo stesso indice di pericolosità e aggiunge che la mancanza di autorizzazione renderebbe non controllabili le operazioni di miscelazione anche ai fini degli adempimenti previsti «dagli artt. 189 (catasto dei rifiuti), 190 (registri di carico e scarico) e 193 (trasporto rifiuti)» del d.lgs. n. 152 del 2006.

Inoltre, la Regione nega che la norma impugnata sia riconducibile alla «tutela della concorrenza» e osserva che, comunque, essa «tutelerebbe la concorrenza a scapito dei livelli di protezione dell’ambiente ritenuti dalla stessa UE essenziali». La Regione afferma di non voler introdurre un livello di regolazione superiore agli standard europei ma auspica che la miscelazione dei rifiuti «venga trattata come qualsiasi altra operazione di trattamento rifiuti», in modo da «consentire all’Autorità competente di avere contezza delle operazioni che vengono effettuate negli impianti».

Considerato in diritto

1.– La Regione Lombardia ha impugnato l’art. 49 della legge 28 dicembre 2015, n. 221 (Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali). Tale disposizione aggiunge il comma 3-bis nell’art. 187 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale» (in prosieguo, anche: codice dell’ambiente). L’art. 187, comma 1, pone il divieto di «miscelare rifiuti pericolosi aventi differenti caratteristiche di pericolosità ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi»; il comma 2 dispone che, «[i]n deroga al comma 1, la miscelazione dei rifiuti pericolosi che non presentino la stessa caratteristica di pericolosità, tra loro o con altri rifiuti, sostanze o materiali, può essere autorizzata ai sensi degli articoli 208, 209 e 211 […]», a determinate condizioni di seguito elencate; il comma 3-bis, aggiunto con la disposizione impugnata, statuisce che «[l]e miscelazioni non vietate in base al presente articolo non sono sottoposte ad autorizzazione e, anche se effettuate da enti o imprese autorizzati ai sensi degli articoli 208, 209 e 211, non possono essere sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori rispetto a quelle previste per legge».

Avverso quest’ultima disposizione la Regione avanza cinque censure. In primo luogo, la ricorrente lamenta la violazione «degli articoli 11 e 117, comma 1, della Costituzione, in relazione alla Direttiva 2008/98/CE, e dell’art. 117, commi 2 e 3 della Costituzione». La norma statale sottrarrebbe all’autorizzazione «e alle prescrizioni ad essa connesse» la miscelazione di rifiuti con uguali caratteristiche di pericolosità e quella fra rifiuti non pericolosi, che invece sarebbe assoggettata ad autorizzazione dall’art. 23, paragrafo 1, della direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive. Infatti, la miscelazione dei rifiuti rientrerebbe nel genus del «trattamento» dei rifiuti e, in base all’art. 23, paragrafo 1, della citata direttiva, «[g]li Stati membri impongono a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente».

La norma impugnata contrasterebbe anche con l’art. 17 della direttiva, che sancisce il principio di tracciabilità dei rifiuti pericolosi. Consentendo «la miscelazione priva di autorizzazione e di controllo di rifiuti con uguale indice di pericolosità», l’impugnato art. 49 della legge n. 221 del 2015 ne inibirebbe la tracciabilità, «posto che l’operazione di miscelazione termina con l’unione di diversi rifiuti».

In secondo luogo, la Regione lamenta la «violazione dell’art. 117, comma 2 e comma 3, perché [la norma impugnata] non consente di garantire i livelli ulteriori di tutela ambientale della Regione ai sensi dell’art. 3-quinquies comma 2 del d.lgs. n. 152/06, e inibisce la tracciabilità dei rifiuti». L’art. 49 della legge n. 221 del 2015 impedirebbe alle regioni di fissare livelli di tutela ulteriori, «al fine di disciplinare nel modo migliore gli oggetti delle loro competenze», liberalizzando un’attività potenzialmente dannosa per l’ambiente, «se non contenuta in limiti, prescrizioni e controlli che solo l’autorizzazione può garantire», con riferimento alle «condizioni specifiche dei siti e degli impianti».

In terzo luogo, la ricorrente denuncia la «violazione dell’art. 117, comma 3, in relazione alla potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute e sicurezza del lavoro». La miscelazione, «priva di prescrizioni “impianto specifiche”», potrebbe comportare «rischi per la salute pubblica e la sicurezza dei lavoratori a causa di reazioni impreviste o emanazione di sostanze tossiche». Nell’esercizio delle loro competenze, «intrecciate con la materia dell’ambiente», alle regioni sarebbe «consentito legiferare – oltre che esercitare le proprie funzioni amministrative – purché in melius rispetto alla tutela ambientale». La norma statale sarebbe dettagliata e impedirebbe alle autorità competenti di vietare la miscelazione dei rifiuti.

In quarto luogo, la Regione lamenta la «violazione dell’art. 118 Cost., in relazione alla lesione del principio di sussidiarietà nell’esercizio delle funzioni amministrative da parte delle Autorità competenti e per contrasto con l’ordinato svolgimento delle attribuzioni regionali». La norma impugnata violerebbe il primo e il secondo comma dell’art. 118 Cost., «dal momento che sottrae alle Regioni […] la stessa possibilità di emanare autorizzazioni per alcune operazioni di smaltimento rifiuti».

In quinto luogo, la Regione lamenta la violazione dell’art. 97 Cost. L’incertezza nelle situazioni giuridiche causata dalla norma impugnata, che lascerebbe «all’iniziativa individuale di stabilire le modalità di smaltimento rifiuti», comporterebbe la violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, «sotto il profilo della certezza del diritto e della chiarezza normativa».

2.– L’esame della prima questione richiede di affrontare, innanzi tutto, l’eccezione di inammissibilità sollevata dal resistente nella memoria integrativa. La difesa statale afferma che la questione relativa all’art. 117, primo comma, Cost. è inammissibile per insufficiente motivazione sulla ridondanza del vizio sulle competenze costituzionali della Regione.

L’eccezione è infondata. La Regione argomenta specificamente l’incidenza della norma impugnata sulle proprie competenze costituzionali, affermando, da un lato, che essa comprime il suo potere di fissare livelli di tutela ambientale più elevati di quelli statali, nell’esercizio delle competenze regionali in materia di «tutela della salute» e «tutela e sicurezza del lavoro», e impedisce il pieno esercizio di esse (art. 117, terzo comma, Cost.); dall’altro lato, che l’art. 49 della legge n. 221 del 2015 lede le funzioni amministrative regionali (art. 118 Cost.), escludendo la possibilità per le regioni di sottoporre ad autorizzazione alcune operazioni di smaltimento di rifiuti. Del resto, come detto, il ricorso non lamenta solo la violazione dei parametri esterni al Titolo V, ma anche, in tre distinti punti, la violazione degli artt. 117 e 118 Cost., e le argomentazioni svolte in tali motivi si aggiungono a quelle specificamente dedicate alla ridondanza al fine di illustrare l’incidenza della norma impugnata sulle competenze costituzionali della Regione. Infatti, nel secondo e quarto motivo la Regione indica la funzione amministrativa che ne sarebbe pregiudicata e la norma che la prevede (art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006) e afferma la sua derivazione dal principio di sussidiarietà.

Quanto all’affermazione della «totale insussistenza di una competenza legislativa regionale anche solo astrattamente incisa dalla disciplina in esame», si può osservare che, anche a prescindere dalla sufficienza della prospettazione ai fini dell’ammissibilità della questione (in generale, sentenze n. 64 del 2012 e n. 298 del 2009; con riferimento alla ridondanza, sentenze n. 287 del 2016 e n. 220 del 2013), il nesso fra la disciplina dei rifiuti e la tutela della salute è evidente, come si vedrà nel punto seguente. La difesa dello Stato evoca inoltre la competenza esclusiva dello Stato per la disciplina della miscelazione dei rifiuti evidenziando che essa ha finalità di «tutela dell’ambiente», in quanto «volta ad evitare “frodi” nella gestione degli stessi, tramite la diluizione di sostanze pericolose in sostanze meno pericolose», ma non considera che la norma impugnata sfugge a quella ratio, avendo lo scopo di eliminare i controlli per determinate miscelazioni di rifiuti.

In conclusione, poiché la Regione argomenta la ripercussione della norma impugnata su proprie specifiche competenze legislative e amministrative di rango costituzionale, la motivazione sulla ridondanza risulta sufficiente.

3.– Nel merito, la prima questione è fondata.

L’art. 23 della citata direttiva n. 2008/98/CE dispone quanto segue: «[g]li Stati membri impongono a qualsiasi ente o impresa che intende effettuare il trattamento dei rifiuti di ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente. Tali autorizzazioni precisano almeno quanto segue: a) i tipi e i quantitativi di rifiuti che possono essere trattati; b) per ciascun tipo di operazione autorizzata, i requisiti tecnici e di altro tipo applicabili al sito interessato; c) le misure precauzionali e di sicurezza da prendere; d) il metodo da utilizzare per ciascun tipo di operazione; e) le operazioni di monitoraggio e di controllo che si rivelano necessarie; f) le disposizioni relative alla chiusura e agli interventi ad essa successivi che si rivelano necessarie».

In base all’art. 3, numero 14), della direttiva, per «trattamento» si intendono le «operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento». L’art. 3, numero 15), definisce il concetto di «recupero» e rinvia all’elenco di cui all’Allegato II. L’art. 3, numero 19), a sua volta, definisce il concetto di «smaltimento» e rinvia all’elenco di cui all’Allegato I della direttiva. Questo comprende fra le «Operazioni di smaltimento», al punto D13, il «Blending or mixing prior to submission to any of the operations numbered D1 to D12», tradotto nella versione italiana come «Raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni indicate da D1 a D12». L’Allegato II comprende fra le «Operazioni di recupero», al punto R12, una voce analoga, alla quale può essere ricondotta la miscelazione dei rifiuti.

Dalle Linee guida sull’interpretazione della direttiva n. 2008/98/CE risulta che «[l]a miscelazione dei rifiuti è una pratica comune nell’UE ed è riconosciuta come operazione di trattamento dagli Allegati I e II della Direttiva quadro sui rifiuti» (punto 5.1).

Il fatto che la miscelazione dei rifiuti rientri nel concetto di «trattamento» è confermato anche da due fonti interne: da un lato, l’art. 2, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36 (Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti), definisce come «trattamento» «i processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza»; dall’altro lato, l’Allegato VIII, punto 5.1, alla parte seconda del d. lgs. n. 152 del 2006 (richiamato dall’art. 6, comma 13, dello stesso codice dell’ambiente) comprende (alla lettera c) fra le operazioni di smaltimento o recupero il «dosaggio o miscelatura prima di una delle altre attività» di smaltimento o recupero.

In base alla direttiva n. 2008/98/CE, dunque, esistono miscelazioni vietate (art. 18, paragrafo 1), ma autorizzabili in deroga (art. 18, paragrafo 2), e miscelazioni non vietate (non in deroga), ma comunque soggette ad autorizzazione in quanto rientranti tra le operazioni di trattamento dei rifiuti (art. 23). Nel suo atto di costituzione, la stessa Avvocatura generale dello Stato osserva che «sulla base della vigente normativa comunitaria […] la miscelazione costituisce attività di gestione dei rifiuti e deve essere disciplinata nell’ambito dell’autorizzazione all’esercizio dell’impianto».

Prima dell’entrata in vigore della disposizione impugnata, il diritto interno era conforme alla normativa europea (si vedano gli artt. 187 e 208 del d.lgs. n. 152 del 2006). L’art. 49 della legge n. 221 del 2015, invece, liberalizzando le miscelazioni non vietate dall’art. 187, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, cioè sottraendo ad autorizzazione la miscelazione di rifiuti pericolosi aventi le stesse caratteristiche di pericolosità (elencate nell’Allegato I alla Parte IV del codice dell’ambiente) e quella fra rifiuti non pericolosi, si pone in contrasto con l’art. 23, paragrafo 1, della direttiva.

D’altro canto è escluso che il fondamento della disposizione impugnata si possa rinvenire nell’art. 24 della direttiva, in base al quale «[g]li Stati membri possono dispensare dall’obbligo di cui all’articolo 23, paragrafo 1, gli enti o le imprese che effettuano le seguenti operazioni: a) smaltimento dei propri rifiuti non pericolosi nei luoghi di produzione; o b) recupero dei rifiuti». Le deroghe previste dall’art. 24 sono soggette invero a una disciplina ben precisa (si vedano gli artt. 25 e 26 della direttiva e gli artt. 214, 215 e 216 del codice dell’ambiente), né l’art. 49 della legge n. 221 del 2015 intende creare una “procedura semplificata” ai sensi degli artt. 24, 25 e 26 della direttiva, ma semplicemente elimina la procedura autorizzatoria esistente.

Nel caso di specie la violazione dell’art. 23 della citata direttiva si traduce in una lesione indiretta delle competenze costituzionali regionali. Il collegamento fra la disciplina ambientale, e in particolare quella dei rifiuti, e la tutela della salute è pacifico, risultando dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 58 del 2015, n. 244 del 2012, n. 373 del 2010, n. 249, n. 225 e n. 61 del 2009, n. 62 del 2008), dalla direttiva 2008/98/CE (si vedano il preambolo e, in particolare, gli artt. 1, 12, 13 e 17) e dal codice dell’ambiente (si vedano, in particolare, gli artt. 177, 179, 182-bis, 191 e 208, comma 1). Tale collegamento è stato affermato anche con specifico riferimento alla miscelazione dei rifiuti, come risulta dal punto 43 del preambolo e dall’art. 18, paragrafo 2, lettera b), della direttiva n. 2008/98/CE, nonché dall’art. 187, comma 2, del codice dell’ambiente. Si deve concludere dunque che la norma statale impugnata è idonea a condizionare la competenza legislativa regionale in materia di tutela della salute e in concreto, per quanto riguarda segnatamente il caso in esame, rende parzialmente inapplicabile la disciplina adottata dalla Regione Lombardia al fine di regolare le miscelazioni dei rifiuti, ossia il decreto della Giunta regionale 6 giugno 2012, n. 3596, e il decreto del Dirigente della Struttura autorizzazioni e innovazione in materia di rifiuti 4 marzo 2014, n. 1795.

A ciò si aggiunga che alla funzione autorizzatoria delle regioni in materia di trattamento dei rifiuti, il cui esercizio risulta ora escluso dalla norma impugnata per certe fattispecie, deve riconoscersi rango costituzionale, giacché l’art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce alle regioni tale funzione, applica il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, primo comma, Cost., specificamente ribadito per la materia ambientale dall’art. 3-quinquies, comma 3, del codice dell’ambiente. La violazione della direttiva determina, dunque, anche la lesione indiretta dell’autonomia amministrativa costituzionalmente garantita alla Regione.

Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 49 della legge n. 221 del 2015, per violazione degli artt. 117, primo e terzo comma, e 118, primo comma, Cost.

4.– L’accoglimento della prima questione promossa nel ricorso, sotto il profilo della violazione dell’art. 23 della direttiva n. 2008/98/CE, consente l’assorbimento delle altre questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 49 della legge 28 dicembre 2015, n. 221 (Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2017.