ORDINANZA N. 156
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZAnei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 13, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), e di seguito modificato dall’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare), promossi dal Tribunale di Trieste con ordinanze del 20 settembre e del 21 dicembre 2007, iscritte, rispettivamente, al n. 126 ed ai nn. da 236 a 239 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 35, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 aprile 2009 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto che il Tribunale di Trieste in composizione monocratica, con cinque ordinanze di analogo tenore, emesse il 20 settembre 2007 (r.o. n. 126 del 2008) e il 21 dicembre 2007 (r.o. numeri 236, 237, 238 e 239 del 2008), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 13, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), e di seguito modificato dall’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare), nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per lo straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell’interno;
che il rimettente procede, nei giudizi a quibus, in ordine a fatti di indebito rientro, contestati a norma dell’art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286 del 1998, ed è chiamato a valutare, nell’ambito di tre dei giudizi indicati, altrettante richieste congiunte di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale (r.o. numeri 126, 237 e 238 del 2008);
che il giudice a quo dubita che i limiti edittali della sanzione prevista per la condotta in esame, entro i quali dovrebbero collocarsi le pene nel caso tanto di condanna degli imputati, quanto di applicazione della pena concordata dalle parti, siano sproporzionati, per eccesso, rispetto al disvalore del fatto;
che il rimettente riferisce di come la stessa questione sia stata già sollevata in ciascuno dei giudizi a quibus e definita con le ordinanze numeri 385 e 226 del 2007 della Corte costituzionale, di restituzione degli atti per una nuova valutazione della rilevanza alla luce della modifica introdotta dall’art. 2, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 5 del 2007, per effetto della quale la condotta in contestazione ha cessato di essere penalmente rilevante in presenza di autorizzazione al ricongiungimento familiare, ai sensi dell’art. 29 del medesimo d.lgs. n. 286 del 1998;
che, all’esito di un nuovo esame degli atti, non risultando che in Italia si trovino familiari degli imputati, né che i predetti abbiano formulato richieste di ricongiungimento, il Tribunale di Trieste conclude nel senso della perdurante rilevanza della questione in ciascuno dei giudizi principali;
che, nell’argomentare sulla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ripercorre l’evoluzione della normativa in tema di indebito rientro dello straniero già espulso, a partire dall’art. 151 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), che puniva tale condotta con l’arresto da due a sei mesi, fino alla previsione contenuta nell’art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286 del 1998, la quale, nella formulazione originaria, confermava la sanzione dell’arresto, in seguito aumentata, da sei mesi ad un anno, dall’art. 12, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica della normativa in materia di immigrazione e di asilo);
che il descritto quadro normativo ha subito un significativo mutamento con l’intervento legislativo attuato mediante la legge n. 271 del 2004, di conversione del decreto-legge n. 241 del 2004, per effetto del quale la condotta di indebito rientro ha assunto natura di delitto, punibile con la reclusione da uno a quattro anni, in termini sostanzialmente analoghi a quanto avvenuto per la fattispecie di indebito trattenimento, prevista dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che il rimettente evidenzia come le ragioni di tale inasprimento delle sanzioni risiedano, secondo quanto risulta dai lavori parlamentari, anche nella necessità di «ovviare alla pronuncia della sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2004», nel senso di rendere nuovamente possibile l’arresto obbligatorio dell’autore del reato di indebito trattenimento, così come del responsabile di un illecito reingresso nel territorio dello Stato, attraverso la previsione di valori edittali di pena compatibili con l’applicazione di misure coercitive, a norma del comma 2 dell’art. 280 cod. proc. pen.;
che il giudice a quo richiama numerosi precedenti della giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 84 del 1997, n. 25 del 1994, n. 333 del 1992, ordinanza n. 220 del 1996) che sanciscono il principio secondo cui la discrezionalità legislativa deve essere esercitata secondo criteri di ragionevolezza, ciò che, sul piano delle scelte concernenti l’incriminazione di determinate condotte, implica la necessità di una proporzione tra le previsioni sanzionatorie e l’offensività delle condotte medesime;
che, in particolare, il rimettente si sofferma sulla sentenza n. 409 del 1989, nella quale si trova affermato che la tutela dei beni e dei valori protetti dalle fattispecie incriminatrici non può essere attuata provocando all’individuo aggressore ed ai suoi diritti fondamentali danni «sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti o da ottenere»;
che la disciplina in esame, come riformulata dalla legge n. 271 del 2004, risulterebbe viziata proprio sotto il profilo della mancanza di proporzione tra offensività e sanzione, il cui significativo inasprimento (l’odierno minimo edittale corrisponde al precedente massimo) non troverebbe giustificazione sostanziale;
che il venir meno della corrispondenza tra il disvalore del fatto previsto dall’art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286 del 1998 e l’entità della pena irrogabile risulterebbe di tutta evidenza, a parere del rimettente, ove si consideri che la norma censurata prevede sanzioni identiche a quelle comminate dalla prima parte del comma 13-bis dello stesso art. 13, sebbene quest’ultima disposizione riguardi l’indebito reingresso del cittadino straniero già raggiunto da provvedimento giudiziale di espulsione, vale a dire di un soggetto nei confronti del quale sia stato quanto meno aperto un procedimento penale;
che, in definitiva, la «nuova» commisurazione della sanzione, in quanto determinata al solo fine di introdurre per il reato in esame un più severo trattamento processuale (con la previsione dell’arresto obbligatorio), sarebbe frutto di «un vero e proprio rovesciamento di prospettiva», e come tale risulterebbe del tutto disancorata dagli ordinari parametri di riferimento;
che, secondo il rimettente, la eccessiva severità del trattamento sanzionatorio in questione pregiudicherebbe non solo il valore costituzionale dell’eguaglianza, ma anche la capacità effettiva della pena di svolgere la funzione rieducativa nei confronti del condannato (sono richiamate le sentenze n. 341 del 1994 e n. 313 del 1990);
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in ciascuno dei cinque giudizi indicati, con atti di identico tenore, concludendo per la manifesta infondatezza della questione;
che la difesa erariale evidenzia, in primo luogo, la natura ampiamente discrezionale dell’autorizzazione ministeriale al rientro nel territorio dello Stato del cittadino straniero già espulso, posto che, come affermato anche dalla Corte costituzionale (è richiamata la sentenza n. 353 del 1997), lo Stato non può abdicare al compito di presidiare le proprie frontiere;
che anche l’inasprimento della pena per la fattispecie di indebito rientro, unitamente alla modifica della natura del reato da contravvenzione a delitto, si inserisce nel più ampio quadro delle scelte di politica criminale finalizzate, nel particolare momento storico-sociale, a difendere il territorio;
che, così contestualizzato, l’intervento legislativo del 2004 sarebbe frutto di un esercizio non irragionevole della discrezionalità e si sottrarrebbe alla censura prospettata in riferimento all’art. 3 Cost.;
che, d’altra parte, come più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale, la legislazione tiene conto non soltanto della struttura e dell’astratta pericolosità delle condotte regolate, ma anche della concreta esperienza nella quale quelle condotte si inseriscono e delle variazioni che il relativo impatto sociale manifesta nel corso del tempo (sono richiamate, in particolare, le sentenze n. 333 del 1991 e n. 171 del 1986);
che in particolare, avuto riguardo alla norma censurata, la difesa erariale esclude che la previsione di una pena edittale minima analoga a quella stabilita per il delitto di cui all’art. 13, comma 13-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, possa considerarsi irragionevole, posto che, tanto nel caso di espulsione amministrativa quanto in quello di espulsione giudiziale, la condotta di indebito rientro pregiudica l’interesse dello Stato al controllo dei flussi migratori;
che, inoltre, il legislatore del 2004 avrebbe opportunamente modulato il proprio intervento, lasciando immutata la natura contravvenzionale delle fattispecie meno gravi (come quella dell’indebito trattenimento dopo l’espulsione disposta per mancata richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno);
che, infine, non sussisterebbe la denunciata violazione del terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto la finalità rieducativa della pena, anche sotto lo specifico profilo della proporzionalità, potrebbe essere assicurata dal giudice della cognizione attraverso una congrua scelta di quantificazione nell’ambito dei limiti edittali.
Considerato che il Tribunale di Trieste, in composizione monocratica, solleva – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 13, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), e di seguito modificato dall’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare), nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per lo straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell’interno;
che il rimettente, dopo aver ricordato come la sanzione originariamente prevista per il reato di indebito rientro consistesse nell’arresto da sei mesi ad un anno, e come, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 271 del 2004, la medesima condotta sia oggi punita con la reclusione da uno a quattro anni, assume che l’inasprimento sarebbe stato attuato per finalità di carattere processuale (la legittimazione dell’arresto obbligatorio, reintrodotto con la legge citata), senza alcuna sostanziale modifica del fenomeno criminoso sottostante, e dunque in violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della pena;
che in particolare, al fine di evidenziare la ritenuta sproporzione per eccesso tra pena e fatto, il giudice a quo istituisce un raffronto tra la previsione censurata e la fattispecie prevista dal medesimo art. 13, al comma 13-bis, che punisce con identica sanzione l’indebito rientro del cittadino straniero espulso con provvedimento giudiziale, cioè un comportamento dotato di maggior disvalore, in quanto compiuto da soggetto che ha commesso un reato durante la permanenza in Italia, ovvero nei confronti del quale pende un procedimento penale;
che le ordinanze di rimessione prospettano anche un contrasto tra la norma censurata e l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la relativa previsione sanzionatoria, essendo priva di proporzionalità rispetto al fatto incriminato, non potrebbe assolvere alla necessaria funzione rieducativa della pena;
che, preliminarmente, può essere disposta la riunione dei giudizi, posto che tutte le questioni sollevate riguardano il trattamento sanzionatorio del reato di indebito rientro, previsto dall’art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella più severa versione introdotta mediante la legge n. 271 del 2004, di conversione del decreto-legge n. 241 del 2004;
che questa Corte, nella sentenza n. 22 del 2007, ha già esaminato gli effetti delle modifiche introdotte dal legislatore del 2004, con specifico riferimento al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di indebito trattenimento, di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, anche in comparazione con quello previsto per altri reati collegati all’immigrazione clandestina;
che, nell’occasione, la Corte non ha mancato di rilevare, tra l’altro, l’intervenuta parificazione della pena per fattispecie che presentano differenti livelli di offensività, e più in generale la presenza di «squilibri, sproporzioni ed anomalie» nel sistema sanzionatorio delineato dal legislatore del 2004;
che tuttavia, nello stesso contesto, la Corte ha ribadito i limiti del sindacato di costituzionalità ed affermato che esso «[…] può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio»;
che al contrario, ove non si riscontri una sostanziale identità tra le fattispecie prese a raffronto e si rilevi invece, come asseritamente avviene nel caso in esame, una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento di questa Corte non potrebbe rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore;
che, anche con riferimento al prospettato difetto di proporzionalità rispetto al disvalore del fatto, e quindi alla irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio previsto dalla norma censurata, va ribadito come il giudizio di legittimità costituzionale, in assenza di precisi punti di riferimento che conducano a soluzioni costituzionalmente obbligate, non possa dar vita ad un nuovo assetto delle sanzioni penali stabilite dal legislatore;
che del pari va riconosciuta, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, la inammissibilità della questione prospettata in riferimento all’art. 27, comma terzo, Cost., giacché, come rilevato nella sentenza più volte citata, «ogni possibile conclusione cui questa Corte potrebbe arrivare incontrerebbe il medesimo ostacolo già segnalato con riferimento ai profili presi in considerazione».
Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALEriuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 13, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), e di seguito modificato dall’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare), nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per lo straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell’interno, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trieste con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 maggio 2009.