ORDINANZA N. 103
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), promosso dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di T.C. con ordinanza del 24 maggio 2007, iscritta al n. 790 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Udito nella camera di consiglio del 25 febbraio 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), nella parte in cui non stabilisce che l’indulto concesso dalla medesima legge non si applica al delitto previsto dall’art. 648-ter del codice penale (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita), limitatamente all’ipotesi in cui «l’impiego in attività economiche o finanziarie riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope»;
che il rimettente riferisce di essere investito, quale giudice dell’esecuzione, dell’istanza di applicazione dell’indulto presentata dal difensore di una persona condannata, con sentenza irrevocabile, alla pena di cinque anni di reclusione ed euro diecimila di multa per il delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen.;
che, secondo le inequivoche indicazioni contenute nella motivazione della sentenza di condanna, il fatto criminoso – commesso fino al 1994 – era consistito nell’investimento nel capitale di due società a responsabilità limitata di denaro proveniente dall’attività di traffico di stupefacenti posta in essere, anche a livello internazionale, da una vasta e articolata organizzazione criminale, avente tale scopo;
che, ciò premesso, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge n. 241 del 2006, nella parte in cui non esclude dall’indulto il delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen., allorché la condotta criminosa concerna – come nella specie – proventi della produzione o del traffico di sostanze stupefacenti;
che il rimettente osserva come – alla luce della giurisprudenza costituzionale – l’inclusione o l’esclusione di determinati reati dall’ambito applicativo di provvedimenti di clemenza sia rimessa al legislatore, le cui valutazioni si sottraggono al sindacato di costituzionalità, salvo che ricorrano casi in cui la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione: ottica nella quale verrebbe in particolare rilievo l’identità dell’oggetto della tutela;
che, nella specie, l’art. 1, comma 2, lettera a), numero 26), della legge n. 241 del 2006 indica, tra i casi tassativi di inapplicabilità dell’indulto, quello in cui la pena sia stata inflitta per il delitto di cui all’art. 648-bis cod. pen. (riciclaggio), «limitatamente all’ipotesi che la sostituzione riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti dal delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione o dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope»;
che, ad avviso del giudice a quo, non vi sarebbe peraltro ragione per trattare diversamente la pena inflitta, nelle medesime ipotesi, per il delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen.: essendosi di fronte a fattispecie criminose caratterizzate dal medesimo scopo («ostacolare la separazione dei proventi del reato dall’azione criminosa», agevolandone così la prova e rendendone inservibili i risultati) e dalla stessa oggettività giuridica («la tutela dell’economia pubblica, della trasparenza del mercato, della concorrenza»);
che, sul versante della condotta, d’altro canto, il delitto di impiego in attività economiche e finanziarie dei proventi di delitto si porrebbe come «momento ultimo» di una azione di contrasto svolta in stadi successivi, ma collegati tanto sul piano fattuale che su quello giuridico;
che, in tale direzione, sarebbe significativa – più ancora che la «successione sistematica» degli artt. 648, 648-bis e 648-ter cod. pen. – la «clausola di specialità» con cui le tre norme incriminatrici esordiscono: clausola a fronte della quale il ricettatore è punito solo se non ha concorso nel reato presupposto, il riciclatore solo se non ha concorso o ricettato, l’investitore di capitali solo se non ha concorso, ricettato o riciclato;
che le condotte considerate risulterebbero, dunque, talmente «contigue» da rendere necessaria una apposita «clausola di consunzione», per evitare che il reo sia punito più volte per una attività che, qualora comprenda più d’una fra le predette condotte, il legislatore considera unitariamente;
che tanto la fattispecie criminosa di cui all’art. 648-bis cod. pen. che quella delineata dall’articolo successivo sarebbero inoltre contraddistinte, quanto all’elemento psicologico, da un dolo generico che presenta un medesimo profilo «critico» nell’applicazione concreta: quello, cioè, della dimostrazione della consapevolezza, da parte del soggetto attivo, della provenienza delittuosa del bene riciclato o investito;
che l’evidenziata «equipollenza» dei due delitti troverebbe puntuale riscontro nell’identità del trattamento sanzionatorio, attestato su livelli di notevole asprezza (reclusione da quattro a dodici anni e multa da euro 1.032 ad euro 15.493);
che, anche sotto l’aspetto processuale e del trattamento in fase esecutiva delle pene per essi inflitte, i due reati risultano soggetti al medesimo regime;
che neppure, infine, sarebbe possibile rinvenire una qualche ragione che giustifichi la discriminazione delle due figure criminose con specifico riferimento all’indulto;
che la scelta di escludere dal provvedimento di clemenza il delitto di riciclaggio, quando abbia ad oggetto proventi del traffico di stupefacenti, risulterebbe sorretta, infatti, da un solido fondamento politico-criminale: il legislatore avrebbe ritenuto, cioè – come per altri delitti in materia di stupefacenti – che, per l’entità e il tipo di danno criminale recato dai reati in questione, le finalità di prevenzione generale e speciale della pena non possano “affievolirsi” per le ragioni sottese al provvedimento di clemenza, legate soprattutto alle condizioni di vita dei detenuti e alla gestione delle carceri;
che, in tale prospettiva, apparirebbe peraltro del tutto illogico che venga ammesso all’indulto il delitto di investimento in attività economiche e finanziarie dei proventi della medesima attività criminosa;
che, sotto i profili evidenziati, la disposizione censurata si porrebbe dunque in contrasto tanto con l’art. 3 Cost., che «impone di trattare in modo identico situazioni identiche rispetto alla disciplina di riferimento», quanto con l’art. 27, terzo comma, Cost., che impone di salvaguardare la finalità di prevenzione generale e speciale della pena.
Considerato che, con la questione di costituzionalità sollevata, il Tribunale di Milano invoca una pronuncia additiva, la quale inserisca nell’elenco delle esclusioni oggettive dall’indulto concesso dalla legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto) una ulteriore fattispecie criminosa (quella di cui all’art. 648-ter del codice penale, ove concernente proventi della produzione o del traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope): pronuncia che avrebbe, quindi, l’effetto di sottrarre i condannati per tale reato – quale l’istante nel giudizio a quo – alla fruizione del beneficio, modificandone in senso deteriore il trattamento;
che all’adozione di una simile pronuncia osta, tuttavia, l’art. 25, secondo comma, della Costituzione, che nell’enunciare il principio della riserva di legge in materia penale, impedisce alla Corte non soltanto di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, ma anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (ex plurimis, con riferimento alle cause di estinzione del reato, sentenze n. 324 e n. 65 del 2008, n. 317 del 2000; e della pena, ordinanza n. 297 del 1997): e ciò fatta eccezione per l’ipotesi – che non ricorre tuttavia nella specie – in cui il sindacato verta sulle cosiddette norme penali di favore (sentenza n. 394 del 2006, ordinanza n. 164 del 2007);
che, a tal riguardo, è in effetti ben vero che l’indulto rappresenta una causa di estinzione della pena con caratteristiche peculiari, trattandosi di provvedimento di clemenza che, in deroga alla disciplina generale, sottrae eccezionalmente gli autori di fatti previsti dalla legge come reato all’applicazione, in tutto o in parte, delle sanzioni per essi stabilite;
che l’indulto del 2006 è stato varato, in particolare – secondo quanto emerge dai lavori parlamentari – al fine di far fronte ad una situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari divenuta, per vari fattori, insostenibile e reputata dal legislatore non superabile, nell’immediato, con interventi alternativi: situazione che – come pure si legge nei lavori parlamentari – rischiava di rendere lo Stato inadempiente nell’attuazione dei principi costituzionali attinenti all’esecuzione della pena, quali, in specie, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e la finalità rieducativa (art. 27, terzo comma, Cost.);
che, in tale ottica, la legge n. 241 del 2006 ha quindi concesso un indulto di ampia portata, sia in rapporto alla misura della pena condonata (tre anni per le pene detentive e diecimila euro per quelle pecuniarie) che all’area di applicazione, la quale abbraccia tutti i reati commessi sino al 2 maggio 2006, senza che neppure operino le limitazioni soggettive previste dall’art. 151, ultimo comma, cod. pen.;
che, pertanto, rispetto ai fatti criminosi commessi fino alla data dianzi indicata, la condonabilità della pena, entro i limiti stabiliti dal provvedimento del clemenza, è venuta comunque ad assumere la valenza di una regola generale: regola rispetto alla quale le esclusioni oggettive previste dall’art. 1, comma 2, della legge n. 241 del 2006 – e, fra esse, quella espressa al numero 26), relativa al riciclaggio, di cui il rimettente vorrebbe ampliare la portata – si atteggiano come eccezioni;
che resta dunque confermata l’impraticabilità dell’intervento additivo richiesto dal giudice a quo;
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 aprile 2009.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 2 aprile 2009.