SENTENZA N. 26
ANNO 2004
Commento alla decisione di
Annamaria Poggi, La Corte torna sui beni culturali
(per gentile concessione della Rivista telematica Federalismi.it)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA “
- Carlo MEZZANOTTE “
- Fernanda CONTRI “
- Guido NEPPI MODONA “
- Piero Alberto CAPOTOSTI “
- Annibale MARINI “
- Franco BILE “
- Giovanni Maria FLICK “
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Alfio FINOCCHIARO “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -legge finanziaria 2002), promossi con ricorsi delle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria, notificati il 22, il 27 e il 26 febbraio 2002, depositati in cancelleria il 28 febbraio, il 1° e l’8 marzo successivi ed iscritti ai nn. 10, 12, 23 e 24 del registro ricorsi 2002.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 17 giugno 2003 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;
uditi gli avvocati Stefano Grassi per la Regione Marche, Fabio Lorenzoni per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per le Regioni Emilia-Romagna e Umbria e l’avvocato dello Stato Paolo Cosentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. — Le Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna ed Umbria, con ricorsi notificati il 22, il 26 ed il 27 febbraio 2002, depositati il 28 febbraio, il 1°, il 6 e l’8 marzo 2002, hanno impugnato numerose norme della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -legge finanziaria 2002) e, per quanto qui interessa, hanno denunciato l’art. 33, in riferimento agli artt. 117, terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione [Regione Marche]; all’art. 117 [Regione Toscana]; agli artt. 117, commi secondo, terzo, quarto e sesto, 118, comma primo, 119 della Costituzione, ai «principi costituzionali attinenti al rapporto tra Stato e Regioni» ed al principio di ragionevolezza» [Regione Emilia-Romagna]; agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione [Regione Umbria].
2. — La norma impugnata ha aggiunto al comma 1 dell’art. 10 del d.lgs. 20 ottobre 1998, n. 368 (Istituzione del Ministero per i beni e le attività culturali, a norma dell'articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n. 59) la lettera b-bis). L’art. 10, cit., –rubricato «Accordi e forme associative»– al comma 1 dispone che il Ministero, ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, può «a) stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati; b) costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società secondo modalità e criteri definiti con regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1998, n. 400».
La lettera b-bis), introdotta dalla norma impugnata, nel testo censurato, stabilisce che il Ministero può «dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico come definiti dall'articolo 152, comma 3, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, secondo modalità, criteri e garanzie definiti con regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Il suddetto regolamento dovrà stabilire, tra l'altro: le procedure di affidamento dei servizi, che dovranno avvenire mediante licitazione privata, con i criteri concorrenti dell'offerta economica più vantaggiosa e della proposta di offerta di servizi qualitativamente più favorevole dal punto di vista della crescita culturale degli utenti e della tutela e valorizzazione dei beni, e comunque nel rispetto della normativa nazionale ed europea; i rispettivi compiti dello Stato e dei concessionari riguardo alle questioni relative ai restauri e all'ordinaria manutenzione dei beni oggetto del servizio, ferma restando la riserva statale sulla tutela dei beni; i criteri, le regole e le garanzie per il reclutamento del personale, le professionalità necessarie rispetto ai diversi compiti, i livelli retributivi minimi per il personale, a prescindere dal contratto di impiego; i parametri di offerta al pubblico e di gestione dei siti culturali. Tali parametri dovranno attenersi ai princìpi stabiliti all'articolo 2, comma 1, dello Statuto dell'International Council of Museums. Con lo stesso regolamento sono fissati i meccanismi per la determinazione della durata della concessione per un periodo non inferiore a cinque anni e del canone complessivo da corrispondere allo Stato per tutta la durata stabilita, da versare anticipatamente all'atto della stipulazione della relativa convenzione nella misura di almeno il 50 per cento; la stessa convenzione deve prevedere che, all'atto della cessazione per qualsiasi causa della concessione, i beni culturali conferiti in gestione dal Ministero ritornino nella disponibilità di quest'ultimo. La presentazione, da parte dei soggetti concorrenti, di progetti di gestione e valorizzazione complessi e plurimi che includano accanto a beni e siti di maggiore rilevanza anche beni e siti cosiddetti “minori” collocati in centri urbani con popolazione pari o inferiore a 30.000 abitanti, verrà considerata titolo di preferenza a condizione che sia sempre e comunque salvaguardata l'autonomia scientifica e di immagine individuale propria del museo minore».
2.1. — Secondo la Regione Marche, la norma impugnata violerebbe l'art. 117, commi terzo e sesto, della Costituzione, nella parte in cui disciplina con norme di dettaglio una materia –la valorizzazione dei beni culturali– riconducibile tra quelle elencate nell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, attribuite alla potestà legislativa concorrente delle regioni. Inoltre, la norma si porrebbe in contrasto anche con il sesto comma della norma costituzionale, in quanto attribuisce al Ministro un potere regolamentare in una materia di competenza regionale. Infatti, ad avviso della ricorrente, la norma censurata ha ad oggetto la valorizzazione dei beni culturali, nonostante che si riferisca ad attività di "gestione", poiché la "gestione", secondo la definizione offerta dall'art. 148, comma 1, lettera d), del d. lgs. n. 112 del 1998, consiste in «ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali [e ambientali], concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione» e, quindi, partecipa di entrambi i profili della "tutela" e della "valorizzazione", essendo riferibile all'una o all'altra secondo la specifica finalità che, di volta in volta, si trovi a perseguire.
Nella specie, la "gestione" sarebbe riferita esclusivamente alle finalità relative alla "valorizzazione", sia per la chiara lettera della norma, sia per il riferimento esplicito alle definizioni contenute nell'art. 152, comma 3, del d. lgs. n. 112 del 1998 che si rivolge alla sola "valorizzazione" dei beni culturali, cosicché sarebbe irrilevante che, nel precisare l'oggetto del regolamento ministeriale, siano indicati profili concernenti la tutela.
La norma, secondo la Regione, si porrebbe in contrasto con il nuovo assetto di competenze stabilito con la riforma del Titolo V della Costituzione, anche qualora si ammetta che lo Stato possa riservare a sé le funzioni amministrative che richiedano l'esercizio unitario a livello centrale anche nelle materie attribuite alle regioni, tenuto conto del sistema complessivo delineato dagli artt. 118, primo comma e 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, nonché del principio generale ricavabile dall'art. 117, sesto comma, ultimo alinea, secondo cui ad ogni ente territoriale che risulti titolare di funzioni spetta la potestà regolamentare concernente la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento di tali funzioni. Infatti, nel caso in esame, lo Stato, con la norma censurata, ha disciplinato una particolare modalità di esercizio di funzioni amministrative ad esso già spettanti in base alla legislazione vigente anteriormente alla riforma del Titolo V della Costituzione. Tuttavia, a meno di non ammettere che il nuovo sistema costituzionale delle competenze risulti ad oggi del tutto irrilevante e che dunque lo Stato possa liberamente disciplinare le funzioni amministrative che gli erano riconosciute prima della riforma costituzionale, senza attenersi ai nuovi principi imposti dagli artt. 117 e 118 Cost., occorre ritenere che, dopo l'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, lo Stato può dettare norme per l'organizzazione e lo svolgimento di una funzione amministrativa solo nell'ambito di un intervento che contempli la complessiva riallocazione delle funzioni amministrative relative ad un determinato ambito materiale, distinguendo rigorosamente le funzioni da riservare al livello centrale in attuazione e nel rispetto dei parametri di cui all'art. 118, primo comma, e solo per tali funzioni provvedendo a dettare la relativa disciplina. Pertanto, in assenza di una simile operazione complessiva, è da escludere che lo Stato possa legittimamente procedere ad interventi di semplice integrazione parziale della disciplina previgente, la cui conformità a Costituzione deve essere oggi valutata alla luce delle nuove disposizioni degli artt. 117 e 118 Cost.
2.2. — Ad avviso della Regione Toscana la norma in esame, disciplinando la gestione dei servizi diretti alla valorizzazione dei beni culturali, sarebbe costituzionalmente illegittima sotto due profili.
In primo luogo, l’art. 117 della Costituzione riserva la “tutela dei beni culturali” alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, mentre la “valorizzazione” sarebbe attribuita alla competenza legislativa concorrente delle regioni e, conseguentemente, lo Stato potrebbe soltanto stabilire i principi fondamentali, non le modalità di gestione dei servizi diretti alla valorizzazione di detti beni.
In secondo luogo, il rinvio ad un futuro regolamento della disciplina di aspetti inerenti alla valorizzazione dei beni culturali violerebbe l'art. 117, sesto comma, della Costituzione, essendo altresì illegittima la previsione della sua adozione ai sensi dell’art. 17, terzo comma, della legge 23 agosto 1988, n. 400.
2.3. — La Regione Emilia-Romagna deduce che la norma censurata concerne il «miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico», quindi la materia della "valorizzazione dei beni culturali e ambientali" (e "promozione e organizzazione delle attività culturali") compresa nell’elenco del terzo comma dell'art. 117 della Costituzione, cosicché allo Stato spetterebbe soltanto stabilire i "principi fondamentali". La disposizione conterrebbe, invece, norme di dettaglio e sarebbe perciò invasiva delle attribuzioni regionali. Inoltre, la previsione nella materia di un regolamento ministeriale violerebbe i commi terzo e sesto dell'art. 117 della Costituzione: il terzo «in quanto viene misconosciuta la potestà legislativa regionale»; il sesto «in quanto in aggiunta viene istituita una potestà regolamentare statale (e per di più ministeriale), per la quale manca il fondamento costituzionale».
2.4. — La Regione Umbria censura la norma con argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle svolte dalla Regione Emilia- Romagna, deducendo, inoltre, che essa violerebbe anche l'art. 118 della Costituzione, secondo il quale le funzioni amministrative spettano in via generale ai comuni, salvo che esigenze di carattere unitario ne impongano l'esercizio da parte delle province, delle città metropolitane, delle regioni o dello Stato, con conseguente lesione del principio di sussidiarietà.
2.5 — Nell’imminenza dell’udienza pubblica le Regioni hanno depositato memoria insistendo per l’accoglimento dei ricorsi.
In particolare, la Regione Marche deduce che le modifiche introdotte all’art. 10, lettera b-bis), del d. lgs. n. 368 del 1998, successivamente all’impugnazione non inciderebbero sulla fondatezza delle censure.
La Regione Toscana insiste nelle censure proposte, sostenendo che la sentenza n. 94 del 2003 ha chiarito che allo Stato spetta esclusivamente la materia della tutela dei beni culturali, mentre nella specie i profili della gestione sarebbero riferibili soltanto alla valorizzazione dei beni.
Le Regioni Emilia-Romagna ed Umbria deducono che la modifica sopravvenuta non escluderebbe la fondatezza delle censure, dato che, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, l’interesse nazionale non costituisce più un limite alla competenza legislativa regionale, cosicché non rileverebbe il riferimento ad esso inserito successivamente alla proposizione dei ricorsi.
3. — In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, che le questioni siano dichiarate infondate.
In riferimento al ricorso della Regione Marche la difesa erariale sostiene che la norma censurata stabilisce nella materia dei beni culturali principi di gestione e, perciò, rientra nella tutela dei beni culturali (art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione). Inoltre, fissa principi fondamentali per la valorizzazione di detti beni e per l’organizzazione delle attività culturali (art. 117, terzo comma) e rientra «nella cd. sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, ultimo comma, disciplinata anche dallo Stato».
L’Avvocatura dello Stato, in relazione al ricorso della Regione Toscana, deduce che la competenza attribuita al Ministro è esclusivamente quella concernente la “gestione dei servizi e, prevedendo che la concessione debba essere diretta al miglioramento della fruizione pubblica, stabilisce un obiettivo connesso alla tutela del bene culturale. A suo avviso, la norma porrebbe due questioni: l’identificazione del concetto di «gestione di beni e attività culturali» ed il rapporto tra questa attività e le funzioni di tutela e di valorizzazione; l’identificazione della materia alla quale è riconducibile la gestione ex art. 33, cit. In relazione a quest’ultimo profilo, la mancanza della relativa definizione nell’art. 117 della Costituzione dell’attività di gestione esprimerebbe che essa non è stata ritenuta una “funzione” così come la “tutela” e la “valorizzazione”, bensì un «servizio di supporto strumentale ad entrambe», comprensivo di una serie di attività strumentali sia all’attività di tutela che di valorizzazione. L’art. 33, cit., coinvolgendo i privati nella gestione dei beni culturali, «connette strettamente la stessa gestione alle esigenze di garanzia e tutela dei beni», esigenze che sarebbero particolarmente avvertite proprio in quanto occorre affidare la gestione dei beni a soggetti privati con il massimo delle garanzie. Rientrando la gestione nella “tutela” che è materia attribuita alla competenza esclusiva dello Stato, la previsione del potere regolamentare non violerebbe l’art. 117, sesto comma, della Costituzione.
Considerazioni sostanzialmente identiche sono svolte dalla difesa erariale per contrastare le censure svolte dalle Regioni Emilia-Romagna ed Umbria.
4. — All’udienza pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1. — La questione di legittimità costituzionale proposta, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna ed Umbria ha ad oggetto l’art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -legge finanziaria 2002), che viene impugnato insieme con altre disposizioni della medesima legge. Per ragioni di omogeneità di materia, la trattazione di questa questione di legittimità costituzionale viene separata dalle altre, sollevate con gli stessi ricorsi, le quali sono oggetto di distinte decisioni.
2. — Secondo le ricorrenti, la norma impugnata, introducendo nell’art. 10, comma 1, del d. lgs. 20 ottobre 1998, n. 368 la lettera b-bis) che, nella formulazione censurata, stabilisce, tra l’altro, che il Ministero può “dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico come definiti dall’articolo 152, comma 3, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, secondo modalità, criteri e garanzie definiti con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400”, violerebbe diverse disposizioni costituzionali. Ed infatti la medesima norma è censurata dalle ricorrenti sotto molteplici profili inerenti ai parametri costituzionali degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, nonché in riferimento ai principi costituzionali attinenti al rapporto tra Stato e regione ed al canone di ragionevolezza.
In particolare, la Regione Marche denuncia che la norma impugnata disciplina con norme di dettaglio una materia –la valorizzazione dei beni culturali– riconducibile tra quelle attribuite, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, alla potestà legislativa concorrente delle regioni, e conferisce al Ministro dei beni culturali, in contrasto con il sesto comma dell’art. 117 cit., un potere regolamentare in una materia di competenza regionale. Ed infatti, benché la lettera b-bis) del comma 1 faccia riferimento alla attività di “gestione”, tale attività può essere riferita a profili sia di “tutela”, sia di “valorizzazione”, secondo la specifica finalità, che di volta in volta si trovi a perseguire. Inoltre, anche ammettendo che lo Stato possa riservare determinate funzioni al livello centrale, in attuazione dell’art. 118, primo comma, della Costituzione, solo per tali funzioni deve dettare la relativa disciplina e non già per semplici integrazioni parziali della previgente normativa.
Secondo le Regioni Toscana, Emilia-Romagna ed Umbria, infine, essendo la materia della “valorizzazione” dei beni culturali attribuita alla competenza legislativa concorrente delle regioni, lo Stato dovrebbe dettare solo i principi fondamentali, essendo anche illegittima la previsione di un regolamento ministeriale in materia. La Regione Umbria denuncia altresì la lesione del principio di sussidiarietà, spettando in via generale ai comuni le funzioni amministrative.
Per ragioni di connessione oggettiva e di coincidenza di profili di illegittimità costituzionale sollevati, i ricorsi in esame vengono riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.
3. — La questione non è fondata nei termini di seguito indicati.
Le censure di legittimità costituzionale prospettate nei ricorsi in esame si incentrano essenzialmente su due profili: il primo è relativo alla materia oggetto della disposizione impugnata, la quale, pur riguardando formalmente la “gestione” di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica del patrimonio artistico, in realtà, secondo le ricorrenti, disciplinerebbe con norme di dettaglio la “valorizzazione dei beni culturali”, materia rientrante tra quelle che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione attribuisce alla competenza legislativa regionale concorrente. Il secondo profilo, strettamente collegato al primo, si incentra sulla previsione di un regolamento ministeriale incidente sul predetto ambito materiale, da ricondurre appunto, secondo quanto sopra detto, alla sfera di competenza legislativa regionale concorrente.
Al fine di valutare la pretesa lesione delle attribuzioni legislative regionali, occorre dunque individuare i caratteri distintivi della “gestione” dei servizi in oggetto e il settore materiale al quale essa è riconducibile. Al riguardo la norma impugnata, che appunto prevede la facoltà del Ministero per i beni e le attività culturali di dare in concessione a “soggetti diversi da quelli statali” la gestione di servizi finalizzati “al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico come definiti dall’art. 152, comma 3, del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112”, non è chiara. Essa invero si inserisce nell’ambito delle discipline della c.d. esternalizzazione della gestione dei servizi culturali di competenza statale, il cui controverso accoglimento in sede parlamentare -come si ricava dai relativi lavori preparatori- si è evidentemente riflesso su una certa oscurità di formulazione della norma in esame e spiega altresì i vari mutamenti che il testo legislativo in questione ha subito successivamente alla sua entrata in vigore.
Le indicate difficoltà interpretative riguardano essenzialmente la distinzione dell’attività in esame –di “gestione”– rispetto a quelle di “tutela” o di “valorizzazione” dei beni culturali e quindi l’ambito di applicazione della disposizione denunciata, non tanto perché è dubbio in che misura la lettera b-bis), aggiunta dall’art. 33 all’art. 10 del citato d. lgs. n. 368 del 1998, innovi rispetto ad altre norme dello stesso art. 10, che già prevedono che per le stesse finalità il Ministero per i beni e le attività culturali possa “stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati”, ma soprattutto perché non risulta affatto chiaro in che cosa consista l’oggetto della concessione e quali beni culturali riguardi. Tanto più che modalità, criteri e garanzie per l’affidamento in concessione dei servizi finalizzati alla migliore fruizione di tali beni dovrebbero essere fissati, secondo la medesima disposizione, da un apposito e dettagliato regolamento ministeriale, che dovrebbe regolare persino aspetti minuti della convenzione concessoria, quali le forme di reclutamento ed i livelli di professionalità del personale.
La norma censurata, rinviando all’art. 152 del d. lgs. n. 112 del 1998 il quale stabilisce, sia pure ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni culturali, che Stato, regioni ed enti locali esercitano le relative attività, “ciascuno nel proprio ambito”, presuppone un criterio di ripartizione di competenze, che viene comunemente interpretato nel senso che ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità. Tale criterio, pur essendo inserito nel decreto legislativo n. 112 del 1998, anteriore alla modifica del Titolo V della Costituzione, conserva tuttora la sua efficacia interpretativa non solo perché è individuabile una linea di continuità tra la legislazione degli anni 1997-98, sul conferimento di funzioni alle autonomie locali, e la legge costituzionale n. 3 del 2001, ma soprattutto perché è riferibile a materie-attività, come, nel caso di specie, la tutela, la gestione o anche la valorizzazione di beni culturali, il cui attuale significato è sostanzialmente corrispondente con quello assunto al momento della loro originaria definizione legislativa.
Alla stregua di tale criterio, nella disposizione in esame appare chiaro che il soggetto che ha la titolarità dei beni culturali in questione è lo Stato, come appunto si ricava dai riferimenti del previsto regolamento ministeriale sia ai “rispettivi compiti dello Stato e dei concessionari” relativamente ai restauri ed alla ordinaria manutenzione dei “beni oggetto del servizio, ferma restando la riserva statale sulla tutela dei beni”, sia al “canone complessivo” della concessione “da corrispondere allo Stato per tutta la durata stabilita”, sia alla previsione che “ritornino nella disponibilità” del Ministero i beni culturali conferiti in gestione, in caso di cessazione, per qualsiasi causa, della concessione stessa. Trattandosi dunque di beni “oggetto del servizio”, per la cui concessione deve essere corrisposto un canone allo Stato e per i quali, tra l’altro, è previsto il ritorno “nella disponibilità” del Ministero per i beni culturali alla cessazione della concessione, è evidente che la convenzione concessoria dei servizi disciplinata dalla disposizione in esame e dal regolamento ministeriale ivi previsto non può che concernere servizi finalizzati a beni culturali, di cui appunto allo Stato sono riservate la titolarità e la gestione, oltre che la tutela.
Tale linea interpretativa appare logicamente plausibile, cosicché è da escludere che la disposizione impugnata possa essere lesiva delle pretese delle regioni ricorrenti, le cui attribuzioni in materia non rientrano, appunto secondo l’interpretazione prospettata, nell’ambito di previsione del denunciato art. 33. In proposito va altresì osservato che nella legge in esame n. 448 del 2001 l’ipotesi di concessione disciplinata dalla medesima norma è nettamente distinta da quella regolata dall’art. 35 che, senza stabilire vincoli procedurali o contenutistici, si limita a facoltizzare gli enti locali –nel cui ambito vanno considerate anche le regioni, come si deduce dal comma 15 del suddetto art. 35– a scegliere l’affidamento diretto dei “servizi culturali” locali ad associazioni e fondazioni dagli stessi enti costituite o partecipate, oppure a soggetti terzi, sulla base di contratti di servizio. Il carattere di “principio” che riveste questa normativa sull’affidamento dei servizi culturali locali, rispetto a quella sull’affidamento dei servizi inerenti ai beni culturali di cui è titolare lo Stato, si spiega appunto con le incidenze che la disciplina dell’art. 35 –e non già quella dell’art. 33– può avere sulle competenze legislative regionali e sull’autonomia degli enti locali in materia.
Infine, ad ulteriore conferma dell’interpretazione qui accolta, secondo cui il citato art. 33, si riferisce ai servizi dei soli beni culturali di cui lo Stato ha la titolarità e la gestione, si possono ricordare, per quanto vale, le modifiche introdotte al citato art. 10 del d. lgs. n. 368 del 1998 –nel testo risultante dopo l’entrata in vigore dell’art. 33– dall’art. 80 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, le quali sopprimono ogni riferimento testuale alle finalità di “valorizzazione del patrimonio artistico” e specificano anche che la gestione dei servizi in questione deve riguardare i “beni culturali di interesse nazionale”, di cui all’art. 2, comma 1, lettere b) e c), del d.P.R. 7 settembre 2000, n. 283, e cioè i beni immobili di “interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere”, nonché i beni di interesse archeologico.
Pertanto, così interpretato l’art. 33 della legge n. 448 del 2001, non risultano fondate le censure prospettate dalle ricorrenti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce ogni decisione sulle restanti questioni di legittimità costituzionale della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato –legge finanziaria 2002),
riuniti i giudizi relativi all’art. 33 della medesima legge,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato –legge finanziaria 2001), sollevata, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, dalle Regioni Marche, Toscana, Emilia Romagna ed Umbria con i ricorsi in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore
Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2004.