LARA TRUCCO
(in corso di pubblicazione sulla
Giurisprudenza Italiana - UTET)
1. I fatti all'origine
della questione e le tesi in campo.
Una coppia di coniugi con
problemi di sterilità si rivolge ad un ospedale specializzato chiedendo di
ricorrere alla fecondazione in vitro
per poter avere dei figli. Invero non era la prima volta che i due consorti si
rivolgevano a questo tipo di tecnica medica: tuttavia in precedenza la donna
aveva interrotto la gravidanza per motivi terapeutici, dopo che i medici
avevano appurato che il feto era affetto da anemia mediterranea
(«beta-talassemia»). Dopo circa un anno di cure l'aspirante madre decide di
ritentare la gravidanza: tuttavia, temendo il ripetersi dell’esperienza
passata, d'accordo con il marito ed il proprio ginecologo, domanda che venga
effettuata la diagnosi preimpianto, per accertare la presenza o meno della
patologia negli embrioni ed evitarne eventualmente l'impianto in utero.
Anche dopo la generazione
degli embrioni, la coppia rimane ferma nella volontà di non consentirne
l'impianto fin tanto che non fosse stato reso noto il risultato diagnostico
dell’esame preimpianto, venendosi tuttavia a scontrare col rifiuto dei medici
dell’ospedale di eseguire questo tipo di diagnosi.
I coniugi decidono allora
d'intraprendere le vie legali per vedersi riconosciuto già in sede cautelare il
diritto alla diagnosi preimpianto, mentre in attesa di una qualche risoluzione
della situazione gli embrioni vengono congelati («crioconservati»).
Il giudice civile adìto
dalla coppia, con l'ordinanza del 16 luglio 2005, n. 574 [1],
solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 della l. 19
febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) [2],
all'origine della decisione in commento, «nella parte in cui fa divieto di
ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di
procreazione medicalmente assistita, la diagnosi preimpianto sull’embrione ai
fini dell'accertamento di eventuali patologie» [3].
Tale disposto, contenuto
nel capo VI della legge n. 40/2004 (rubricato «sperimentazione sugli embrioni
umani»), pur vietando in linea di principio «qualsiasi sperimentazione su
ciascun embrione umano» (1° comma), consente tuttavia in via eccezionale la
ricerca clinica e sperimentale, «qualora non siano disponibili metodologie
alternative» e «a condizione che si perseguano finalità esclusivamente
terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e
allo sviluppo dell'embrione stesso» (2° comma). Anche il comma successivo (3°
comma), pur vietando tutta una serie di “attività”, tra cui «ogni forma di
selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che,
attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite
procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico
dell'embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche»
(lett. b)), consente in via
eccezionale «gli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche».
Nella fattispecie, si è
trattato dunque di stabilire se tali previsioni normative permettessero o meno
la diagnosi preimpianto. Sul punto le principali, contrapposte, posizioni –
favorevole e contraria – sono state assunte, rispettivamente, dal pubblico
ministero (oltre che, naturalmente, da parte attrice) da un lato, secondo cui
la disposizione può essere interpretata nel senso di permettere l’espletamento
di questo tipo di esame, e dal medico dall’altro, per il quale invece
l’interpretazione “corrente” della legge non lascerebbe ai sanitari alcun
margine di manovra.
Come emerge
dall'ordinanza di rimessione, per sostenere i rispettivi punti di vista le
parti hanno chiamato in campo le principali tesi portate avanti dalla
giurisprudenza e dalla dottrina.
In particolare, a favore
dell’impostazione restrittiva, si trovano una serie di argomentazioni di ordine
letterale, teleologico e sistematico. Così, deporrebbe a favore dell'esclusione
della possibilità della diagnosi preimpianto la formulazione letterale del
disposto e l’interpretazione della legge alla luce degli scopi dalla stessa
perseguiti [4]
e dei suoi criteri ispiratori «dai quali emerge la preoccupazione di
restringere entro limiti rigorosi la ricerca scientifica sugli embrioni, in
via generale vietata salvo le eccezioni previste dalla legge, nonché l’intento
di garantire in tale ottica la massima tutela della salute e dello sviluppo
dell’embrione».
Ulteriori elementi a
conforto di tale approccio vengono poi tratti dalla disciplina complessiva
della procedura di procreazione medicalmente assistita disegnata dalla legge,
laddove si prevede la revocabilità del consenso solo fino alla fecondazione
dell’ovulo, il divieto di creazione di embrioni in numero superiore a quello
necessario per un unico impianto — obbligatorio quindi per tutti gli embrioni —
ed ancora, il divieto in via generale dì crioconservazione e di soppressione di
embrioni [5].
Sempre in quest'ottica,
specifica attenzione è rivolta poi verso l’art. 14, 3° comma, che consente la
crioconservazione degli embrioni qualora il trasferimento degli stessi «non
risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo
stato di salute della donna» ma soltanto se essa non è «prevedibile al momento
della fecondazione». Per di più, tale norma col precisare che la
crioconservazione può essere mantenuta «fino alla data del trasferimento, da
realizzare non appena possibile», farebbe riferimento ad ostacoli patologici
all’impianto di natura meramente transitoria e non “definitiva”, come potrebbe
essere nel caso di specie, escludendolo con ciò stesso dalle ipotesi consentite
dalla legge.
A quest'ordine di
argomentazioni l’impostazione “estensiva” replica, innanzitutto, sul piano
esegetico che il tenore letterale dell'art. 13 della legge n. 40/2004 non
sarebbe ostativo ad un'interpretazione favorevole alla ricerca clinica e
sperimentale su ciascun embrione umano a condizione che si perseguano finalità
esclusivamente terapeutiche e diagnostiche: anzi, da questo punto di vista,
sarebbe questa una delle poche interpretazioni del disposto compatibile con i
principi costituzionali in materia di tutela della salute.
Sempre in quest'ottica, è
stato osservato come, consistendo, l'analisi preimpianto, essenzialmente nella
verifica dello stato di salute dell’embrione, essa non solo non rientrerebbe
tra le attività di sperimentazione certamente vietate ai sensi del comma 1
dell’art. 13 – profilo che del resto non è messo in discussione nemmeno nel
caso di specie –, ma sarebbe anzi riconducibile all'ipotesi prevista dal
secondo comma del medesimo disposto, che consente la ricerca clinica su ciascun
embrione umano «a condizione che si perseguano finalità esclusivamente
terapeutiche e diagnostiche» (e, per questa strada, esso rientrerebbe altresì
tra le eccezioni previste dal comma 3 lettera b) del medesimo disposto). Ciò che, per altro verso, si porrebbe in
linea con quanto enunciato dalla stessa rubrica del capo VI, che reca «Misure
di tutela dell'embrione».
In un'ottica
ancora più autonoma, la diagnosi preimpianto è stata considerata come
un’«operazione a contenuto neutro rispetto a qualunque successivo intervento
sull’embrione medesimo», con la conseguenza che per essa, a differenza delle
attività di ricerca e sperimentazione, non sussisterebbe limite alcuno.
Per quanto
riguarda poi la lettura congiunta con altre norme della legge, è stato
osservato come, nei casi come quello in esame, entrerebbe in gioco – piuttosto
che il comma 3 – , il comma 5 dell’art. 14 della legge n. 40/2004, che
riconosce ai componenti della coppia che ha avuto accesso alla procreazione
medicalmente assistita il diritto di essere informati, a loro richiesta, «sullo
stato di salute di embrioni prodotti e da trasferire nell'utero». Anzi, proprio
alla luce del riconoscimento legislativo di tale facoltà, i fautori di questo
tipo di approccio rivendicano la presenza di un vero e proprio obbligo della
struttura sanitaria di praticare la diagnosi preimpianto in una prospettiva di
solo beneficio per i soggetti legittimati che la richiedono.
Stando a quanto emerge
dall’ordinanza di rimessione, prassi (medica) e giurisprudenza [6]
seguirebbero prevalentemente il primo degli approcci visti, quello restrittivo [7].
In particolare,
l'operazione ermeneutica che è stata compiuta è stata quella di affermare la
lettura congiunta della dizione «finalità terapeutiche e diagnostiche»,
contenuta, come abbiamo visto, in più punti del testo, radicando con ciò l'idea
che non possa esservi finalità diagnostica disgiunta da possibilità
terapeutica, ovvero che la finalità diagnostica debba essere – e non possa non
essere – strumentale al successivo intervento terapeutico, che a sua volta deve
presentare una qualche probabilità di riuscita.
In quest'ottica dunque,
se la finalità diagnostica è fine a se stessa, nel senso di “limitarsi” a
rendere nota la presenza di eventuali patologie senza essere supportata da
nessuna tecnica idonea a rimediare all’anomalia riscontrata, viene considerata
vietata dalla legge e non può essere espletata dal medico.
Facendo proprio questo
tipo di approccio, il T.A.R. del Lazio nella sentenza del 5 maggio 2005, n.
3452 [8]
(confermata successivamente dalle pronunce n. 4046 e 4047 del 23 maggio 2005 [9]),
è giunto ad affermare non solo che l'ipotesi di diagnosi preimpianto invasiva
concernente le sole qualità genetiche dell'embrione non rientra nei casi
consentiti dalla legge, ma che finirebbe per ricadere nel divieto di selezione
a scopo eugenetico, pur trattandosi di un caso di eugenetica negativa, volta
cioè a far sì che non nascano persone portatrici di malattie ereditarie e non a
perseguire scopi di miglioramento della specie umana.
Non stupisce dunque che
in tale pronuncia, il tribunale amministrativo abbia fatto salve le
«linee-guida» di cui all’art. 7 della legge n. 40/2004 (D.M. della Salute del
21 luglio 2004) [10],
tra le altre nella parte in cui dispongono che «ogni indagine relativa alla
salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14 comma 5, dovrà
essere di tipo osservazionale», il che è quanto dire che l'analisi deve
limitarsi al riscontro di quanto si vede al microscopio, senza poter prelevare
frammenti di materiale genetico da analizzare successivamente [11].
Come si vede, è possibile
ritenere che tale norma abbia finito per integrare e precisare parte del
contenuto della legge 40/04, consolidandone al contempo quell’interpretazione
“restrittiva” di cui si diceva.
In quest’ottica, in
riferimento al caso in commento, ciò porta a ritenere che il divieto di analisi
preimpianto sarà destinato a durare almeno fino a quando nella pratica medica
non verranno messe a punto terapie geniche idonee ad incidere sullo stato di
salute dell’embrione malato permettendo, con un certo margine di probabilità,
di curarlo, mentre fino a quando ciò non sarà possibile l’analisi preimpianto
dovrà limitarsi ad essere di tipo “osservazionale”.
Su queste
premesse, si può discutere su “quanto”, innanzi alla domanda dei due coniugi,
il giudice sia stato “libero” di scegliere se conformarsi agli orientamenti
prevalenti o discostarsene [12],
ciò che nel caso di specie avrebbe significato interpretare “estensivamente” le
norme della legge n. 40/04, ovvero, come visto, “disgiuntamente” la
congiunzione “e” contenuta nel testo.
Ora, se avesse
deciso di intraprendere quest’ultima strada il tribunale di Cagliari avrebbe
potuto in primo luogo seguire la prospettazione del pubblico ministero che
aveva concluso perché il giudice, disapplicata la disciplina secondaria,
ordinasse, in accoglimento del ricorso, l’esecuzione della diagnosi preimpianto
sull’embrione «alla stregua di parametri di rischio compatibili, secondo la
scienza medica, con la salute e lo sviluppo dell’embrione» stesso.
In alternativa,
seguendo invece quanto indicato dalla parte ricorrente, avrebbe potuto tentare
la via dell'interpretazione adeguatrice, nel senso di affermare una posizione
rivendicata come “obbligata” alla luce del principio costituzionale del diritto
alla salute, favorevole alla praticabilità della diagnosi preimpianto
riscontrata l’eventualità che dalla sua mancata esecuzione potesse derivare una
seria minaccia per la salute fisica o psichica dei soggetti in gioco.
Invece, come anticipato,
il Tribunale di Cagliari ha finito per optare per una diversa strada ancora,
presentata anch’essa, peraltro, in via subordinata, dalle parti ricorrenti,
ritenendo di non poter definire il procedimento cautelare indipendentemente
dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13
della legge n. 40/2004 [13].
Più precisamente,
nell'ordinanza di rimessione il giudice ha prospettato la violazione degli
artt. 2 e 32 della Costituzione sotto il profilo, da un lato, del rischio di
danni biologici dell'embrione dovuti al periodo di crioconservazione (in
seguito al rifiuto d'impianto da parte della donna) e, dall'altro, di minaccia
per la salute della donna derivante dall'impossibilità di accertare lo “stato”
dell'embrione. L’art. 3 della Carta costituzionale è stato invece chiamato in
campo per la ingiustificata disparità di trattamento che la legge introdurrebbe
tra la posizione dei genitori ai quali è riconosciuto il diritto
all'informazione sulla salute del feto nel corso della gravidanza attraverso
l’amniocentesi e quella della coppia nella fase della procreazione assistita
che precede l'impianto a cui invece analoga conoscenza non è accordata.
2. La questione di
costituzionalità: a) i profili processuali.
Sotto il profilo
processuale può anzitutto osservarsi come, secondo una costante giurisprudenza,
nel caso in esame
Su di un diverso
versante,
Più in generale ci
limitiamo quanto meno a richiamare alcuni problemi di ordine teorico che il
fatto stesso di sollevare un incidente di costituzionalità in sede cautelare
pone, non solo in riferimento all’annosa questione della facoltà del giudice
ordinario di sospendere l’esecuzione dell’atto legislativo impugnato [16]
ma, con più specifica attenzione al caso in commento, alla possibilità dello
stesso giudice ordinario di attuare la tutela giurisdizionale preventiva a fine
cautelare di un diritto, il cui riconoscimento ed eventuale pregiudizio
finirebbero secondo parte della dottrina per dipendere e discendere dalla
decisione stessa del giudice delle leggi, essendo condizionati dalla
dichiarazione d’incostituzionalità che, da questo punto di vista, avrebbe
dunque effetti “costitutivi” del diritto in questione.
Come si vede, assumendo
quest'ottica, in riferimento al caso in oggetto si dovrebbe conseguentemente
concludere per la mancanza d’incidenza della norma nella soluzione del giudizio
a quo, dal momento che la norma
medesima – e con essa il diritto rivendicato all’analisi preimpianto –
risulterebbe “mancare” fino alla pronuncia d’incostituzionalità della Corte.
Tuttavia, secondo una
diversa impostazione, in questi casi la pronuncia della Corte non avrebbe
valore “costitutivo”, ma piuttosto “dichiarativo”, limitandosi a “accertare”
per così dire, l'esistenza ab
initio della norma
in oggetto, ovvero la sua vigenza da quando esiste l’atto in cui è incorporata,
con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo della “rilevanza” dell’incidente
di costituzionalità.
Sempre in punto di
“rilevanza”, resta da chiedersi non solo dell’idoneità della norma stessa, in
ogni caso, a recare un qualche pregiudizio (essendo il pericolo per la salute e
della donna e dell’embrione, ipotizzato) ma, più radicalmente ancora, assumendo
una certa impostazione, ad essere applicata nel giudizio a quo. Mentre da un diverso punto di vista ancora, è stato rilevato
come l’eventuale accoglimento dell’eccezione d’incostituzionalità dell’art. 13,
rappresentando il petitum avrebbe
finito per rendere di fatto inutile il provvedimento d’urgenza, “dissolvendo”
per così dire il carattere d’incidentalità della questione proposta.
Per concludere sugli
aspetti processuali, degna di essere quanto meno rilevata è la presenza di un
giudice relatore diverso dal redattore: ciò che può essere visto alla luce
della particolare “delicatezza” dei profili che la decisione affronta, e
conseguentemente della maggiore facilità con cui possono essere venuti a
crearsi punti di vista diversi e contrapposti in seno alla Corte, non solo in
merito alla decisione finale ma anche, verosimilmente, rispetto al modo di
argomentarne il contenuto.
3. Segue: b) i profili sostanziali.
Venendo ad esaminare la
questione di fondo della decisione, è possibile preliminarmente osservare come
D’altro canto,
Più in generale,
nell’ordinanza in commento,
Tali battute finali, col
mettere in luce il carattere “unitario” della legge, “amalgamato” e
“strutturato”, nel suo insieme, dai suoi criteri ispiratori, lasciano
trasparire la consapevolezza della Corte che l'eventuale pronuncia di
incostituzionalità del singolo disposto avrebbe potuto finire per trascinare
con sé, in via consequenziale [17],
come una sorta di “effetto domino”, non solo altri disposti della stessa legge
ma più drasticamente l'intero testo legislativo.
Eventualità che
Ancora,
Da questo punto di vista,
se si conviene nel ritenere che la via della dichiarazione d’infondatezza della
questione sarebbe stata una soluzione più tranchante
rispetto alla decisione adottata, si deve anche essere d’accordo sul fatto che,
trincerandosi dietro un sostanziale non
liquet,
Si può pertanto dire che,
in questo momento, si è nella pressoché identica situazione giuridica in cui ci
si trovava prima che venisse sospeso il giudizio a quo.
Spetterà al Tribunale di
Cagliari (ancora) in sede cautelare, prendere una decisione, alla luce, è
auspicabile, prima che dei “criteri” ispiratori della legge, dei valori
costituzionali, evidenziati dalla più luminosa giurisprudenza costituzionale [22],
che, invero, paiono essere rimasti finora sullo sfondo in attesa che venissero
risolte questioni interpretative e processuali. A meno che lo stesso giudice
non decida, com’è nelle sue possibilità, di risollevare la questione impugnando
l’intero impianto normativo (e non solo l'art. 13 della legge n. 40 del 2004):
eventualità rispetto alla quale, tuttavia, alla luce di quanto si è visto,
sembrerebbero essere piuttosto esigue le probabilità di successo a fronte invece
della consistente possibilità del ripetersi di una decisione processuale.
Nella “sostanza”, se bene
intendiamo, la questione “etica” ha una portata “radicale”, trattandosi in
fondo di stabilire fino a dove possa spingersi la corsa della conoscenza, ed in
particolare se possa arrivare anche là dove, in un dato momento storico, non
c’è possibilità di cura.
A tale problema si
accompagna poi la considerazione per cui col progredire delle biotecnologie
sarà sempre più facile e probabile “scoprire” patologie genetiche sicché si
potrebbe giungere al punto in cui nessuno potrebbe più essere disposto ad alcun
impianto. D’altro canto, si mette in luce come soltanto la conoscenza di
determinate anomalie dia impulso alla ricerca e renda in fondo possibile
predisporre le relative cure [23].
Sullo sfondo, si trova
l’interrogativo se di vera e propria rivendicazione del diritto «ad avere dei
figli certamente sani» si tratti o non piuttosto del diritto «a non avere dei
figli certamente malati» [24].
Limitando lo sguardo al
caso in commento, se il giudice deciderà di entrare “nel merito” della
controversia, sarà chiamato a bilanciare l’interesse a scongiurare ogni
possibile rischio di pregiudizio per la salute di madre ed embrione (in
riferimento a determinate patologie) e la possibile compromissione del diritto
alla vita di quest’ultimo.
A latere, tra le altre, si pongono sin d’ora le
questioni relative sia alla situazione in cui potrebbe venirsi a trovare la
madre – laddove dovesse consentire l’impianto prescindendo dalla diagnosi –, se
decidesse di continuare a “provare”– ed eventualmente ad abortire – “alla
cieca”, nella speranza di ricevere un embrione non malato [25];
sia al problema che potrebbe presentarsi se, viceversa, una volta consentita
l’analisi preimpianto, si dovesse accertare che tutti (e tre) gli embrioni che
la legge consente di produrre presentano la malattia; sia, ancora, al destino
degli embrioni qualora non venissero impiantati in utero [26].
[1] Sull’ordinanza in questione vedi Banchetti, Procreazione medicalmente assistita, diagnosi preimpianto e (fantasmi dell') eugenetica, in Giur. It., 2006, 1169 e segg.
[2] Per un primo commento della legge n. 40/2004 cfr., AA.VV., Procreazione assistita (commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40), a cura di P. Stanzione e G. Sciancalepore, Milano, 2004 e M. Dogliotti e A. Figone, Procreazione assistita. Fonti, orientamenti, linee di tendenza. Il commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40, Milano 2004.
[3] In generale sulle tecniche di procreazione assistita, v. Flamigni, La procreazione assistita, Bologna 2002, 30 e segg.
[4] Cfr. Trib. Catania, 3
maggio
[5] Al proposito, Trib. Roma, 23 febbraio 2005 (in Foro It., 2005, I, 881) ha esteso il divieto anche agli ovociti fecondati.
[6] In particolare cfr. Trib. Catania, 3 maggio 2004, cit., 2088 e segg.
[7] Similmente a quanto accadrebbe in Austria, Germania e, per certi versi, in Svizzera (cfr. Camera dei Deputati, Materiali di legislazione comparata, La procreazione medicalmente assistita (aggiornamento), n. 107, 2005, 14-15; più in generale, per un'analisi comparata in materia si veda La fecondazione assistita nel diritto comparato, a cura di Casonato e Frosini, Torino 2006).
[8] T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 5 maggio 2005,
n.
[9] T.A.R. Lazio Roma, sez.
III, 18 maggio 2005, n. 4046-
[10] I profili più problematici delle “linee-guida” (con particolare riguardo al riparto di competenze tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V), sono evidenziati da Celotto, E le competenze regionali?, in Giustizia amministrativa, 2004, 393-4.
[11] Se, poi, dovessero
riscontrarsi «gravi anomalie irreversibili
dello sviluppo dell’embrione” il sanitario dovrà informare la coppia che,
secondo parte della dottrina (cfr. Stanzione
e Sciancalepore in Famiglia, 2004, 1530-1) «potrà opporsi
all’incoercibile trasferimento in utero dell’embrione, consentendo – così – che
l’embrione medesimo continui il suo itinerario nella coltura in vitro sino
all’estinzione».
[12] Una rassegna della
giurisprudenza in materia precedente all’entrata in vigore della legge n.
40/2004 è svolta da Cassano, Novità giurisprudenziali in materia di
procreazione medicalmente assistita, in Vita
notar., 1999, 1042 e segg.
[13] Al proposito, in precedenza aveva sostenuto l’opportunità, in casi del genere, di sollevare la questione di costituzionalità T.E. Frosini (In materia di fecondazione assistita il giudice deve sollevare la questione di costituzionalità, in Giust. Amm., 2004, 2, 392.
[14] Sul tema, cfr., per tutti, Ruggeri e Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2004, 194 e Malfatti-Panizza-Romboli, Giustizia costituzionale, 2003, 120.
[15] Sul punto si deve osservare come
l’Avvocatura dello Stato nella memoria difensiva avesse sostenuto che dal
momento che gli embrioni rispetto ai quali si richiedeva l’analisi preimpianto
erano stati oggetto di procedimento di conservazione «i tempi di svolgimento
del giudizio di merito non avrebbero potuto influire in modo pregiudizievole su
una pretesa situazione giuridica meritevole di tutela» giustificando così «non
solo il ricordo al procedimento d’urgenza» «ma anche l’esercizio del potere del
giudice cautelare di sollevare una questione di costituzionalità». Tuttavia
parte della giurisprudenza, segue un orientamento diverso avvertendo come anche
se le più moderne tecniche elaborate dalla scienza medica consentono ormai la
crioconservazione di embrioni per periodi di tempo praticamente illimitati,
tuttavia resterebbe «altamente probabile che la percentuale di successo
dell’intervento (così intendendosi il «trasferimento» dalla provetta di
crioconservazione all’utero della madre) diminuisca progressivamente col
trascorrere del tempo». In tale prospettiva l’intervento anticipatorio
consentito dall’art. 700 c.p.c. risulterebbe quindi giustificato, considerato
che, anche la «mera procrastinazione» dell’esercizio di diritti personalissimi,
«configurerebbe una lesione insuscettibile di adeguata riparazione» (così Trib.
Palermo, 8 gennaio
[16] Su cui si vedano per tutti Pace, Sulla sospensione cautelare dell’esecuzione delle leggi autoapplicative impugnate per incostituzionalità, in AA.VV., Studi in memoria di C. Esposito, Padova, 1972, II, 121 segg. e Spadaro, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli, 1990, 134-137 e 270-273.
[17] V. sul punto Morelli, Quando la Corte decide di non decidere. Mancato ricorso all’illegittimità consequenziale e selezione discrezionale dei casi, in forum di Quaderni Costituzionali del 17 novembre 2006).
[18] Corte cost., 28 gennaio 2005, n.
[19] Diversa posizione è invece stata assunta da autorevole dottrina, la quale ha evidenziato che il fatto che una legge sia riconosciuta come «legge costituzionalmente necessaria», non per questo la rende «costituzionalmente legittima in toto» (cfr. Modugno, La fecondazione assistita alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionale, in Rass. parlam., 2005, 379).
[20] Anche se secondo una diversa interpretazione dottrinale «i riferimenti ai “criteri ispiratori della legge” contenuti nell’ordinanza di rimessione, che secondo il giudice delle leggi si sarebbero tradotti in asserzioni contraddittorie rispetto all’impugnazione del solo art. 13 della legge n. 40, sarebbero visibilmente funzionali alla dimostrazione dell’impossibilità di operare un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione di cui si denunciava l’illegittimità» (cfr. Morelli, Quando la Corte decide di non decidere. Mancato ricorso all’illegittimità consequenziale e selezione discrezionale dei casi, cit.).
[21] Sul tema, da ultimo, v. Sorrenti, L'interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006.
[22] Su cui, per tutti, v. Modugno, La fecondazione assistita, cit., 396 e segg.
[23] Per la disamina dei
profili maggiormente problematici della legge n. 40/2004, si vedano Ferraro, Profili della disciplina sulla fecondazione medicalmente assistita,
Dir. Famiglia, 2005, I, 250 e segg.; Veronesi, La legge
sulla procreazione assistita alla prova dei giudici e della Corte
costituzionale, in Quad. cost., 2004, 3, 523 e segg.; Ferrando,
La nuova legge in materia di procreazione
medicalmente assistita: perplessità e critiche, in Corriere giur., 2004, 810 e segg.
[24] Cfr. sul punto Trib. Catania, 3
maggio 2004, cit. 2092 e, sotto
diverso profilo, Cass, sez. III, 29 luglio 2004, n.
[25] Mentre invece parte della
dottrina si domanda (ammettendo peraltro un certo grado di provocazione), quid iuris «nell’ipotesi in cui il
bambino nato con malformazioni faccia valere, anche nei confronti dei propri
genitori, il proprio diritto a non esistere piuttosto che ad esistere in
condizioni di disabilità», considerando in particolare, certa giurisprudenza
americana sul c.d. «danno da procreazione» (si veda al proposito Corte Suprema
del New Jersey, caso Barman v. Allan,
[26] Si deve osservare come
quest’eventualità non sussisterebbe nemmeno per chi ritiene che la legge n.
40/2004 sancisca un vero e proprio «obbligo giuridico di procedere alla
procreazione medicalmente assistita», essendo conseguentemente ammissibile la
domanda «per l’esecuzione in forma specifica di quell’obbligo», che peraltro
non costituirebbe «un “trattamento sanitario obbligatorio” per il semplice
fatto che l’aspirante madre è posta (…) nelle condizioni di scegliere
liberamente e consapevolmente se sottoporsi o no alle tecniche di procreazione
medicalmente assistita» (così Trib. Catania, 3 maggio 2004, cit. 2450). Un diverso orientamento è
stato seguito, invece, per esempio, dal Trib. Bologna, 26 giugno 2000 (in Corr. giur., 2001, 1221 e segg.) secondo
cui il consenso originariamente prestato al procedimento di fecondazione
assistita omologa potrebbe essere revocato da entrambe le parti fino al momento
del trasferimento degli embrioni nell'utero materno. Sul punto ha avuto modo da
ultimo anche di pronunciarsi