Il falso in bilancio fra Corte di giustizia
e Corte costituzionale italiana (passando attraverso i principi supremi
dell’ordinamento costituzionale…)
di Luca
Mezzetti
professore ordinario di Diritto pubblico comparato
nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Udine
1.
- Nell’ambito delle cause riunite C-387/02,
C-391/02 e C-403/02 presso
Si
riconosce in tali conclusioni che
L’art.
6 della prima direttiva si limita ad obbligare gli Stati membri ad adottare adeguate sanzioni per l’ipotesi di
violazione dell’obbligo di pubblicità menzionato in precedenza : ora,
richiamato il potere discrezionale del legislatore nazionale in merito alla
scelta delle sanzioni, da esercitarsi in ogni caso in considerazione
dell’obbligo incombente agli Stati membri di vegliare affinché le violazioni
del diritto comunitario siano accompagnate,
sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni
del diritto interno da sanzioni simili per natura e gravità, nonché di
conferire alle sanzioni stesse caratteri di efficacia,
proporzionalità e capacità dissuasiva, affermare – come fa l’avvocato
generale - che il problema se una disposizione di diritto nazionale contenga
una sanzione efficace, proporzionata e dissuasiva deve essere esaminato, in
tutti i casi in cui sorge, tenendo conto del ruolo di detta norma
nell’ordinamento giuridico complessivo, ivi compreso lo svolgimento della
procedura e delle peculiarità di quest’ultima dinanzi alle diverse autorità
nazionali, significa sotto un primo profilo dischiudere una prospettiva di
ricorso al metodo analogico – rigorosamente non praticabile nel diritto penale
– pericolosamente gravida di inaccettabili conseguenze sul versante dei
principi di legalità e tassatività della disciplina giuridica dei reati e delle
pene.
Il
problema non si risolve altresì ipotizzando che in capo ai giudici del rinvio insorga
l’obbligo, derivante dal diritto comunitario, in particolare ai sensi degli
artt. 10 e 249 del Trattato comunitario, di dare applicazione, nei procedimenti
penali dinanzi ad essi pendenti, ai precetti contenuti nelle direttive sul
diritto societario senza necessità di una preventiva pronuncia della Corte
costituzionale italiana sulla possibile incostituzionalità del d. legis. n.
61 del 2002. Il menzionato obbligo di applicazione diretta delle norme di
diritto comunitario – che, come è noto, sussiste solo con riferimento ai
regolamenti comunitari e, con molte cautele, con riferimento alle direttive
dettagliate, non sorge infatti con riferimento a direttive di natura non dettagliata,
quali appaiono essere le direttive sul diritto societario. Ma anche laddove si
intendesse forzare il dato testuale annettendo tale natura (di direttive
dettagliate) alle direttive comunitarie in oggetto, immaginandosi la
applicabilità diretta delle rispettive disposizioni ad opera dei giudici
nazionali in via surrogatoria rispetto alle norme contenute nel d. legis. 61
del 2002, osterebbe alla piena applicabilità (diretta) delle medesime la
configurazione meramente generica delle sanzioni auspicate dal legislatore
comunitario quanto alla loro concreta identificazione e quantificazione da
parte del legislatore nazionale nell’esercizio delle sue prerogative
(pienamente) sovrane in tale direzione.
Non
vale affermare in contrario - come pure si spinge a fare l’avvocato generale –
che, indipendentemente dalla effettuazione del controllo di costituzionalità da
parte della Corte costituzionale italiana e indipendentemente dalla conformità
o meno del d.legis.
n. 61 del 2002 alla Costituzione italiana, i giudici del rinvio debbano già
disapplicare, nel caso concreto, tale decreto legislativo nelle parti in cui le
norme apportate non risultino conformi al diritto comunitario, ritenendo invece
applicabile la legge nazionale nella sua versione in vigore all’epoca dei fatti
contestati (gli originari artt. 2621 e 2622 c.c.). La validità di tale
affermazione merita infatti di essere sottoposta ad attento vaglio e non può
non divenire oggetto di deciso rigetto alla luce di una serie di
controargomentazioni.
E’ la stessa
giurisprudenza comunitaria, come del resto concede lo stesso avvocato generale,
ad avere chiarito che una direttiva comunitaria non può avere l’effetto, di per
sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la
sua attuazione, di stabilire o di aggravare la responsabilità penale di coloro
che agiscono in violazione delle sue disposizioni (sentenze 11.6.1987, in causa
14/86, 26.9.1996, in causa C-168/95 e 7.1.2004, in causa C-60/02). Il
fondamento di tale affermazione è stato individuato dalla Corte di giustizia
nel principio della legalità della pena, rientrante fra le tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri e sancito, oltre che in seno a vari strumenti
internazionali (fra gli altri,
Il
principio della certezza del diritto nonché il principio di legalità della fattispecie di reato e della pena risulterebbero
gravemente compromessi ove si accedesse alla ipotizzata reviviscenza delle
norme contenute negli artt. 2621 e 2622 c.c. nel testo anteriormente vigente.
Le perplessità sorgono, in particolare,
su due versanti. In primo luogo, la disapplicazione delle due norme contenute
negli articoli del codice civile da ultimo menzionati e la ipotizzata
conseguente reviviscenza delle norme precedentemente vigenti non pregiudicherebbe
– si deve immaginare – la permanenza in vigore delle restanti parti del d. legis. n.
61 del 2002 e produrrebbe di conseguenza il determinarsi di un anomalo
“regime misto” della materia, fondato “a macchia di leopardo” in parte sulla
nuova ed in parte sulla vecchia normativa. In secondo luogo, ne deriverebbe una
grave violazione del principio che implica la applicazione del trattamento
penale più favorevole apportato nei confronti dell’imputato ad opera di norma
entrata in vigore in un momento temporale successivo alla commissione dei fatti
ascrittigli (art. 2, comma 3 c.p.). Osta tuttavia alla configurazione della
automatica reviviscenza delle norme precedentemente vigenti rispetto a quelle
ritenute non conformi ai dettami del diritto comunitario la considerazione
relativa alla impossibilità di identificare e sovrapporre – a meno di non
incorrere in una grave svista giuridica e di dare luogo ad una sorta di
strabismo ermeneutico – gli istituti della abrogazione-annullamento da una
parte, dotati come è noto di effetti tipici loro propri – e l’istituto della
disapplicazione dall’altra, a sua volta tipizzato negli effetti, che tuttavia
non possono farsi arbitrariamente coincidere con quelli derivanti
dall’abrogazione-annullamento, in particolare per quanto concerne la
sopravvivenza della norma disapplicata, che non viene completamente
devitalizzata ed entra semmai in un “sonno” giuridico limitato – quanto meno
potenzialmente – sia sul versante della applicazione temporale che su quello
materiale e del novero dei destinatari della medesima.
Tuttavia,
l’argomento che appare decisivo al fine di ritenere improponibile la
reviviscenza delle norme abrogate auspicata dall’avvocato generale si fonda
sulla considerazione della erosione del principio della applicazione
retroattiva della legge penale più favorevole che si produrrebbe in ragione
della predetta reviviscenza. Ora, se è vero che gli imputati all’epoca dei
fatti contestati non potevano fare affidamento sul fatto che i reati loro
ascritti sarebbero stati puniti in modo meno severo rispetto al vecchio art.
2621 c.c. o che non sarebbero stati puniti per nulla, è altresì vero che tale
principio, oltre ad essere riconosciuto nella maggior parte degli ordinamenti
giuridici degli Stati membri dell’Unione europea, risulta codificato anche in
seno a strumenti di diritto comunitario ed internazionale. Il principio della
applicazione retroattiva della legge penale più favorevole, corollario del principio
della riserva di legge in materia penale proclamato dall’art. 25, c. 2 Cost.
(principio oggi contemplato anche dalla Carta di Nizza dei diritti fondamentali
dell’Unione europea – art. 49 - e confluito nell’art. II-109 del Trattato
costituzionale europeo firmato a Roma il 29 ottobre 2004), deve ritenersi
penetrato all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano, al di là e
oltre la sua esplicita previsione da parte dell’art. 2, comma 3 c.p. e qualora
non se ne ritenesse sufficiente la enunciazione ad opera di una norma di legge
ordinaria (secondo quanto ritenuto dall’avvocato generale Kokott), attraverso
l’art. 7 della Convenzione di Roma per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950,
resa esecutiva in Italia con legge n. 848/1955, nonché attraverso l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti
civili e politici di New York del 1966, reso esecutivo in Italia con legge
n. 881/1977) e, in forza della copertura
costituzionale offerta dagli artt. 10 e 11 Cost. alle norme internazionali in
precedenza citate, tale da rivestire un rango ed un ruolo pienamente
assimilabile rispetto ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello
Stato, in particolare per quanto concerne i diritti inviolabili dell’uomo. Si è
dunque in presenza di una concorrenza
fra il principio della applicazione
retroattiva della legge penale più favorevole, da una parte, e il principio della primazia del diritto
comunitario, la cui copertura costituzionale parimenti si fa risalire
all’art. 11 Cost., dall’altra : si tratta peraltro di concorrenza-conflitto
destinata a risolversi necessariamente a favore del primo dei principi
menzionati in ragione della natura di principio supremo dell’ordinamento
(ovvero di corollario applicativo fondamentale di principio supremo dell’ordinamento quale è la riserva
di legge in materia penale). In quanto tale, il principio individuato come
prevalente non si presta a tollerare erosioni o ad essere circostanziato in
conseguenza dell’operare di norme comunitarie, in particolare se non
direttamente applicabili. A tali conclusioni, peraltro, è pervenuta la stessa
Corte costituzionale (cfr. sentenze 183/1973, 232/1989, 509/1995)
laddove ha ammesso che le limitazioni di cui all’art. 11 (nella direzione del
primato del diritto comunitario) non
consentono la rinuncia alla applicazione e tutela dei principi fondamentali
dell’ordinamento italiano e dei diritti inalienabili della persona
(dottrina dei controlimiti alla
prevalenza del diritto comunitario) e si è quindi riservata la garanzia del
sindacato di costituzionalità sulla legge di autorizzazione del trattato che
consentisse la operatività nell’ordinamento italiano di atti comunitari che
pongano in pericolo tali principi e garanzie. In tal senso la giurisprudenza
costituzionale italiana ha individuato l’esistenza, fra ordinamento comunitario
e ordinamento italiano, di un rapporto di
separazione e di coordinamento, nel contesto del quale alla evidenziazione
del principio della preminenza delle fonti comunitarie in base ad una riserva
di competenza a loro favore si accompagna la assegnazione alle fonti
comunitarie di rango primario ma non
costituzionale (cfr. sentt. 117/1994 e 461/1995), dotate
di preferenza rispetto alle fonti nazionali con loro incompatibili ma con
l’importante limite della salvaguardia dei principi fondamentali
dell’ordinamento e dei diritti inalienabili della persona, essendosi
Il
principio della applicazione retroattiva della legge penale più favorevole
quale corollario del principio fondamentale nullum
crimen nulla poena sine lege è stato del resto qualificato tale anche dalla
giurisprudenza costituzionale laddove ha riconosciuto che “il principio in
argomento si pone come superiore
principio di civiltà (della stessa
civiltà nella quale la nostra Costituzione si inserisce). Quanto al suo
contenuto, il principio, identificandosi
o collegandosi con quello della tendenziale libertà della persona dalla
riprovazione e dalla repressione penali – riservate in definitiva alla
legge ordinaria, ma pur sempre soltanto a questa, e non necessariamente
finalizzate all’esclusiva protezione dei valori costituzionali e degli stessi
valori di civiltà – appresta alla persona stessa una garanzia di copertura
dalle (mediante l’attribuzione ad essa di una posizione di indifferenza
rispetto alle) vicende di inasprimento della legislazione penale considerate
nei loro effetti generali” (sentenza n. 51 del 1985).
Non
vale rilevare, a tale proposito, che il principio della applicazione
retroattiva della legge penale più favorevole non riveste nella maggior parte
degli ordinamenti giuridici rango costituzionale, ma solo di norma ordinaria.
E’
pertanto di tutta evidenza che leggi penali più favorevoli vanno applicate
retroattivamente anche quando non siano pienamente conformi al diritto
comunitario derivato non direttamente
applicabile, come nel caso delle direttive comunitarie, e fino a quando
tali direttive non siano divenute oggetto di recepimento in seno al diritto
nazionale ovvero fino al momento in cui sia intervenuta una pronuncia di
incostituzionalità della Corte costituzionale italiana che riconosca tale
assenza di conformità.
L’affermazione
dell’avvocato generale secondo la quale dal primato del diritto comunitario
deriva che i giudici del rinvio, nei procedimenti penali pendenti, devono
osservare il diritto comunitario, nonché in particolare i precetti ed i giudizi
di valore del legislatore comunitario che emergono dalle direttive sul diritto
societario, appare dunque parziale e priva di una sua proposizione fondamentale
e deve quindi essere circostanziata ed integrata nel senso di doversi ritenere
sussistente tale obbligo solo se e nella misura in cui le direttive medesime
siano state recepite dal legislatore nazionale che abbia provveduto, in sede di
esercizio della propria piena sovranità politica, a declinare e a tradurre tali
giudizi di valore in norme nazionali direttamente ed immediatamente vincolanti.
Si
deve inoltre aggiungere che l’obbligo del giudice nazionale di applicare il
proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello
scopo della direttiva per conseguire il risultato perseguito dalla medesima e
conformarsi pertanto all’art. 189, comma 3 del Trattato comunitario, è stato
circostanziato ad opera della stessa giurisprudenza comunitaria laddove ha
ammesso che tale interpretazione incontra
i suoi limiti in particolare nel caso in cui la stessa abbia l’effetto di
determinare o aggravare, in base alla direttiva ed indipendentemente da una legge
adottata per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che agiscono
in violazione delle sue disposizioni (Corte di giustizia, sentenza
8.10.1987, in causa 80/86, Kolpinghuis
Njimegen, in Raccolta, p. 3969, punto 13).
L’applicazione
da parte del giudice italiano delle norme nazionali
di nuova formulazione in ossequio ai principi comunitari non potrebbe comunque
avvenire che con riferimento a fatti commessi dopo l’entrata in vigore delle norme medesime. Si tratta, in altri
termini, di ricondurre tale fattispecie alla sua giusta dimensione, che è
quella di un normale ed ordinario rapporto di successione temporale fra norme nazionali (delle quali l’una
originariamente non conforme al diritto comunitario, l’altra forgiata dal
legislatore nazionale in linea con i precetti comunitari), una relazione, in
altri termini, fra I) le norme attualmente vigenti che, sebbene (eventualmente)
non ottemperanti ai precetti comunitari, sono tuttavia destinate a rimanere in
vigore fino al momento della entrata in vigore delle II) norme predisposte dal
legislatore italiano in ottemperanza agli obblighi comunitari ed in conformità
alla interpretazione fornita dalla Corte di giustizia europea della portata da
attribuirsi alle norme comunitarie ovvero in seguito ad una pronuncia di
incostituzionalità della Corte costituzionale italiana della normativa
precedentemente vigente.
Quale
norma dovrà dunque applicarsi all’imputato nei confronti del quale sia stata
esercitata l’azione penale medio tempore,
ossia durante la permanenza in vigore delle norme nazionali non (pienamente)
ottemperanti agli obblighi comunitari e tuttavia più favorevoli all’imputato
rispetto alla disciplina previgente della medesima materia (e in attesa della
pronuncia interpretativa della Corte di giustizia nonché dell’imprescindibile
intervento riformatore-adeguatore del legislatore nazionale)? L’applicazione
delle norme penali più favorevoli sembra imporsi in forza del principio di cui
all’art. 2, comma 3 c.p. : con riferimento specifico alle fattispecie rese
oggetto di indagine in questa sede, si deve pertanto ritenere che agli imputati
accusati della commissione di fatti risalenti all’epoca della vigenza del
vecchio testo degli artt. 2621 e 2622 c.c. si debba oggi applicare la nuova
disciplina scaturente dal testo novellato delle norme da ultimo menzionate in
quanto norme penali più favorevoli; si dovrà inoltre ritenere che tale norma
accompagni lo svolgimento del processo nella sua interezza e fino alla sua
conclusione, e debba ispirare la decisione del giudice quale unico criterio di
riferimento. In conclusione, la applicazione della norma successiva più
sfavorevole, concepita dal legislatore in ottemperanza agli obblighi comunitari
quali declinati da pronuncia interpretativa della Corte di giustizia, non potrà
dunque avvenire a carico dell’imputato medesimo in ragione del divieto di
applicazione retroattiva delle norme penali (sfavorevoli).
2.
– Se concentriamo in particolare la nostra attenzione sui rimedi
giurisdizionali di cui dispone l’ordinamento comunitario al fine di accertare
ed eventualmente eliminare le violazioni degli obblighi di tutela penale
configurati dal medesimo, ed abbiamo cura di porre tali rimedi in correlazione
con il ruolo e le funzioni ascrivibili al sistema di giustizia costituzionale
nell’ordinamento interno, cercando di intercettare in modo corretto la
dialettica capace di instaurarsi fra i due sistemi, non mancheranno di emergere
conferme a favore della ricostruzione in precedenza proposta.
I
due rimedi che il Trattato comunitario offre ai fini descritti devono
identificarsi con il procedimento disciplinato dagli artt. 226-228 del Trattato
(ricorso in infrazione) e con la
procedura disciplinata dall’art. 234 del Trattato medesimo (ricorso attraverso il rinvio pregiudiziale),
che – è bene sottolinearlo - dispiegano effetti diversi e comunque non
direttamente incidenti sulla sorte delle norme nazionali configgenti con le
norme comunitarie.
Nel
primo dei ricorsi menzionati
Nel
secondo dei casi menzionati – il ricorso in via pregiudiziale –
3.-
Il seguito che la sentenza della Corte di giustizia – che sarà resa in sede di
ricorso pregiudiziale con riferimento alla interpretazione della normativa
comunitaria in relazione agli artt. 2621 e 2622 c.c. - troverà in seno
all’ordinamento italiano non potrà non risultare in larga misura condizionato
dalla pronuncia intervenuta medio tempore
in materia ad opera della Corte costituzionale italiana (sentenza 26 maggio
– 1 giugno 2004, n. 161).
Si tratta infatti di una pronuncia solo apparentemente
dichiarativa della manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità
costituzionale sottopostele dai giudici del rinvio. Certo,
Contrariamente a quanto sostiene il giudice a quo, non vale richiamarsi in senso
opposto, ad avviso della Corte, all’orientamento che ha ritenuto suscettibili
di sindacato di costituzionalità, anche in
malam partem, le c.d. norme penali di favore: ossia le norme che
stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico
più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o
comuni (il riferimento è, tra le altre, alle sentenze n. 25 del
1994; n. 167
e n. 194 del
1993; n. 148
del 1983). “Orientamento, questo, fondato — quanto all’esigenza di rispetto
del principio di legalità — essenzialmente sul rilievo che l’eventuale
ablazione della norma di favore si limita a riportare la fattispecie già
oggetto di ingiustificato trattamento derogatorio alla norma generale, dettata
dallo stesso legislatore (fermo restando, altresì, il divieto di applicazione
retroattiva del regime penale più severo ai fatti commessi sotto il vigore
della norma di favore rimossa)”.
La “valutazione legislativa in termini di “meritevolezza”
ovvero di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale”,
pur potendo presentare “più o meno ampi margini di opinabilità, avuto riguardo
alla natura degli interessi coinvolti ed agli effetti indotti dalla concreta
architettura delle soglie di punibilità a carattere percentuale”, resta pur
sempre una scelta sottratta al sindacato della Corte, “la quale non potrebbe,
senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato dall’art.
25, secondo comma, Cost. al legislatore, sovrapporre ad essa — tramite
l’intervento ablativo invocato — una diversa strategia di criminalizzazione,
volta ad ampliare l’area di operatività della sanzione prevista dalla norma
incriminatrice”.
In tal senso, giova ripeterlo, la sentenza n. 161 del 2004
si pone in un solco di continuità rispetto alla precedente dottrina del giudice
delle leggi. Si tratta tuttavia, per altro verso, come si è anticipato, di
pronuncia che sembra spingersi oltre offrendo criteri interpretativi della
vigente disciplina contenuta negli artt. 2621 e 2622 c.c. che non potranno non
venire in rilievo nell’ambito delle prossime “puntate” della vicenda.
La soluzione auspicata — segnala
La parziale (con riferimento ai riflessi sui termini di
prescrizione) neutralizzazione della scelta derogatoria “a monte” (adozione
dello schema contravvenzionale per un fatto che presenta i tratti
ordinariamente propri del delitto) tramite una pronuncia della Corte tale da
introdurre una anomalia “a valle” (applicazione ad una contravvenzione del
termine di prescrizione valevole per un delitto ormai abrogato), è intervento
che, secondo
Analoghe considerazioni vengono svolte dalla Consulta in
merito alle censure sollevate con riferimento alle soglie di punibilità a
carattere percentuale, “finalizzate ad ottenere una pronuncia che — tramite la
rimozione delle soglie stesse — estenda l’ambito di applicazione della norma
incriminatrice di cui all’art. 2621 cod. civ. a fatti che attualmente non vi
sono compresi”. La errata riconduzione delle soglie di punibilità contemplate
dall’art. 2621 c.c. alla categoria delle norme penali di favore – assunto che
legittimerebbe la configurazione della sottoponibilità a sindacato di
costituzionalità delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o
ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe
dall’applicazione di norme generali o comuni – è ragionamento che – ad avviso
della Corte – “porta invero a confondere le norme penali di favore con gli
elementi di selezione dei fatti meritevoli di pena che il legislatore ritenga
di introdurre in sede di descrizione della fattispecie astratta, nell’esercizio
di scelte discrezionali “primarie” di politica criminale, di sua esclusiva spettanza”.
In conclusione, se i rilievi e le osservazioni della
signora Kokott assomigliano più ad una “requisitoria” di un pubblico ministero
piuttosto che alle conclusioni di un avvocato generale presso