A proposito di ‘interpretazione creativa’ tra diritto
penale, principi costituzionali e direttive comunitarie
di Nicola Mazzacuva
Ordinario di diritto penale alla facoltà
di Giurisprudenza dell'Università di Bologna(Ä)
1. Una pericolosa ‘globale’ incertezza (1)
sembra ormai aleggiare sul diritto penale. Non basta far capo al diritto penale
statale e alle norme incriminatrici vigenti in un dato territorio nazionale per
discernere il lecito dall'illecito in un determinato momento storico.
Norme
‘superiori’, quali i ‘precetti’ del diritto comunitario, sarebbero, invero,
sempre pronte persino ad estendere e, addirittura, a far rivivere la punibilità
di un fatto non più considerato penalmente rilevante ovvero diversamente
sanzionato, rispetto al passato, in ambito nazionale (2).
In una
recente (notissima) vicenda giurisprudenziale (3),
l'Avvocato Generale presso
Si
sostiene, in particolare, che – in caso di accoglimento della questione
sottoposta al vaglio della Corte europea – i Giudici nazionali sarebbero comunque «obbligati … a dare applicazione, nei procedimenti penali
dinanzi ad essi pendenti, ai precetti contenuti nelle direttive sul diritto societario senza necessità di una
preventiva pronuncia delle Corte costituzionale italiana» sul precetto
nazionale; pronuncia, comunque, sempre possibile nel caso in cui quest’ultimo «venga sottoposto, in aggiunta, ad un esame
da parte di un giudice costituzionale». Tuttavia, «indipendentemente dall’effettuazione di un tale controllo di
costituzionalità e indipendentemente dalla conformità o non conformità [del
testo nazionale] alla Costituzione
italiana, i giudici del rinvio, nel caso concreto, cioè nei procedimenti penali
dinanzi ad essi pendenti, devono già disapplicare tale decreto legislativo
nella parte in cui le novità ivi previste non sono conformi al diritto
comunitario» (punti n. 136-138 delle ‘conclusioni’).
A
giudizio del rappresentante dell’Istituzione europea, il principio di legalità
non sarebbe infatti «compromesso poiché
la responsabilità penale degli imputati nelle cause principali non deriverebbe
in nessun caso … dalle direttive sul diritto societario … [né tantomeno] … dall’art. 10 CE», avendo tali fonti
comunitarie, quale unico effetto, quello di rendere inapplicabili «le modifiche normative introdotte dal d. lgs. n.
61/2002» e, al contrario, applicabile «la legge nazionale nella sua versione in vigore all’epoca dei fatti». In
questo modo «la punibilità degli imputati»
troverebbe il proprio fondamento «sul
diritto nazionale vigente all’epoca dei fatti, vale a dire sull’originario art.
2621 del codice civile» (punto n. 145).
Né può essere eccepito – secondo l’Avvocato Generale – «che la precedente
fattispecie di reato, contenuta nell’originario art. 2621 del codice civile, è
“passata ad vitam aeternam” a seguito della sua abrogazione», giacché, secondo un «obbligo sempre vigente di garantire sanzioni efficaci, proporzionate e
dissuasive», al legislatore interno sarebbe
comunque vietato «abrogare
improvvisamente un regime sanzionatorio esistente senza sostituirlo
contemporaneamente con altre sanzioni
efficaci, proporzionate e dissuasive» (punto n. 146).
In altri termini, l’abrogazione dell’originaria disposizione
normativa non escluderebbe che la fattispecie di reato ivi prevista «possa continuare ad applicarsi ai fatti
commessi prima della sua abrogazione», dal momento che la sua
‘ultravigenza’ sarebbe comunque corrispondente «al principio della legalità della pena (nullum crimen, nulla poena
sine lege) commisurare sempre un reato
alla legge penale in vigore al momento in cui è stato commesso» (punto n.
147).
Il
singolare ragionamento sfocia, nella sua progressione argomentativa, nella
seguente conclusiva affermazione: gli imputati «all'epoca dei fatti non potevano fare affidamento sul fatto che i reati
loro contestati sarebbero stati puniti [successivamente] in modo meno severo … o che non
sarebbero stati puniti per nulla» (punto n. 152).
Né si
considera operante l'indiscusso canone penalistico della retroattività della
legge più favorevole: i giudici nazionali sarebbero «tenuti a garantire l'attuazione dei precetti del diritto comunitario,
disapplicando le disposizioni nazionali anche quando si tratti di leggi penali
più favorevoli», osservandosi persino che «una legge penale contrastante con il diritto comunitario adottata
successivamente non costituisce una legge più favorevole applicabile» (punto n. 165).
2. A ben vedere, la ‘perentorietà’ di
siffatte conclusioni non può certo nascondere i vizi, davvero eclatanti, di
siffatto argomentare.
Si
dovrebbe riconoscere, infatti, una sorta di inammissibile e intollerante ultrattività di qualsivoglia norma
incriminatrice.
Eventuali
caducazioni ovvero modifiche in melius della
stessa sarebbero sempre connotate da provvisorietà e precarietà per ragioni di
‘diritto comunitario’.
In altri
termini, pretesi obblighi comunitari di tutela penale (4)
potrebbero sempre giustificare interventi ‘interpretativi’ in malam partem con grave violazione del principio di legalità di
cui all’art. 25, II comma, Cost. (5).
Fidarsi
della nuova legge è forse bene, ma non fidarsi è meglio !
Una
siffatta cautela derivante dall'insicurezza normativa si dovrebbe, oltretutto,
adottare nonostante che la nostra Corte Costituzionale escluda costantemente e
con fermezza che «si possa introdurre in
via additiva nuovi reati o che l'effetto di una sua sentenza possa essere
quelle di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di
interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore»
(così, da ultimo, Corte
Cost. n.161/04, punto in dir. 7.1., che richiama, ex plurimis, le sentenze n. 411/95, 508 e 580/00; 49/02).
Gravissime
discriminazioni e palesi violazioni del fondamentale canone dell'eguaglianza
sarebbero, poi, inevitabili.
I singoli
giudici nazionali chiamati (persino contro i dettami della propria Corte
Costituzionale!) a ‘disapplicare’ norme penali (poco incisive) in vigore e ad
applicare il ‘buon (perché più severo
e, in quanto tale, conforme ai principi comunitari) diritto penale antico’ potranno
diversamente interpretare il preteso ‘contrasto’ e, così, consegnare alla
effettività della prassi proprio una molteplicità di differenti soluzioni.
Quale
sarebbe, poi, la sorte dei fatti comunque commessi sotto l'impero della legge
più favorevole ?
In questo
caso, se - come si spera (e lo stesso Avvocato Generale, per fortuna, questo
opina (6)) - l'ultrattività della vecchia norma
non opera e quella in vigore ‘più favorevole’ è irrimediabilmente da
disapplicare, ne conseguirebbe - con buona pace degli inderogabili precetti
comunitari - proprio l'assoluta
irrilevanza dei comportamenti illeciti posti in essere dopo l'entrata in
vigore delle norme ‘anticomunitarie’.
Incertezza
per i ‘vecchi criminali’ e certezza (di assoluzione) per i ‘nuovi’.
Con
riguardo, poi, alla vicenda interpretativa in esame, una altrettanto palese e
intollerabile diseguaglianza di trattamento si verrebbe immediatamente a
determinare. Tutti i casi ‘simili’ (quanto al tempus commissi delicti) già decisi - dal
Nell'ambito
dei primi procedimenti (7), i
fatti commessi sotto l'impero della ‘vecchia’ norma, cioè, sono già stati
giudicati definitivamente sulla base delle nuove ‘più favorevoli’ (ad es., con
esito assolutorio); nell'ambito dei procedimenti tuttora pendenti il
malcapitato reo si troverebbe, invece, sempre esposto alla condanna sulla base
di norme abrogate, ma reviviscenti !!
In
realtà, sul piano della successione normativa, conseguente a nuove opzioni di
politica criminale, si acquisisce - proprio come ripetutamente osserva la
nostra Corte Costituzionale - un'unica e definitiva certezza:
dovrà applicarsi, infatti, indistintamente a tutti gli imputati la nuova
disposizione.
Al
momento dell'approvazione di una legge, modificatrice di altra preesistente, il
cittadino sa che il (suo) comportamento illecito verrà da allora in avanti - ma
anche se realizzato in precedenza - sanzionato con le disposizioni da ultimo
introdotte.
È proprio
la riserva assoluta di legge in materia penale, «colta così efficacemente nel rapporto tra principio di democrazia e
natura della sanzione penale» (8),
che impone una simile conclusione e che non ammette ‘aggiramenti’ di alcun
tipo.
Per
nessun motivo, potrebbe avere ingresso, in sede giudiziaria, un'interpretazione
‘creativa’, rinnegante le scelte legislative già compiute. Se la nuova disposizione
penale risulta opinabile ovvero, addirittura, in contrasto con norme
dell'ordinamento costituzionale o comunitario, potrà e dovrà essere soltanto il
legislatore a nuovamente intervenire; a ciò indotto dagli ‘inviti’ della prassi
giurisprudenziale, dall'elaborazione della scienza penalistica, dalla ‘critica’
esercitata da ogni possibile soggetto politico, nonché dalle ‘sanzioni’
eventualmente comminabili per il mancato adeguamento a principi ‘superiori’, in
ipotesi violati.
Una
soccombenza, nel bilanciamento, della riserva di legge penale (statale)
rispetto al principio comunitario di ‘leale
cooperazione’ comporterebbe, del resto, una sorta di inammissibile
‘fissità’ non solo nelle scelte di criminalizzazione, ma persino nella
dosimetria del trattamento punitivo (necessariamente detentivo ?) ovvero
nella sua possibile ‘sostituzione’ sulla base dei ‘progressi’ eventualmente
raggiunti in tema di misure (comunque) sanzionatorie.
Nozioni -
come ‘adeguatezza, efficacia e dissuasività’ delle sanzioni - del tutto
indeterminate e generiche rispetto al
complessivo quadro delle risposte punitive (di carattere penale ovvero
extrapenale) non avrebbero, invero, neppure la potenzialità di ‘vincolare’ più
di tanto il legislatore nazionale dell’atto del suo eventuale intervento. Se,
invece, il medesimo legislatore avesse optato per una penalizzazione ‘adeguata’ ovvero se la fosse trovata
casualmente a disposizione rimarrebbe definitivamente vincolato a tali scelte.
Come a
dire: «il principio di democrazia dà
esclusivamente al Parlamento il potere di decidere se, come, quanto limitare la
libertà personale dei cittadini che rappresenta (questa è la riserva di legge),
ma, quando vi siano obblighi comunitari di tutela, una volta che il Parlamento
ha deciso non può più cambiare idea. Anche se mutano i rapporti tra le forze in
esso rappresentate, ipotesi questa appartenente alla fisiologia pluralista
della democrazia. Breve: ci troveremmo in presenza di una sorta perenne,
metastorica forza costituente dell'obbligo di tutela penale comunitario, non in
quanto tale, ma nel caso in cui esso sia stato recepito o abbia avuto la
ventura di trovare corrispondenza nella “offerta” normativa nazionale» (9).
Risulta,
conclusivamente, davvero paradossale l'esito interpretativo delle ‘conclusioni’ dell'Avvocato generale.
Ogni
fondamentale principio di ‘garanzia’ del cittadino in materia penale (riserva
assoluta di legge; retroattività della norma più favorevole; inesistenza di
obblighi costituzionali di tutela e, in ogni caso, di obblighi di ‘rigida’ e
‘fissa’ sanzione) potrebbe essere travolto e rinnegato da una ‘direttiva
comunitaria’ o, meglio, dalle sue possibili interpretazioni (così) sempre
pendenti sul capo di ogni potenziale autore … ormai ‘globalizzato’ !
Ä L’autore si è occupato di teoria generale del reato, nonché di diritto penale commerciale, pubblicando tra l’altro, a tale ultimo proposito, il Trattato di diritto penale dell’impresa, vol. II, I reati societari, Padova, 1994; Il falso in bilancio. Profili penali: casi e problemi, I ed., Padova, 1996; Il falso in bilancio. Casi e problemi, II ed. (ampliata e aggiornata), Padova, 2004.
(1) Il fenomeno in taluni suoi peculiari aspetti, viene
efficacemente segnalato in dottrina (v. F. SGUBBI, Il diritto penale incerto ed efficace,
in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001,
1193 ss.).
(2) Nulla
vieta, invero, a norme comunitarie di ‘scriminare’ o limitare la responsabilità
del cittadino, chiamato - in ipotesi - dal suo ordinamento nazionale al
rispetto di obblighi inesigibili in ambito comunitario.
(3) Ci
si riferisce ai giudizi riuniti dinanzi
(4) Obblighi
evidentemente sorretti dagli artt. 11 e 117 della Carta Fondamentale.
Sull’assenza di obblighi costituzionali di ricorso alla tecnica di tutela
penalistica (con esclusione di quello ricavabile dall’art. 13, IV comma,
Cost.), cfr. G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, vol. I, Milano, 2001, 501 ss.
(5) L’attribuzione
del monopolio della produzione legislativa in materia penale al Parlamento
esclude ex se che
(6)
Nelle conclusioni si osserva, infatti, che «il
caso andrebbe valutato diversamente, semmai, qualora le fattispecie oggetto di
interpretazione si fossero verificate dopo
l'adozione del d.lgs. n. 61/2002» (punto 152 concl.).
(7)
E si tratta proprio della stragrande maggioranza dei procedimenti. Basti
richiamare le numerose pronunce edite ovvero comunque note, seppur non
pubblicate: Cfr. Trib. Milano, 23
aprile 2002, Varasi, in Guida dir., 2002, 19, 83; Trib. Reggio
Emilia, 8 maggio 2002, Reverberi, in Dir. prat. soc., 2002, 12, 72; C.
Appello Milano, 7-10 maggio 2002, Esposito,
in Guida dir., 2002, 21, 70; Trib.
Ravenna, 15 maggio 2002, Sama, in Cass. pen., 2002, 2053;
Trib. Milano, 15 maggio 2002, Dell’Utri,
in Cass. pen., 2002, 2058; Trib.
Alba, Sez. I, 16 maggio 2002, Malvino,
in Le società, 2002, 1107; Trib.
Napoli, 28 maggio 2002, Giordano, in Giur. mer., 2002, 285;
Trib. Macerata, 28 maggio 2002, Renzi,
in Foro. it., 2002, II, 401;
Trib. Napoli, 29 maggio
(8)
G. INSOLERA, op. cit., 62.
(9)
In questi termini, efficacemente, conclude G. INSOLERA, op. cit., 63-64.