Francesca Bailo*
L’aggravante e il
reato di clandestinità: illegittimità “tout
court” per la prima e rigetto con motivazione “a due tempi” per il secondo,
con qualche apertura ad altri profili d’incostituzionalità.
Sommario: 1. Il T.U. sull’immigrazione tra continue modifiche
legislative e sollevazioni di questioni di legittimità costituzionale. 2.
L’assetto normativo in cui si inscrivono le disposizioni impugnate. – 2. La
declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’aggravante della
clandestinità. – 3. La “patente di legittimità” del reato di clandestinità. una
motivazione “in due tempi”. – 4. Considerazioni finali.
1. Il T.U. sull’immigrazione tra continue
modifiche legislative e sollevazioni di questioni di legittimità
costituzionale.
Il
fenomeno dell’immigrazione ha, negli ultimi decenni, preso sempre più piede nel
nostro Paese (così come più ampiamente in ambito europeo[1]),
dove ha trovato una prima compiuta razionalizzazione normativa[2]
con il “Testo unico sulle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero” (d’ora in avanti “T.U. sull’immigrazione”), approvato con il
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. L’impianto legislativo ha però subito numerosi
aggiustamenti, in parte dovuti alla successione di esecutivi di diverso
orientamento politico, che hanno portato con sé un diverso indirizzo di
politica criminale, ma anche, e soprattutto, a causa di alcuni importanti
interventi della Corte costituzionale, operanti per la maggior parte sul piano
sanzionatorio.
Quanto
al primo profilo, le modifiche normative più significative[3],
ma anche più discusse, sono state realizzate dalle ll. nn. 189/2002 e 289/2002,
dal d.l. n. 241/2004 (conv., con modif., dalla l. n. 271/2004), dal d.l. n.
92/2008 (conv., con modif., dalla l. n. 125/2008) e, da ultimo, dalla l. n.
94/2009, senza però giungere mai all’obiettivo di operare un vero e proprio
“riassetto” della materia, reso “in astratto” possibile già in virtù dell’art.
14, comma 14, della l. delega n. 246/2005 (ora art. 14, comma 18, così come
novellato dalla l. n. 15/2009), sulla semplificazione normativa, e auspicato,
in quanto intervento prioritario, dal Consiglio di Stato nel parere espresso
nell’Adunanza del 21 maggio 2007, n. 2024 (sul Piano di azione per la
semplificazione e la qualità della regolazione). Anzi, più recentemente, si
assiste alla volontà del legislatore di proporre modifiche puntuali al T.U.
sull’immigrazione[4],
che vanno ad aggiungersi alle precedenti stratificazioni, creando però
ulteriori e inevitabili difficoltà di coordinamento.
La Corte
costituzionali, per parte sua, è stata più e più volte chiamata a pronunciarsi
sulla legittimità costituzionale delle disposizioni relative al T.U.
sull’immigrazione e, solo in pochi, ma assai rilevanti, casi ha pronunciato un
dispositivo di accoglimento. Tra questi, può essere certamente ricordata la sent. n. 223/2004[5],
in cui è stata dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost.,
l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies del T.U. sull’immigrazione (così come modificato
dall’art. 13, comma 1, della l. n. 189/2002), nella parte in cui stabiliva
l’arresto obbligatorio dello straniero colto nella flagranza della
contravvenzione di cui al comma 5-ter, e
cioè per essersi trattenuto senza giustificato motivo nel territorio dello
Stato in violazione dell’ordine del questore di lasciare il territorio
nazionale entro il termine di cinque giorni, la cui pena era fissata tra un
minimo di sei mesi e un massimo di un anno.
Nella
maggior parte dei casi però, la Consulta ha preferito mantenere un certo self-restraint, come dimostra,
esemplificativamente, la di poco successiva sent. n. 22/2007[6].
In quest’ultima decisione è stata dichiarata inammissibile la questione di
legittimità avente ad oggetto la medesima disposizione impugnata nella
precedente pronuncia, così come modificata però dal d.l. n. 241/2004, che aveva
nel frattempo trasformato il reato in delitto sanzionato con la reclusione da
uno a quattro anni, in modo da renderlo coerente con il tessuto
processual-penalistico presente nel nostro ordinamento[7].
Tuttavia, come efficacemente sostenuto da un’attenta dottrina, trapela, nella
motivazione, un continuo “vorrei ma non posso”[8]
e, a tratti, si è letto uno strenuo monito al Parlamento, soprattutto allorché
si è tenuto a sottolineare che “il quadro normativo
in materia di sanzioni penali per l’illecito ingresso o trattenimento di
stranieri nel territorio nazionale, risultante dalle modificazioni che si sono
succedute negli ultimi anni, anche per interventi legislativi successivi a
pronunce di questa Corte, presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali
da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi
costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità
rieducativa della stessa”. E, del resto, si è in quella sede precisato che si
trattava di una scelta recente del legislatore, caratterizzata da un più complessivo
innalzamento delle pene, le quali dovevano essere prese in considerazione
“nell’ambito di un esame comparativo dell’intero quadro della normativa in
materia”, valutazione questa che spettava però al legislatore, e non a una
eventuale pronuncia della stessa Corte costituzionale, che viceversa avrebbe
inciso in modo parziale “sul quadro degli squilibri denunciati, senza
determinare un superamento completo ed effettivo”.
È però nella giurisprudenza costituzionale più recente che può, forse in
modo azzardato, avvertirsi l’intenzione del Giudice delle leggi di mettere
finalmente mano al T.U. sull’immigrazione, salvando il salvabile, nel
prioritario rispetto della discrezionalità del legislatore, particolarmente
sentito per quel che concerne le scelte in merito al regime sanzionatorio da
approntare, ma neppure sottraendosi all’esigenza, che le è propria, di
annullare quelle norme o disposizioni che appaiono evidentemente irragionevoli
e, perciò, costituzionalmente illegittime. Le due faccia della medaglia, un po’
come un Giano bifronte, risultano particolarmente evidenti nelle sentenze nn. 249 e 250 del 2010,
in cui, nella prima, è stata dichiarata l’illegittimità dell’aggravante di cui
all’art. 61, n. 11-bis, C.p. e, nella
seconda, sono state invece tutte rigettate le prospettate questioni di
legittimità costituzionale del reato di clandestinità di cui all’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione, in
quanto ritenute in parte manifestamente infondate e, in parte, manifestamente
inammissibili. Ma, in realtà, quest’ultimo giudizio di legittimità
costituzionale, oltre a lasciare aperta la strada a ulteriori profili
d’incostituzionali, pur se non direttamente incidenti sulla disposizione
impugnata, ha avuto bisogno, almeno in parte, di una motivazione “a due tempi”,
essendo la Corte costituzionale tornata a puntualizzare le ragioni del rigetto,
seppur indirettamente, nella recentissima sentenza n.
359/2010.
È su queste ultime tre decisioni, e sul quadro normativo all’interno del
quale sono state originate le sopra richiamate disposizioni censurate, dunque,
che sembra opportuno concentrarsi nel prosieguo.
2. L’assetto normativo in cui si
inscrivono le disposizioni impugnate.
L’aggravante
dell’immigrazione clandestina è stata, dunque, introdotta dall’art. 1, comma 1,
lett. f), del d.l. n. 92/2008 (conv.,
con modif., nella l. n. 125/2008), nell’ambito di una più ampia politica di
contenimento e di gestione dei flussi migratori, tendente ad inasprire
l’apparato sanzionatorio già allestito dal T.U. sull’immigrazione, in linea,
del resto, con il programma del Governo Berlusconi III, che già al momento del
suo avvio aveva varato[9]
il c.d. “Pacchetto sicurezza”, di cui il citato decreto legge è parte.
La
normativa, tuttavia, ancor prima della sua definitiva entrata in vigore, aveva
già suscitato i rilievi del Consiglio superiore della magistratura che, con
parere del 1° luglio 2008, aveva criticato il “tasso di elevata rigidità”
applicativa dell’aggravante, ed il suo fondarsi su una presunzione di
pericolosità operante in modo automatico e in conseguenza di una situazione di
mera irregolarità amministrativa (non costituendo ancora la presenza irregolare
sul territorio nazionale un illecito penale)[10].
Ma anche gran parte della dottrina, nei commenti “a prima lettura”, aveva
segnalato gli ulteriori profili d’illegittimità della disciplina[11],
non a caso fatti poi propri da taluni dei giudici rimettenti.
Dal
canto suo, il reato d’immigrazione clandestina di cui all’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione è stato
introdotto dall’art. 1, comma 16, lett. a), della più recente l. n. 94/2009, non senza un lungo travaglio in sede
parlamentare. In effetti, secondo il d.d.l. originale si sarebbe dovuto far
luogo ad una fattispecie delittuosa sanzionata con la reclusione da sei mesi a
quattro anni, contemplandosi altresì la misura dell’arresto obbligatorio in
flagranza ed il rito direttissimo per “lo straniero che fa[cesse] ingresso nel
territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del Testo unico in
materia”. Il 4 novembre 2008, il Governo presentava però, a sorpresa, un
emendamento, poi accolto, che, mentre veniva a ricomprendere nella condotta
incriminata anche la permanenza irregolare nel territorio dello Stato,
trasformava in contravvenzionale la relativa fattispecie con l’ammenda da 5.000
a 10.000 Euro, non oblazionabile, venendo meno ovviamente l’arresto in
flagranza obbligatorio e rimettendosi la competenza al giudice di pace.
Come parte della dottrina ha persuasivamente sottolineato[12],
il nuovo reato potrebbe essere senza difficoltà ascritto a quello che è stato denominato
“diritto penale simbolico”, se è vero che la possibilità di dar corso
all’esecuzione in concreto di un’ammenda particolarmente onerosa per soggetti
che si trovano generalmente in condizione di forte disagio economico, oltreché
sociale, risulta sostanzialmente impraticabile. Lo stesso legislatore,
probabilmente conscio del problema, ha ritenuto che, in via sostitutiva, possa
essere applicata l’espulsione amministrativa del condannato che, se condotta a
buon fine, comporta una sentenza di non luogo a procedere. Ma proprio la
macchinosità del procedimento, evidentemente previsto per scongiurare la
prospettiva di un intasamento delle strutture destinate alla custodia, e,
quindi, anche degli istituti penitenziari[13],
comporterebbe, a giudizio di un’attenta dottrina[14],
“un’inevitabile situazione caotica negli uffici del giudice di pace”, mentre,
“a seguito della condanna simbolica il clandestino entra comunque nell’area
della potenziale incarcerazione in quanto inosservante dell’ordine di
espulsione (con ritorno della prospettiva del congestionamento degli istituti
penitenziari)”[15].
Ad analoghe conclusioni è giunto il Consiglio superiore della magistratura,
che, oltre a lamentare l’aggravio dell’attività giudiziaria che, in generale,
sarebbe derivato dall’introduzione del reato a fronte dell’imponenza del
fenomeno migratorio, ha richiamato l’attenzione sulla scarsa, se non nulla,
efficacia deterrente dell’ammenda ivi prevista e sull’inidoneità della
disposizione a conseguire i propri intenti (peraltro già perseguiti dalla
normativa vigente, in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 13 e 14
del T.U. sull’immigrazione); laddove un’irragionevole disparità di trattamento
è stata rintracciata nel confronto con la disciplina, per molti versi simile,
prevista, ai sensi dell’art. 14, comma 5-ter,
del T.U. sull’immigrazione, il quale prevede la punibilità dello straniero
inottemperante all’ordine di espulsione ove lo stesso si trattenga nel
territorio dello Stato “senza giustificato motivo”. Sempre ad avviso dell’organo
di autogoverno della magistratura, l’attribuzione al giudice di pace della
relativa competenza avrebbe, inoltre, alterato “gli attuali criteri di
ripartizione della competenza tra magistratura professionale e magistratura
onoraria”, snaturando la fisionomia di quest’ultima[16].
Tutti
questi profili critici non sono certo passati inosservati ai giudici chiamati a
dare applicazione alle citate nuove disposizioni, derivandone la sollevazione
di numerose questioni di legittimità costituzionale.
3. La declaratoria d’illegittimità
costituzionale dell’aggravante della clandestinità.
Quanto
alla circostanza aggravante del soggiorno illegale sul territorio nazionale la
Corte costituzionale aveva avuto, in un primo momento, buon gioco nel
dichiarare, per ragioni processuali, l’inammissibilità di parte delle questioni
sollevate e nel disporre, per altra parte, la restituzione degli atti ai
giudici rimettenti[17].
Tuttavia, assestatosi il quadro normativo, essa non ha potuto esimersi dal
pronunciarsi nel merito con la sent. n. 249 del
2010 pervenendo, come già accennato, a dichiararne l’illegittimità
costituzionale.
Più
nel dettaglio, i giudici a quibus
hanno prospettato, innanzitutto e sotto molteplici
profili, la violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la norma in questione
istituiva un’indebita assimilazione fra il trattamento di soggetti responsabili
d’una mera infrazione amministrativa (tale essendo ancora considerata la
violazione delle norme in materia di immigrazione all’epoca dell’ordinanza di
rimessione) ed il trattamento di soggetti che avessero abusato della propria
funzione o qualità personale (art. 61, numeri 9 e 11, C.p.), o avessero già
commesso reati in precedenza (art. 99 C.p.), o fossero già stati individuati
come pericolosi mediante un provvedimento giudiziale (art. 61, numero 6, C.p.),
o fossero comunque latitanti. Si è, inoltre, ritenuto che la norma fosse
affetta da intrinseca irragionevolezza, per essere fondata su una presunzione
di maggior pericolosità collegata alla mera carenza di un titolo per il
soggiorno nel territorio dello Stato, senza alcuna distinzione tra le varie
possibili violazioni del T.U. sull’immigrazione, e senza dare alcun rilievo al
caso che ricorresse un “giustificato motivo”. Ma è stato oggetto di denuncia
anche il contrasto con gli artt. 25, comma 2, e 27, comma 1, Cost., per il
difetto di pertinenza del maggior trattamento punitivo al fatto di reato, e per
la sua esclusiva inerenza ad uno “status
personale del reo”, così da piegarsi ai dettami del “diritto penale d’autore”,
oltreché minare, in riferimento al solo art. 27, comma 1, Cost., “il rapporto
di proporzionalità tra la pena inflitta ed il grado della responsabilità
personalmente riferibile al reo”. Ancora, la violazione dell’art. 27, comma 3,
Cost., è stata allegata a motivo della ritenuta sproporzione per eccesso della
sanzione rispetto al fatto, sul piano obiettivo e nella stessa percezione
soggettiva da parte del condannato, sì da privare la corrispondente porzione
della pena della necessaria finalizzazione rieducativa. Da ultimo, sia pure in
via consequenziale, taluno dei giudici a
quibus, richiedeva la declaratoria d’illegittimità della l. n. 94/2009,
art. 1, comma 1, in quanto meramente interpretativa della nuova previsione
circostanziale, nonché dell’art. 656, comma 9, lett. a), C.p.p., limitatamente alla parte in cui espressamente
richiamava la norma oggetto del giudizio.
Sembra peraltro di notevole interesse il fatto che la Corte[18],
già in principio di motivazione, nel decidere sulle ragioni addotte dai giudici
rimettenti, abbia voluto sottolineare, richiamando un proprio precedente del
2001[19],
che, in via generale, i diritti inviolabili spettano “ai singoli non in quanto
partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, con
ciò volendo ammonire come “la condizione giuridica dello straniero non [debba]
essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti –
come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie
nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà
fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie
contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei
confronti del potere punitivo dello Stato” (al proposito cfr. il p. 4.1 del Considerato in diritto).
Da queste osservazioni, si è, quindi, dedotta l’illegittimità di
trattamenti penali più severi “fondati su qualità personali dei soggetti che
derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato»,
e pertanto volti ad introdurre una responsabilità penale d’autore”. Qualsiasi
limitazione di diritti fondamentali deve, dunque, secondo il giudice delle
leggi, essere giustificata solo ed esclusivamente “in ragione dell’inderogabile
soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente
rilevante”, con la conseguenza che “la norma limitativa deve superare un vaglio
positivo di ragionevolezza, non essendo sufficiente, ai fini del controllo sul
rispetto dell’art. 3 Cost., l’accertamento della sua non manifesta
irragionevolezza” (al proposito cfr. il p. 4.1 del Considerato in diritto, cit.). D’altro canto, “comportamenti
pregressi dei soggetti non possono giustificare normative penali che
attribuiscano rilevanza – indipendentemente dalla necessità di salvaguardare
altri interessi di rilievo costituzionale – ad una qualità personale e la
trasformino, con la norma considerata discriminatoria, in un vero «segno distintivo»
delle persone rientranti in una data categoria, da trattare in modo speciale e
differenziato rispetto a tutti gli altri cittadini”. La finalità di contrastare
l’immigrazione, nello specifico, alla base dell’aggravante in parola, “non
rientra nella logica del maggior danno o del maggior pericolo per il bene
giuridico tutelato dalle norme penali che prevedono e puniscono i singoli
reati”, ma anzi finisce “per distaccare totalmente la previsione punitiva
dall’azione criminosa contemplata nella norma penale e dalla natura dei beni
cui la stessa si riferisce, specificamente ritenuti dal legislatore meritevoli
della tutela rafforzata costituita dalla sanzione penale” (al proposito cfr. il
p. 5 del Considerato in diritto).
A rafforzare il convincimento circa l’illegittimità della norma
denunciata, si è aggiunta la modifica introdotta dall’art. 1, comma 1, della
predetta l. n. 94/2009, che, escludendo dal campo di applicazione dell’art. 61,
n. 11-bis, C.p. i cittadini di Paesi
membri dell’Unione europea, malgrado sussistano anche per simili soggetti
ipotesi di soggiorno irregolare[20],
ha avvalorato l’ipotesi che l’aggravante censurata facesse leva prevalentemente
“sullo status soggettivo del reo”. Prendendosi poi, in esame l’intero sistema
sanzionatorio di riferimento, non si è potuto fare a meno di osservare che, se
già prima, e, cioè, quando l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio
erano considerati solo illeciti amministrativi, poteva denotarsi una
sperequazione rispetto alla previsione di un incremento della sanzione, a
carattere penale, prevista per il reato comune commesso dallo straniero, a
maggior ragione lo squilibro è risultato evidente con l’introduzione del reato
di “clandestinità”. La compresenza dell’aggravante insieme all’autonoma fattispecie
di reato hanno, infatti, portato a far sì che lo straniero extracomunitario
venga punito una prima volta all’atto della rilevazione del suo ingresso o
soggiorno illegale nel territorio nazionale, ma subisca una o più punizioni
ulteriori “determinate dalla perdurante esistenza della sua qualità di
straniero irregolare, in rapporto a violazioni, in numero indefinito”, che
pregiudicano interessi e valori che nulla hanno a che fare con la problematica
del controllo dei flussi migratori, in palese contrasto con l’art. 3 Cost. (al
proposito cfr. il p. 6 del Considerato in
diritto). Contraddizione, questa, giudicata non risolvibile in via
ermeneutica mediante il ricorso a figure idonee a scongiurare il ne bis in idem sostanziale, quale quella
del reato complesso, reputato infatti inapplicabile all’ipotesi in esame[21].
In questo quadro, la Corte, quasi “interferendo” con la motivazione volta,
invece, a rigettare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione contenuta
nella contestuale sent.
n. 250/2010, ha certamente mostrato di non ignorare un proprio ben noto e
discusso precedente[22],
in cui era stato affermato che “la stessa fattispecie di indebito trattenimento
nel territorio nazionale, che pur implica la specifica inosservanza di un
provvedimento espulsivo individualizzato, si limita a sanzionare una condotta
illecita e «prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti
responsabili»”. Ma, pur riaffermando che “la violazione delle norme sul
controllo dei flussi migratori può essere penalmente sanzionata, per effetto di
una scelta politica del legislatore non censurabile in sede di controllo di
legittimità costituzionale”, ha, poi, però in maniera inedita sostenuto che non
può introdursi “automaticamente e preventivamente un giudizio di pericolosità
del soggetto responsabile, che deve essere frutto di un accertamento particolare,
da effettuarsi caso per caso, con riguardo alle concrete circostanze oggettive
ed alle personali caratteristiche soggettive” (al proposito cfr. il p. 9 del Considerato in diritto). Per questa via,
si è quindi giunti a rinvenire il contrasto della norma impugnata pure con
l’art. 25, comma 2, Cost., e in particolare con il principio di offensività[23]
ad esso sotteso, del tutto inconferente essendo, d’altro canto, giudicata la
previsione delle circostanze aggravanti della latitanza e della recidiva. Ritenuta
invece assorbita la questione di legittimità costituzionale sollevata in
riferimento all’art. 27, comma 3, Cost., la Corte ha finalmente accolto la
questione di legittimità costituzionale consequenziale (art. 27 della l. n.
87/1953), sia dell’art. 1, comma 1, della l. n. 94/2009, reso ormai
completamente privo dell’oggetto, sia dell’art. 656, comma 9, lett. a) C.p.p. relativamente all’inciso “per
i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero
11-bis), del medesimo codice”.
4. La “patente di legittimità” del reato
di clandestinità: una motivazione “in due tempi”.
Quanto
al reato di clandestinità di cui all’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione, la Corte costituzionale, con la sent. n. 250/2010[24],
ha rigettato, invece, tutte le diverse questioni, che in gran parte, come già
accennato, ricalcavano le osservazioni critiche già formulate dalla dottrina e
dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, dichiarandole, in parte,
manifestamente infondate, e, in parte, manifestamente inammissibili.
Relativamente alle censure afferenti alla stessa scelta del legislatore di
criminalizzare la “clandestinità”, la Corte costituzionale ha riaffermato de plano il costante principio per cui
“l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo
trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore:
discrezionalità il cui esercizio può formare oggetto di sindacato, sul piano
della legittimità costituzionale, solo ove si traduca in scelte manifestamente
irragionevoli o arbitrarie” (al proposito cfr. il p. 5 del Considerato in diritto). Più nel dettaglio, si è, in primo luogo,
sostenuto che non è stato vulnerato il principio di materialità e offensività
di cui all’art. 25, comma 2, Cost., dal momento che il reato sospettato di
legittimità costituzionale non incrimina un “modo d’essere della persona, ma
uno specifico comportamento, trasgressivo di norme vigenti”. Posto che la
condizione di clandestinità non costituisce “un dato preesistente ed estraneo
al fatto”, bensì “la conseguenza della stessa condotta resa penalmente
illecita”, non potrebbe neppure riconoscersi la sussistenza di un “diritto
penale d’autore”, di per sé inoffensivo, dal momento che il bene giuridico
tutelato è chiaramente individuabile nell’interesse dello Stato “al controllo e
alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo”
(al proposito cfr. i pp. 6.2 e 6.3 del Considerato
in diritto), comune a buona parte delle norme incriminatrici presenti nel
T.U. sull’immigrazione[25].
Né la fattispecie potrebbe, come sostenuto dai giudici rimettenti, sussumersi
nella categoria dei reati a “pericolo presunto”, non rispondente all’id quod plerumque accidit e perciò
stesso arbitrario, poiché la norma, similmente alla generalità delle norme
incriminatrici, si limiterebbe “a reprimere la commissione di un fatto
oggettivamente (e comunque) antigiuridico, offensivo di un interesse reputato
meritevole di tutela”[26]
(al proposito cfr. il p. 6.4 del Considerato
in diritto).
Circa le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento
all’art. 3 Cost., la Corte ha rilevato come, ad essere punita, non sia “una
condotta di vita”, ma soltanto l’inosservanza delle norme sull’ingresso e il
soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato, la cui diversa gravità
può essere apprezzata dal giudice in sede di commisurazione concreta della
pena, nell’ambito della forbice edittale che, pur essendo solo di tipo contravvenzionale
e pecuniario, è sufficientemente ampia da rendere ammissibile per il
legislatore “includere in uno stesso paradigma punitivo una pluralità di
fattispecie distinte per struttura e disvalore, spettando in tali casi al
giudice far emergere la differenza tra le varie condotte tramite la graduazione
della pena tra il minimo e il massimo edittale” (al proposito cfr. il p. 7 del Considerato in diritto).
Per quanto concerne l’asserita violazione dei diritti inviolabili
dell’uomo e del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., la
giurisprudenza in commento ha chiarito che, a voler seguire la prospettazione
del giudice rimettente, la ragione di illegittimità costituzionale “non
risiederebbe nella scelta di configurare come reato l’inosservanza delle
disposizioni sull’ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio dello
Stato – vale a dire nella sanzione – ma, più a monte, nello stesso precetto”, e
quindi nelle regole – non oggetto però del giudizio di legittimità
costituzionale – “che precludono o limitano l’ingresso o la permanenza degli
stranieri (o, quantomeno, degli stranieri «indigenti») nel territorio dello
Stato, a prescindere dal fatto che la violazione venga punita con la sanzione
penale o con semplice sanzione amministrativa” (al proposito cfr. il p. 8 del Considerato in diritto). In ordine, più
specificamente, al principio di solidarietà, si è poi ribadito, secondo quanto
ormai costantemente sostenuto[27],
che “le ragioni della solidarietà umana non sono di per sé in contrasto con le
regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso
migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione degli stranieri”, al
proposito il legislatore potendo fruire di un’ampia discrezionalità censurabile
solo per il caso in cui le scelte operate si palesino manifestamente
irragionevoli.
La stessa lamentata doglianza di aver dato luogo, con la norma in
questione. a una duplicazione del procedimento, già esistente in via
amministrativa, dell’espulsione disposta dal prefetto ai sensi dell’art. 13,
comma 2, del T.U. sull’immigrazione, pure riscontrata dalla stessa Corte
costituzionale, non ha però dato luogo a un dispositivo d’accoglimento, sul
presupposto che il legislatore, nella configurazione dell’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione “mostra
di considerare l’applicazione della sanzione penale come un esito «subordinato»
rispetto alla materiale estromissione dal territorio nazionale dello straniero
ivi illegalmente presente”[28],
ma anche perché, come l’esperienza attesta, “in un largo numero di casi non è
possibile, per la pubblica amministrazione, dare corso all’esecuzione dei
provvedimenti espulsivi” (al proposito cfr. il p. 10 del Considerato in diritto). Così argomentando la Consulta è quindi
arrivata persino a rintracciare una “ratio”
dell’assetto normativo considerato, “nel diminuito interesse dello Stato alla
punizione di soggetti ormai estromessi dal proprio territorio”, a nulla
rilevando la pur ammessa ridotta capacità dissuasiva della pena dell’ammenda, visto
che l’opportunità della scelta legislativa su un piano di politica criminale e
giudiziaria rimane estraneo al sindacato di costituzionalità[29].
Con riferimento, poi, ad un secondo gruppo di questioni che investivano
specifici segmenti della disciplina del reato, si è, in primo luogo, chiarito
che la mancata previsione della clausola “senza giustificato motivo”, presente,
invece, nell’art. 14, comma 5-ter,
del T.U. sull’immigrazione[30],
sarebbe riconducibile al fatto che essa si inscrive nella specifica finalità
dell’incriminazione in cui è prevista e nel quadro normativo su cui
l’incriminazione stessa si innesta. Detta clausola, peraltro, non sarebbe
“indispensabile al fine di assicurare la conformità al principio di
colpevolezza di ogni reato in materia di immigrazione, e particolarmente di
quello oggetto dell’odierno scrutinio”, in quanto “la mancanza della clausola
non impedisce che le esimenti generali trovino comunque applicazione”. Rispetto
alla contravvenzione in esame, come la stessa Corte ha rilevato,“è, d’altra
parte, rinvenibile un diverso strumento di «moderazione» dell’intervento
sanzionatorio, non operante in rapporto alla fattispecie criminosa posta a
confronto” (al proposito cfr. il p. 11.2 del Considerato in diritto), ossia quello dell’istituto della
improcedibilità per particolare tenuità del fatto reso applicabile
dall’attribuzione della competenza al giudice di pace (ex art. 34 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274). Una qualche maggiore puntualizzazione in ordine al
rigetto di detta questione di legittimità, peraltro, è stata, seppur,
indirettamente, fornita dalla stessa Corte costituzionale, con una successiva
sentenza (Corte
cost., sent. 17 dicembre 2010, n. 359), così da dar luogo, in un certo
senso, e come del resto già accennato, a una motivazione “in due tempi”.
Essa è, infatti, tornata a pronunciarsi sul Testo unico sull’immigrazione,
e più precisamente sull’art. 14, comma 5-quater,
così come modificato dall’art. 1, comma 22, lett. m), della l. n. 94/2009, dichiarandolo
illegittimo proprio nella parte in cui non disponeva che
l’inottemperanza all’ordine di allontanamento, secondo quanto già previsto per
la condotta di cui al precedente comma 5-ter,
“sia punita nel solo caso che abbia luogo «senza giustificato motivo»”. E, a
giustificazione di questo ultimo dispositivo, ha tenuto a specificare che
l’irragionevolezza della disposizione impugnata poteva facilmente desumersi dal
raffronto con il comma 5-ter del
medesimo articolo in quanto le due condotte incriminate erano, nella sostanza,
le medesime, consistendo, allo stesso modo, nella permanenza nel territorio
dello Stato da parte dello straniero al quale sia stato impartito dal questore
l’ordine di allontanarsi, a nulla rilevando il fatto che l’omissione cui si
riferiva la norma censurata facesse seguito ad altra omissione dello stesso
genere[31].
In definitiva, le stesse ragioni, di natura sociale e umanitaria, che
sostenevano la scelta del legislatore di prevedere la “clausola di salvezza”
prima ricordata, si potevano benissimo attagliare al caso di cui all’art. 14
comma 5-quater. E, quasi a
giustificare quello che poteva, solo in apparenza, sembrare un cambio di rotta
rispetto a quanto sostenuto nella sent. n. 250/2010,
si è, infatti, voluto precisare che nella fattispecie di cui all’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione, al
contrario, il principio di uguaglianza non imponeva l’inserimento della
clausola, anche nella parte in cui si sanzionava la violazione del dovere di
lasciare il territorio nazionale in assenza di un valido titolo di soggiorno,
mancando “la dipendenza dell’obbligo da un ordine mirato ed individualizzato
dell’Autorità, la cui inosservanza entro il termine indicato comporta un «netto
salto di qualità nella risposta punitiva»”.
Tutte manifestamente inammissibili sono state, infine, ritenute le
ulteriori questioni sollevate, le quali, tuttavia, contrariamente alla “patente
di legittimità” conferita a quelle trattate nel merito, lasciano trasparire, a
tratti, qualche ulteriore e diversa soluzione in possibili successive pronunce,
nel caso fossero diversamente prospettate[32].
Il riferimento è, più precisamente, alla denunciata illegittimità della facoltà
del giudice di sostituire, nel caso di condanna, la pena pecuniaria comminata
con la misura dell’espulsione. La Corte costituzionale ha, infatti, al
proposito sostenuto che “la lesione costituzionale denunciata non deriva,
infatti, dalla disposizione impugnata, ma da norme distinte, non coinvolte
nello scrutinio di costituzionalità: in specie, dall’art. 16, comma 1, del
d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui – a seguito della modifica operata
dalla legge n. 94 del 2009 – estende l’applicabilità dell’espulsione come
sanzione sostitutiva alla contravvenzione di cui all’art. 10-bis del medesimo decreto legislativo;
nonché dalla disposizione correlata dell’art. 62-bis del d.lgs. n. 274 del 2000, in forza della quale – diversamente
da quanto stabilito dal precedente art. 62 con riferimento alle sanzioni
sostitutive previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema
penale) – «nei casi stabiliti dalla legge, il giudice di pace applica la misura
sostitutiva di cui all’art. 16 del testo unico di cui al decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286»”[33]
(al proposito cfr. il p. 12 del Considerato
in diritto). E allo stesso modo, il denunciato contrasto con l’art. 3 Cost.
del divieto della concessione della sospensione condizionale della pena “non
scaturisce, infatti, neppure essa dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, quanto piuttosto dalla nuova
lettera s-bis) dell’art. 4, comma 2,
del d.lgs. n. 274 del 2000, che attribuisce la competenza per il reato in esame
al giudice di pace, rendendo così operante il disposto dell’art. 60 del
medesimo decreto legislativo: norme non sottoposte a scrutinio” (al proposito
cfr. il p. 13 del Considerato in diritto).
Così ancora la censurata violazione dell’art. 24, comma 2, Cost. per l’asserita
introduzione di un obbligo di autodenuncia nei confronti del migrante, non
deriverebbe, ad avviso della Corte “dalla norma incriminatrice recata dall’art.
10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, ma,
semmai, secondo la prospettazione del rimettente, dal difettoso coordinamento
di talune disposizioni “collaterali” (artt. 6, 35 e 38 del d.lgs. n. 286 del
1998): più in particolare, dalla mancata previsione, nel citato art. 38, di una
esenzione dall’obbligo di segnalazione all’autorità del migrante irregolare da
parte del personale scolastico, analoga a quella sancita dall’art. 35, comma 5,
del d.lgs. n. 286 del 1998 con riferimento al personale sanitario, che però non
sono state coinvolte nell’impugnativa e che non sono venute in rilievo nel
giudizio a quo[34]» (al proposito cfr. il p. 16 del Considerato in diritto).
5. Considerazioni finali.
Rapidamente concludendo questa prima lettura delle decisioni in parola,
non può non avvertirsi qualche motivo di reciproca dissonanza, dal momento che,
se la sent. n.
250/2010 sembra aver dato una sorta di “patente di legittimità” al reato di
clandestinità, salvo poi lasciare aperta l’ipotesi di nuove prospettive entro
le quali poter individuare eventuali profili d’illegittimità (non però
strettamente incidenti sull’art. 10-bis
del T.U. sull’immigrazione), la sent. n. 249/2010,
ha riaffermato l’inviolabilità e l’uguaglianza nei diritti di tutti gli uomini,
e non solo dei cittadini, e, proseguendo nella motivazione, ha più volte
rilevato, con un certo distacco, il trend
di aggravamento sanzionatorio dato che la fattispecie assurta ora a
illecito penale era stata in precedenza configurata come un mero illecito
amministrativo, rimarcandosene, pur nella constatata discrezionalità
legislativa, la non perfetta coerenza complessiva. E, da ultimo, la sent. n. 359/2010
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di un’altra disposizione del T.U.
sull’immigrazione proprio perché ritenuta omogenea, nell’ambito di un giudizio
di ragionevolezza, rispetto al medesimo
tertium comparationis invece ritenuto eterogeneo se posto a confronto con
l’art. 10-bis del T.U.
sull’immigrazione, sentendo dunque la necessità di giustificare il più recente,
e solo apparente, cambio di rotta.
Sembra, dunque, lecito non ritenere la partita completamente chiusa, visto
che la legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione, se appare maggiormente ferma nella sent. n. 250/2010,
soffre di qualche incertezza nella sent. n. 249/2010
e, in un certo senso, proprio per l’esigenza di una motivazione “in due tempi”,
si rende più debole nella sent. n. 359/2010.
* Dottore di ricerca in Metodi e tecniche della formazione e della
valutazione delle leggi.
[1] Per una sintetica ricostruzione dei più importanti “passaggi” della politica comunitaria in materia d’immigrazione fino ai più recenti sviluppi (cfr. in particolare, e più recentemente, la direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 recante “Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”), cfr. L. Trucco, Il permesso di soggiorno nel quadro normativo e giurisprudenziale attuale, in P. Costanzo, S. Mordeglia, L. Trucco, Immigrazione e diritti umani nel quadro legislativo attuale, Milano, 2008, 11 ss., specc. 14-16; Id., Identificazione degli immigrati e nuove tecnologie, nella rivista telematica Federalismi.it del 29 aprile 2009¸ Id., Identificazione degli immigrati e nuove tecnologie (atto II), nella rivista telematica Teutas del 21 maggio 2009. Recentemente deve poi registrarsi, in Francia, una politica di sicurezza particolarmente dura intrapresa dal Presidente Sarkozy, e volta in particolare a una vera e propria “espulsione di massa” dei campi rom illegali, che colpisce in particolare cittadini rumeni e bulgari, nonché il togliere la cittadinanza a neofrancesi di origine straniera macchiatisi di particolari reati. Deve peraltro avvertirsi, al proposito, che la Commissione UE ha più volte posto l’attenzione sulla citata strategia politica, ammonendo gli Stati membri a fare buon uso della direttiva sul libero movimento dei cittadini del 2004, ricordando che in materia di espulsione deve essere sempre rispettato il principio di proporzionalità e che le valutazioni devono essere compiute caso per caso, quindi virtualmente non sarebbero possibili espulsioni di massa. Avere mezzi di sostentamento, non pesare sul sistema di sicurezza sociale, avere un’assicurazione sanitaria e non costituire un pericolo per la pubblica sicurezza sono i quattro criteri chiave che dovrebbero infatti, sempre ad avviso della Commissione Ue, essere soppesati dalle autorità nell’analisi di ogni singola situazione.
[2] Per un maggior approfondimento sui
precedenti interventi normativi in materia d’immigrazione, anche se in modo
maggiormente dettagliato sul permesso di soggiorno, cfr. L. Trucco, Il permesso di soggiorno nel quadro normativo, cit., spec. 13-14.
[3] I principali interventi modificativi apportati al “T.U. sull’immigrazione”, al momento in cui si scrive, sono stati introdotti dai d.lgs. nn. 380/1998 e 113/1999; dal d.l. 4 aprile 2002, n. 51; dalle leggi nn. 189/2002 e 289/2002; dal d.lgs. n. 87/2003; dai d.l. 14 settembre 2004, n. 241 (conv., con modif., dalla l. 12 novembre 2004, n. 271) e 27 luglio 2005, n. 144 (conv., con modif., dalla l. 31 luglio 2005, n. 155); dai d.lgs. 8 gennaio 2007, nn. 3 e 5; dal d.l. 15 febbraio 2007, n. 10 (conv., con modif., dalla l. 6 aprile 2007, n. 46); dal d.lgs. 10 agosto 2007, n. 154 e, più recentemente, dal d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 17 e dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (conv., con modif., dalla l. n. 125 del 2008), dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 (conv., con modif., dalla l. 23 aprile 2009, n. 38). Ancora più recenti risultano, infine, la l. 15 luglio 2009, n. 94 (recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”), la l. 30 giugno 2009, n. 85, sull’adesione al Trattato di Prüm e tre decreti legislativi, rispettivamente, sul ricongiungimento, sul riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato e sulla libera circolazione dei cittadini comunitari. Al proposito cfr., comunque, per un primo commento, L. Trucco, Identificazione degli immigrati e nuove tecnologie, cit., Id., Identificazione degli immigrati e nuove tecnologie (atto II), cit. Cfr. peraltro anche Corte cost., sent. 7 febbraio 2000, n. 31, (con osservazioni di R. Bin, Potremmo mai avere sentenze sui referendum del tutto soddisfacenti? Una considerazione d’insieme sulle decisioni referendarie del 2000, in Giur. cost., 2000, 222 ss.; M. Cerase, Dal giudizio sull’ammissibilità del referendum a quello sulla sovranità di Stato, ibidem, 228 ss.; G. Bascherini, Referendum sull’immigrazione: l’intervento di soggetti terzi, la natura composita dell’oggetto referendario, il limite degli obblighi internazionali, ibidem, 233 ss.) con cui è stato dichiarata l’inammissibilità di un referendum mirante ad abrogare l’intero T.U. sull’immigrazione, dal momento che in detta ipotesi sarebbe venuta meno, da un lato, la disciplina circa l’ingresso e il soggiorno degli stranieri e, dall’altro, si sarebbe determinata una lacuna per quanto concerne le sanzioni penali a carico di coloro che sfruttavano il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Oltretutto in tal modo l’Italia si sarebbe resa inadempiente agli obblighi derivanti dagli artt. 2, 5, 6, 18, 23 e 27 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e quindi dal Trattato di Amsterdam, così violando anche l’art. 75 Cost., nella parte in cui prevede il divieto di referendum abrogativo sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e sulle altre disposizioni normative che producono effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività di tali leggi.
[4] Il riferimento è, in particolare,. al
d.d.l. S. n. 2494 (recante “Nuove
disposizioni in materia di sicurezza pubblica”), presentato al Senato dal
ministro Maroni il 13 dicembre 2010, e attualmente assegnato alle commissioni
riunite 1ª (Affari Costituzionali) e 2ª (Giustizia) in sede referente che, oltre a
prevedere modifiche puntuali agli artt. 3 e 22, comma 11, del T.U.
sull’immigrazione, contiene disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento nazionale a quello comunitario in materia di libera
circolazione dei cittadini comunitari e dei loro familiari, volte ad evitare
l’imminente apertura di procedure di infrazione già annunciate. Occorre
peraltro sottolinearsi che, accanto al citato d.d.l., il Governo ha presentato
il d.l. 12 novembre 2010 n. 187 (conv, con modif., nella l. n. 217/2010) che,
pur non incidendo sul T.U. sull’immigrazione, reca comunque “Misure urgenti in materia di sicurezza”.
[5] A commento della citata decisione cfr. le osservazioni di A. Rauti, La libertà personale degli stranieri fra (ragionevole) limitazione e (illegittima) violazione: la consulta segna un’ulteriore “tappa” nel tortuoso “cammino” degli extracomunitari, in Forum di Quaderni costituzionali, 2004; E. Zimbelli, Lo straniero di fronte all’esecuzione del provvedimento amministrativo di espulsione: principi costituzionali e discutibili scelte legislative, ibidem, 2004; G. Bascherini, La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge Bossi-Fini, in Costituzionalismo.it, 2004; M. Mengozzi, Le recenti vicende del testo unico sull'immigrazione tra Corte costituzionale e legislazione d'urgenza, in Associazione dei costituzionalisti, 2004.
[6] A commento della citata decisione cfr. le osservazioni di C. Fatta, L’indebito trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato al vaglio della Corte costituzionale, Giur., it., 2007, 2415 ss.; D. Brunelli, La Corte costituzionale “vorrebbe ma non può” sulla entità delle pene: qualche apertura verso un controllo più incisivo della discrezionalità legislativa, in Giur. cost., 2007, 181 ss.; M. Malena, L’incoerenza delle sanzioni penali per la permanenza illegittima dello straniero: il monito della Corte, in Forum di Quaderni costituzionali, 2007).
[7] Per meglio precisare, se il decreto-legge mirava esclusivamente a
sopprimere la previsione processuale dichiarata illegittima, conservando la
natura contravvenzionale del reato de qua,
è stato invece con la l. di conversione che si è avuta la trasformazione della
fattispecie criminosa in delitto, punita con una reclusione tale da restituirle
coerenza rispetto ai principi fissati nell’art. 280 c.p.p. La nuova
disposizione è stata però molto criticata in dottrina. Al proposito cfr. A. Caputo, Prime note sulle modifiche alle norme penali del Testo unico
sull’immigrazione, in Quest. giust.,
2005, 2, spec. 245.
[8] Il riferimento è a D. Brunelli, La Corte costituzionale “vorrebbe ma non può”, cit., 181 ss.
[9] Sul punto cfr. amplius, L. Trucco, Identificazione degli immigrati e nuove tecnologie, cit., Id., Identificazione
degli immigrati e nuove tecnologie (atto II), cit.
[10] Sul punto cfr., amplius, E. Stradella,
Recenti tendenze del diritto penale
simbolico, in E. D’Orlando, L.
Montanari, (curr.), Il diritto
penale nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 2009, 238, nonché G. Dodaro, Discriminazione dello straniero irregolare nell’aggravante comune della
clandestinità, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2008, 1634 -1635.
[11] Per un primo approfondito commento
della nuova disposizione, ex multis,
cfr. L. Masera, Le misure del pacchetto sicurezza in materia
di immigrazione, in O. Mazza - F.
Vigano (curr.), Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica, Torino, 2008, 5 ss.; G.L. Gatta, Modifiche
in tema di circostanze del reato, in Aa.Vv.,
“Decreto sicurezza”: tutte le novità,
Milano, 2008, 27 ss.; G. Dodaro, Discriminazione dello straniero irregolare,
cit., 1634 ss.; D. Pulitanò, Tensioni vecchie e nuove sul sistema penale,
in Dir. pen proc., 2008, 1077 ss.; A. Peccioli, La clandestinità come circostanza aggravante, ivi, 2009, 42 ss. Per
alcuni commenti critici “a prima lettura”, antecedenti alla stessa entrata in
vigore del d.l. n. 92/2008, cfr. V. Onida,
Efficacia non scontata per il ricorso al
penale, in Il Sole 24 ore del 22
maggio 2008, e S. Rodotà, Sicurezza. L’uguaglianza calpestata, in La Repubblica del 22 maggio 2008.
[12] Il riferimento è a P. Pisa, Sicurezza atto secondo: luci ed ombre di un’annunciata miniriforma,
in Dir. pen. e proc., 2009, 1, 6, ma
anche, e soprattutto, a E. Stradella,
Recenti tendenze del diritto penale simbolico,
cit., 237, cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti dottrinali in ordine
al diritto penale simbolico in generale.
[13] Al proposito cfr. P. Pisa, Sicurezza atto secondo, cit., 5.
[14] Il riferimento è a P. Pisa, Sicurezza atto secondo, cit., 6.
[15] Così cfr. ancora P. Pisa, Sicurezza atto secondo, cit., 6, il quale aggiunge però che gli
effetti negativi ora descritti si presentano nel presupposto di
“un’applicazione effettiva della nuova normativa; se invece fosse sottinteso un
messaggio criptato alle forze di polizia di limitarsi a controlli sporadici (e
quindi a scarse denunce) si eviterebbe il collasso del sistema ma si
rivaluterebbe la serietà delle grida di manzoniana memoria”. E, infine,
conclude sostenendo che, se il vero obiettivo della disposizione in esame è
l’espulsione, l’intasamento della giurisdizione penale è dovuto al fatto che
“l’effettiva attuazione delle espulsioni continua a presentare, nonostante i
proclami propagandistici, i consueti problemi: l’accompagnamento alla frontiera
è spesso inattuabile (per la distanza, per l’incertezza o la scarsa
collaborazione dei Paesi di destinazione)”. In definitiva, “si cerca di
mascherare l’efficienza operativa sventolando la bandiera dell’intervento
penale con spreco di risorse e risultati improbabili che non giovano alla
credibilità dell’ordinamento italiano”.
[16] Una
segnalazione ha riguardato anche l’inevitabile incidenza negativa del nuovo
reato “in tema di accesso a servizi pubblici essenziali relativi a beni
fondamentali tutelati dalla Costituzione”.
[17] Il riferimento è a Corte cost., ord.
29 ottobre 2009, n. 277, in cui è stata dichiarata, in parte, la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, n.
11, C.p., per non aver il giudice rimettente chiarito la ragione per cui la
disposizione impugnata dovesse venire applicata anche per quei reati, come nel
caso di specie, che consistono proprio in violazioni della disciplina
dell’immigrazione, posto che le circostanze aggravanti aggravano il reato
quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali e,
per il resto, è stata decisa la restituzione degli atti ai giudici a quibus, per le modifiche
successivamente intervenute già in sede di conversione, ma poi anche con la l.
n. 94/2009, art. 1, commi 1 e 16. Analogamente cfr. poi Id., ord. 24
febbraio 2010, n. 66.
[18] In riferimento alla citata decisione cfr. le
osservazioni di T. Catananti, I reati in materia di immigrazione dopo la
l. n. 94/2009, in Associazione dei
costituzionalisti, 2010 e, se
si vuole, F. Bailo, L’immigrazione clandestina al
vaglio della Corte costituzionale: illegittima l’aggravante comune ma non anche
la fattispecie di reato, in Giur. it.,
2010, n. 12, 2503 ss.
[19] Il riferimento è a Corte cost., sent.
10 aprile 2001, n. 105, con osservazioni di G.
Bascherini, Accompagnamento alla
frontiera e trattenimento nei centri di permanenza temporanea: la Corte tra
libertà personale e controllo dell’immigrazione, in Giur. cost., 2001, 1680 ss.; D.
Piccione, Accompagnamento coattivo
e trattenimento dello straniero al vaglio della Corte costituzionale: i molti
dubbi su una pronuncia interlocutoria, ibidem, 2001, 1697 ss.
[20] Il
riferimento è, in particolare, al d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, art. 21, comma
4, recante “Attuazione della direttiva
2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari
di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”.
[21] Più nel dettaglio, la Corte
costituzionale ha chiarito che nel nostro sistema italiano esistono tecniche di
considerazione unitaria delle specifiche condotte “sia
nel caso che una circostanza aggravante comune rappresenti un elemento
essenziale del reato o ne costituisca una circostanza aggravante speciale (art.
61, prima parte, cod. pen.) […] sia nell’ipotesi di reato complesso, che
sussiste quando “la legge considera come elementi costitutivi, o come
circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se
stessi, reato”. Tuttavia, proprio l’ipotesi del reato complesso non poteva
applicarsi al caso di specie, che riguardava una circostanza aggravante comune.
Il reato comune commesso dallo straniero irregolare, infatti, non avrebbe
potuto considerarsi complesso, e come tale capace di assorbire la violazione
dell’art. 10-bis del d.lgs. n.
286/1998, che non concorre a delineare un reato aggravato tipico. E si è poi
aggiunto, quasi come un monito, che “la costruzione di un reato complesso deve
essere opera del legislatore, e non può quindi risultare dalla combinazione, in
sede di applicazione giurisprudenziale, tra le singole figure criminose e le
circostanze aggravanti comuni”.
[22] Il riferimento è a Corte cost., sent.
n. 22/2007, cit.
[23] Sul principio di offensività, in dottrina, cfr., ex multis, C. Fiore, Il
contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di
offensività, in G. Vassalli,
(cur.), Diritto penale e giurisprudenza
costituzionale, Napoli-Bari, 2006, 91 ss.; V.
Manes, Il principio di
offensività. Tra codificazione e previsione costituzionale, in L’indice pen., 2003, 147 ss.; F.C. Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul
contenuto delle leggi penali, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1998, 350 ss.
[24] In riferimento alla citata decisione
cfr. le osservazioni di T. Catananti,
I reati in materia di immigrazione,
cit., e, se si vuole, F. Bailo, L’immigrazione
clandestina al vaglio della Corte costituzionale, cit., 2503 ss. Cfr. anche Corte cost., ord. 8
luglio 2010, n. 252, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del T.U. sull’immigrazione per ragioni di ordine processuale e,
nello specifico, per l’incompetenza del giudice a quo a decidere nel giudizio principale. Più recentemente cfr.
anche Id., ord.
11 novembre 2010, n. 321, di tenore analogo alla decisione in commento.
[25] La Corte costituzionale, sul punto,
ha poi peraltro meglio precisato che “il potere di
disciplinare l’immigrazione rappresenta un profilo essenziale della sovranità dello
Stato, in quanto espressione del controllo del territorio” e che “Determinare
quale sia la risposta sanzionatoria più adeguata a tale illecito, e
segnatamente stabilire se esso debba assumere una connotazione penale, anziché
meramente amministrativa (com’era anteriormente all’entrata in vigore della
legge n. 94 del 2009), rientra nell’ambito delle scelte discrezionali del
legislatore, il quale ben può modulare diversamente nel tempo – in rapporto
alle mutevoli caratteristiche e dimensioni del fenomeno migratorio e alla
differente pregnanza delle esigenze ad esso connesse – la qualità e il livello
dell’intervento repressivo in materia”.
[26] A voler
maggiormente precisare, si è poi tenuto a sottolineare che la scelta operata
dal legislatore del 2009 è tutt’altro che isolata nel panorama internazionale,
dal momento che analoghe previsioni, talora accompagnate da comminatorie di
pena anche significativamente più severe, si ritrovano sia in paesi più vicini
alle nostre tradizioni, quali la Francia e la Germania, sia in quelli più
lontani da noi, come la Gran Bretagna.
[27] La Corte costituzionale ha, infatti,
al proposito richiamato alcuni suoi precedenti
sul punto: Corte
cost., sent. 16 maggio 2008, n. 148; Id., ord. 31
ottobre 2007, n. 361; Id., sent. 26
maggio 2006, n. 206.
[28] Più nel dettaglio, la Corte costituzionale
ha sottolineato che, a sostenere l’assunto sopra riferito, si attestano
univocamente le circostanze per cui, “in deroga al
generale disposto dell’art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, lo
straniero sottoposto a procedimento penale per il reato in questione possa
essere espulso in via amministrativa senza il nulla osta dell’autorità
giudiziaria; che, una volta avuta notizia dell’esecuzione dell’espulsione o del
respingimento ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudice
debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere (e ciò indipendentemente
dallo stadio raggiunto dal procedimento penale, a differenza di quanto previsto
dall’art. 13, comma 3-quater, del
d.lgs. n. 286 del 1998); che, nel caso di condanna, la pena dell’ammenda –
espressamente sottratta all’oblazione (art. 10-bis, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 286 del 1998) – possa
essere sostituita dal giudice con la misura dell’espulsione per un periodo non
inferiore a cinque anni (artt. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 62-bis del d.lgs. n. 274 del 2000)”.
[29] Anche l’asserita
violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., per la presunta contrarietà della
norma censurata con la direttiva 2008/115/CE, è stata poi facilmente risolta nel
senso dell’infondatezza osservandosi che il termine di adeguamento
dell’ordinamento nazionale alla direttiva non è ancora scaduto, rendendosi
quindi non significativa ogni ulteriore indagine nel merito.
[30] Deve peraltro avvertirsi che la
stessa clausola “senza giustificato” di cui all’art. 14, comma 5-ter, ora posta a tertium comparationis nel giudizio di ragionevolezza, non aveva
mancato di suscitare critiche nella giurisprudenza di merito e di legittimità,
che non aveva tardato a sollevare, sotto diversi profili, la relativa questione
di legittimità costituzionale davanti alla Corte costituzionale. Al proposito
cfr. Corte
cost., sent. 13 gennaio 2004, n. 5, con osservazioni di E. Grosso, «Ad impossibilia nemo tenetur»:
la Corte detta al giudice rigorosi confini per la configurabilità del reato di
ingiustificato trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato, in Giur. cost., 2004, 97 ss.; Id., ord. 2 marzo
2004, n. 80; Id.,
sent. 15 luglio 2004, n. 223, cit. Ex
multis, cfr. poi ancora Id., ord. 29
settembre 2004, n. 302; Id., ord. 21
ottobre 2005, n. 395; Id., ord. 21
novembre 2006, n. 386. e, da ultimo, Id., ord. 17
febbraio 2008, n. 417. Con Corte cost., sent.
27 giugno 2008, n. 236, si segnala, infine, che la Corte costituzionale ha
in sostanza ammonito i giudici a quibus
a far buon uso della clausola in questione, sostenendo che, d’altra parte,
“l’art. 385 cod. proc. pen. esclude in via generale l’arresto quando, tenuto
conto delle circostanze, il fatto appare compiuto nell’adempimento di un dovere
o nell’esercizio di una facoltà legittima, ovvero in presenza di una causa di
non punibilità: e la stessa regola non può non valere, a fortiori, quando si tratti, come nella specie, di elemento
negativo interno allo stesso fatto tipico”.
[31] Deve peraltro precisarsi che la Corte
costituzionale si era già pronunciata, con l’ord. 13 febbraio
2009, n. 41, sulla medesima questione oggetto del giudizio di legittimità
della sentenza di cui supra,
sostenendo però che “nell’un caso (art. 14, comma 5-ter) si è di fronte ad un comportamento di tipo omissivo, poiché lo
straniero, raggiunto dalla intimazione del questore a lasciare il territorio dello
Stato entro cinque giorni, non ottempera all’ordine; nell’altro caso (art. 14,
comma 5-quater) lo straniero, già
resosi inottemperante all’ordine di allontanamento del questore e
successivamente espulso con accompagnamento coattivo alla frontiera, rientra
illegalmente nel territorio dello Stato, vanificando gli effetti dell’attività
amministrativa e giudiziale culminata con il suo allontanamento”. A seguito
della novella di cui all’art. 1, comma 22, lett. m), della l. n. 94/2009, le due condotte incriminatrici, tuttavia,
come già detto supra nel testo, sono
divenute sostanzialmente analoghe e, conseguentemente, è stato reso
giustificabile questo nuovo dispositivo.
[32] Altri profili decisi nel senso della
manifesta inammissibilità, al contrario, difficilmente sembra che possano
prendere una diversa piega in eventuali giudizi successivi. Il riferimento è,
in particolare, alla denunciata violazione dell’art. 24, comma 2, Cost. per la
mancata previsione di una disciplina transitoria che salvaguardi gli stranieri
illegalmente presenti nel territorio dello Stato al momento dell’entrata in
vigore della l. n. 94/2009, dal momento che la Corte costituzionale ha, al
proposito, rilevato che la questione si risolveva nella “richiesta di una
pronuncia additiva dai contenuti indefiniti e non costituzionalmente
obbligati”. Il principio è stato, del resto, più recentemente ribadito in Corte
cost., orrd. 11 novembre 2010, nn. 318 e 321.
[33] Deve, peraltro, avvertirsi che
alcune questioni di legittimità costituzionale erano state sollevate pressoché
nei termini ora indicati dalla Corte costituzionale, ma sono state risolte nel
senso della manifesta inammissibilità con Corte cost., ord. 8
luglio 2010, n. 253; Id., ord. 11
novembre 2010, n. 320; Id. ord. 17
novembre 2010, n. 329; Id., 26 novembre
2010, n. 349; Id.,
ord. 5 gennaio 2011, n.6, per la carente descrizione della fattispecie e
per la carente motivazione in punto di rilevanza.
[34] Finalmente, l’asserita
illegittimità dell’art. 10-bis, comma
5, del T.U. sull’immigrazione per la violazione degli artt. 3 e 27 Cost., così
come la denunciata mancata previsione di garanzie a favore dello straniero che
presenti istanza di permanenza in Italia per gravi motivi connessi alla tutela
di familiari minori, sono state dichiarate manifestamente inammissibili solo in
virtù di profili processuali attinenti a un difetto di rilevanza.