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GIAMPIETRO FERRI*

 

I MAGISTRATI E LA POLITICA: IL PROBLEMA DEL DIVIETO DI ISCRIZIONE AI PARTITI NELLA SENTENZA N. 224/2009 DELLA CORTE COSTITUZIONALE

 

1. L’art. 98 Cost. e la facoltà d’introdurre limitazioni al diritto d’iscrizione ai partiti politici per i magistrati. – Prevedendo che si possano con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per alcune categorie di soggetti, fra cui quella dei magistrati, l’art. 98, comma 3, Cost. attribuisce al legislatore ordinario la facoltà di introdurre, quando vi sia un ragionevole motivo, norme che impediscano ai magistrati di esercitare il diritto di associarsi in partiti, in deroga all’art. 49 Cost.[1].

Con la sentenza n. 224 del 2009, la Corte costituzionale ha però dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma — contenuta nell’art. 3 lett. h) del d. lgs. n. 109 del 2006, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della legge» n. 150 del 2005[2] — che configura come illecito disciplinare per i magistrati ordinari l’iscrizione a partiti politici e, quindi, vieta indistintamente a tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario l’esercizio di un diritto politico che la Costituzione riconosce alla generalità dei cittadini[3].

Secondo la Corte, l’art. 98, comma 3, Cost. consentirebbe al legislatore ordinario d’introdurre per i magistrati il divieto d’iscrizione ai partiti politici, al fine di evitare che «l’esercizio delle loro delicate funzioni sia offuscato» dal legame con una «struttura partitica» che implica «anche vincoli gerarchici interni».

Tuttavia, nel rimettere al «legislatore ordinario la considerazione di “sopravvenienze fattuali” o di “nuovi elementi valutativi”, che giustifichino» l’introduzione di una «norma limitativa» del diritto d’iscrizione «volutamente non» inserita nel testo costituzionale, è la Costituzione stessa a escludere la possibilità di stabilire con legge un divieto per tutti i magistrati[4], negando anche e prima di tutto che limitazioni al diritto d’iscrizione ai partiti possano essere previste per le categorie non indicate[5].

 

2. Il d. legisl. n. 109/2006: l’iscrizione e la partecipazione ai partiti politici come illeciti disciplinari. – Introdotto temporaneamente in precedenza con un decreto-legge[6], senza però essere accompagnato dalla previsione di sanzioni in caso di violazione[7], il divieto per i magistrati d’iscriversi ai partiti politici è stato reinserito implicitamente nell’ordinamento prevedendo — come si è detto — che dall’iscrizione scaturisca una responsabilità di natura disciplinare.

Ma ciò con una dilatazione ulteriore rispetto alla previsione dell’art. 98 comma 3 Cost., configurandosi come illecito anche «la partecipazione a partiti politici» e il «coinvolgimento nelle attività di centri politici [...] che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato»[8]. Infatti, pur apparendo in larga misura implicato in quello di iscrizione — posto che la partecipazione agli organi di partito, se si eccettuano gli organi di garanzia e le commissioni competenti in determinate materie (che potrebbero contemplare la presenza di soggetti esterni professionalmente qualificati), è riservata agli iscritti —, il divieto di partecipazione avrebbe comportato anche l’astensione da qualsiasi riunione organizzata dai partiti (si pensi, ad esempio, a un’assemblea convocata per discutere dei problemi della giustizia), pregiudicando l’esercizio di un diritto, quello di riunione, che è costituzionalmente tutelato (art. 17) e spetta al magistrato come cittadino[9]. Il divieto di coinvolgimento nelle attività di «centri politici» avrebbe forse potuto impedire, poi, l’iscrizione e la partecipazione a formazioni sociali diverse dai partiti che, essendo politicamente orientate (si pensi, ad esempio, alle fondazioni politico-culturali presiedute da uomini politici, ai circoli culturali in qualche modo collegati a partiti o che s’ispirano a un’ideologia), avrebbero danneggiato l’immagine del magistrato.

Ciò, s’intende, sotto il profilo dell’imparzialità. Sebbene la norma non lo specifichi, è infatti evidente che un’eventuale “lesione dell’immagine” non avrebbe potuto derivare che dall’adesione o dalla frequentazione di un’associazione che, per i suoi orientamenti, avrebbe lasciato trasparire la vicinanza del magistrato a una parte politica. Lo si evince dalla stessa formulazione della norma, la quale, considerando prima un aspetto sostanzialmente lesivo dell’imparzialità (il condizionamento delle funzioni giudiziarie, che sembrerebbe però difficile da dimostrare), si riferisce poi a un aspetto che è in apparenza lesivo della stessa caratteristica. Lo si ricava, poi, dall’inserimento, in fondo all’elenco degli illeciti extrafunzionali, di una “clausola di chiusura” — che verrà successivamente abrogata — comprendente nell’area dell’illiceità «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza» [art. 3 lett. l) d. lgs. n. 109/2006][10].

Tuttavia, come si è osservato in dottrina, «la sola possibilità prevista» dalla Costituzione «è la limitazione dell’iscrizione, ma non anche dell’appartenenza»[11]. Resterebbe, pertanto, «libera l’adesione ideologica anche apertamente manifestata»[12], così come l’espressione di orientamenti politico-culturali e l’iscrizione ad associazioni “di tendenza” diverse dai partiti[13].

Se così non fosse, i magistrati sarebbero spinti ad allontanarsi non solo dalla politica partitica, ma dalla politica tout court: con pregiudizio, ancora una volta, per l’esercizio del diritto di riunione, oltre che per quello di associazione, che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini e, quindi, anche ai magistrati[14]. Con il rischio, poi, che dall’“isolamento” dei magistrati derivino effetti negativi per l’amministrazione della giustizia. Non va, infatti, dimenticato che è stata proprio la partecipazione alla vita politica intesa in senso lato — storicamente favorita dalle “correnti”, le quali hanno contribuito alla crescita della magistratura sul piano culturale[15] — che ha consentito ai magistrati di affrontare meglio le difficoltà della giurisdizione all’interno di una società in rapida trasformazione; la quale, ponendo sempre nuove domande di giustizia che accrescono i problemi di interpretazione della legge, costringe chi è chiamato ad applicarla a “confrontarsi” con la realtà circostante[16].

Nell’àmbito di un intervento sugli illeciti disciplinari teso ad armonizzarne la disciplina normativa con la Costituzione, che rifletteva il clima di distensione fra “giustizia” e “politica” creatosi dopo il cambiamento della maggioranza governativa, la legge n. 269/2006 ha apportato alcune variazioni alla formulazione degli illeciti riguardanti i rapporti fra i magistrati e i partiti politici[17].

Anzitutto, fermo restando il divieto di iscrizione per tutti i magistrati, essa ha sostituito il generale divieto di partecipazione ai partiti con la previsione che vi siano delle  limitazioni, stabilendo in particolare che la partecipazione sia illecita quando avvenga in modo sistematico e continuativo. La partecipazione occasionale a una riunione organizzata da un partito non costituisce più, dunque, illecito disciplinare. Ciò, anche per un’altra ragione. La condizione posta dallo stesso legislatore per la sanzionabilità degli illeciti è, infatti, che essi non siano di «scarsa rilevanza» (art. 3-bis)[18].

Risulta, però, difficile vedere come una persona non iscritta possa partecipare con continuità alla vita del partito e, quindi, come possa esservi una partecipazione duratura disgiunta dall’iscrizione. La previsione dell’illecito consistente nella partecipazione «sistematica e continuativa» potrebbe allora essere superflua e anche problematica per la difficoltà di stabilire in concreto quando vi siano la continuità e la sistematicità.

In secondo luogo, la legge ha innovato la disciplina precedente eliminando dall’art. 3, lett. h), il riferimento al coinvolgimento nell’attività di «centri politici»[19].

La legge ha invece sostanzialmente confermato come illecito il coinvolgimento in «centri [...] operativi nel settore finanziario», che nella nuova formulazione della lett. h) si realizzerebbe quando il magistrato risulti coinvolto «nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario», sempre che si tratti di attività che possono «condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato».

 

3. La sentenza della Corte costituzionale n. 224/2009 e il riconoscimento della legittimità del divieto d’iscrizione ai partiti politici: considerazioni critiche. – La questione di legittimità costituzionale posta davanti alla Corte è stata sollevata dalla Sezione disciplinare del C.S.M. nel corso di un giudizio avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità disciplinare di un magistrato collocato fuori dell’organico della magistratura perché addetto ad una funzione di consulenza parlamentare, a cui era stata contestata la violazione dell’art. 3 lett. h), avendo egli assunto una carica direttiva all’interno di un’organizzazione periferica di un partito politico, la copertura della quale dovrebbe presupporre l’iscrizione allo stesso partito e comporterebbe in ogni caso una continuità nella partecipazione alla vita del partito che non è consentita.

Proprio in considerazione della particolarità del caso, riguardante un magistrato collocato fuori ruolo (dopo aver fruito di un’aspettativa per alcuni anni essendo stato eletto in rappresentanza del medesimo partito senatore e, fatto assai curioso, essere stato in tale veste promotore delle norme più restrittive per la partecipazione dei magistrati alla vita politica[20]), ci si sarebbe forse attesi che il giudice a quo sollevasse la questione con specifico riferimento alla posizione dei magistrati che, trovandosi in tale condizione, non esercitano le funzioni giurisdizionali, evidenziando che la norma oggetto priverebbe in maniera irragionevole una categoria di cittadini (i magistrati fuori ruolo) di un diritto politico tutelato dalla Costituzione.

La Sezione disciplinare ha, invece, impostato la questione in termini generali, sostenendo che il divieto «formale ed assoluto» di iscrizione ai partiti politici per i magistrati andrebbe «oltre la nozione giuridica di mera limitazione» («ovvero di una regolamentazione che contemperi il diritto politico del singolo con l’esigenza di imparzialità» del magistrato), ponendosi anzitutto in contrasto con l’art. 98 Cost.[21]. Inoltre, che esso sarebbe lesivo della libertà di associazione, in violazione degli artt. 18 e 49, nonché degli artt. 2 e 3 Cost., atteso che pregiudicherebbe il diritto del singolo di partecipare alle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e il principio di eguaglianza.

Ma — a giudizio della Corte costituzionale — i magistrati, che come cittadini devono poter godere gli stessi diritti di libertà garantiti agli altri cittadini, per le peculiari funzioni che svolgono non possono essere del tutto equiparati ad essi, giustificandosi l’«imposizione di speciali doveri» a loro carico. Dovere fondamentale, «per dettato costituzionale», è quello di essere «imparziali e indipendenti» (art. 1, comma 2, e art. 104, comma 1, Cost.). I «valori» dell’imparzialità e dell’indipendenza — sostiene la Corte — vanno tutelati «non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento», al fine di allontanare il dubbio che il magistrato non possieda tali caratteristiche.

Proprio in questa prospettiva, si comprenderebbe «l’esigenza di assicurare la terzietà dei magistrati ed anche l’immagine di estraneità agli interessi dei partiti che si contendono il campo» recepita dalla Costituzione nell’art. 98, comma 3; il quale, secondo la Corte, consentirebbe — come si è detto — al legislatore di introdurre un generale divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati, senza distinzioni per funzione e per posizione giuridica, essendo indifferente che il magistrato ricopra un ruolo o sia temporaneamente collocato fuori ruolo, che sia in ruolo svolgendo effettivamente le funzioni giurisdizionali oppure senza svolgerle in quanto collocato in aspettativa (come avviene, ad esempio, quando il magistrato sia eletto al Parlamento nazionale o al Parlamento europeo), ecc.

Inoltre, la stessa norma costituzionale darebbe, sia pure implicitamente, al legislatore la facoltà di «vietare la partecipazione sistematica e continuativa» all’attività dei partiti. Infatti, detta partecipazione, comportando l’«organico schieramento con una delle parti politiche in gioco», sarebbe suscettibile, al pari dell’iscrizione, «di condizionare l’esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di comprometterne l’immagine».

Altro è, però, essere iscritti a un partito mentre si esercitano le funzioni giudiziarie, altro è essere iscritti quando, pur appartenendo all’ordine giudiziario, non si esercitano tali funzioni, essendo intervenuto — come nel caso portato all’esame della Corte costituzionale — un provvedimento di collocamento fuori ruolo. Mentre nel primo caso l’indipendenza del magistrato e l’imparzialità della funzione esercitata potrebbero talvolta risentire dei vincoli derivanti dall’appartenenza dello stesso magistrato a un’associazione partitica (si pensi, ad esempio, a un sostituto procuratore che si occupi dei reati contro la pubblica amministrazione), nel secondo caso nessun pregiudizio per i valori dell’indipendenza e dell’imparzialità potrebbe esservi perché non vi è esercizio delle funzioni giurisdizionali.

A meno di sostenere — come sembra voler fare la Corte nella sentenza qui annotata — che l’iscrizione a un partito politico per il periodo durante il quale il magistrato è privo delle funzioni giurisdizionali si ripercuoterebbe negativamente sull’immagine del magistrato stesso nel corso della carriera, gettando delle ombre sulla sua imparzialità o comunque non garantendola pienamente, quanto meno sotto il profilo dell’apparenza. Lo stesso dovrebbe dirsi, però, anche per il magistrato non iscritto a un partito che, dopo essere stato eletto e aver concluso il mandato parlamentare, ritorni — com’è più volte accaduto — a esercitare le funzioni giurisdizionali.

Tuttavia, il bene che sembra essere tutelato dalla norma costituzionale che consente d’introdurre limitazioni (e non un divieto) al diritto di associarsi in partiti per i magistrati è il corretto esercizio della funzione giurisdizionale, al quale potrebbero nuocere eventuali condizionamenti derivanti appunto dall’iscrizione di chi la esercita ai partiti. La norma in questione mira, dunque, a preservare l’imparzialità della giurisdizione. Cosa diversa è dire — come ha fatto la Corte — che occorre rassicurare i cittadini «sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica»: una rassicurazione che non può essere fornita dalla norma che vieta l’iscrizione ai partiti e da nessuna altra norma.

Potrebbe, invece, ma soltanto sul piano meramente esteriore, essere garantita l’imparzialità, ossia l’immagine di una giustizia lontana dalle parti, se si spingesse il magistrato ad estraniarsi dall’ambiente in cui vive[22]. Bisogna, però, tenere presente che — come già si è detto — il magistrato gode a pieno titolo di tutti i diritti spettanti al cittadino, potendo esprimersi sui problemi della giustizia, parlare degli argomenti al centro del dibattito politico, manifestare pubblicamente per difendere un principio costituzionale, ecc.

In conclusione, comportando un’ingiustificata restrizione di un diritto, quello di associarsi in partiti, la Corte avrebbe dovuto dichiarare illegittima per contrasto con gli artt. 3, 49 e 98 Cost. la norma contenuta nell’art. 3 lett. h)[23], quanto meno nella parte in cui non esclude dal novero dei magistrati destinatari del divieto di iscrizione quelli che sono collocati fuori ruolo. Si tratta, infatti, di magistrati che non esercitano le funzioni giudiziarie, e nei confronti dei quali non vi è perciò ragione per l’applicazione del divieto. Inoltre, avrebbe dovuto dichiarare l’illegittimità della stessa norma nella parte in cui prevede come illecito la partecipazione sistematica e continuativa, che non è vietata dalla Costituzione, pur essendo in larga misura coperta dal divieto d’iscrizione[24].

Il fatto che la Corte abbia invece considerato la norma che vieta l’iscrizione e la partecipazione ai partiti come attuativa dell’art. 98, comma 3, Cost. supera ogni problema riguardo all’inserimento nell’art. 3 lett. h) della previsione che costituisca illecito anche il coinvolgimento nell’attività di soggetti operanti nel settore economico-finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni giudiziarie o comunque compromettere l’immagine del magistrato.

Ma la Corte ha voluto sottolineare che il legislatore non ha operato una indebita assimilazione fra ipotesi di «ben diversa portata», «essendo stato spinto dall’esigenza di porre una tutela rafforzata dell’immagine di indipendenza del magistrato». Si tratterebbe, dunque, di una previsione coerente con l’esigenza di garantire l’«immagine di indipendenza» del magistrato, la quale può essere messa «in pericolo tanto dall’essere il magistrato politicamente impegnato e vincolato ad una struttura partitica, quanto dai condizionamenti, anche sotto il profilo dell’immagine, derivanti dal coinvolgimento» nelle «attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario».

 

4. Riflessioni conclusive. –      Poiché l’iscrizione dei magistrati ai partiti politici è un fenomeno storicamente irrilevante[25] e nessuna tendenza alla crescita delle iscrizioni sembra essersi manifestata nel corso degli anni precedenti l’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario; poiché, pertanto, non si vede quale incidenza possa avere sui rapporti tra i magistrati e il mondo dei partiti (e, conseguentemente, sull’esercizio della funzione giurisdizionale) la previsione dell’illecito disciplinare consistente nella violazione del divieto d’iscrizione, ne viene che l’introduzione di detto divieto, più che dare risposta a un problema reale, sembra rispondere all’esigenza di rassicurare che in futuro la giustizia non verrà contaminata dalla politica partitica (anche se andrebbe detto che, mentre un tempo l’attività politica si svolgeva essenzialmente all’interno dei partiti, oggi i luoghi in cui si fa politica sono diffusi e inoltre che sono stati i partiti ad “attrarre” i magistrati, offrendo loro candidature e incarichi di varia natura[26]).

Così come, più che a sanzionare un comportamento riprovevole dal punto di vista disciplinare, rispondeva all’esigenza di rassicurare che la giustizia non sarebbe stata contaminata dalla politica intesa in senso lato la previsione dell’illecito consistente nel coinvolgimento in «centri politici».

Tutto ciò lasciando intendere che in passato l’esercizio delle funzioni giudiziarie abbia subìto l’influenza della politica, e quindi che sarebbe fondata l’accusa di “politicizzazione” che è stata rivolta in molti casi a una parte della magistratura, la quale, dopo le “invasioni di campo”, dovrebbe “rientrare nei ranghi”. Di qui l’impressione che la norma implicante il divieto d’iscrizione ai partiti — come altre norme inserite nella riforma dell’ordinamento giudiziario — sia stata concepita anche con un intento “punitivo”[27].

Tuttavia, va osservato che le norme giuridiche dovrebbero essere approvate per essere applicate (o, se si preferisce, nella previsione che le prescrizioni in esse contenute abbiano la capacità di modificare in qualche modo la realtà), e non allo scopo di “lanciare messaggi” tendenti a rassicurare la collettività o a “richiamare all’ordine” un potere dello Stato. Lascia perplessi che la Corte, invocando l’esigenza di rassicurare il cittadino circa la netta separazione fra “politica” e “giustizia”, abbia mostrato di avallare un modo di legiferare che tende a eludere i veri problemi.

Il punto, infatti, è che vi sono numerosi magistrati che, pur non essendo iscritti ai partiti, ricoprono cariche elettive o cariche politico-amministrative non elettive (come quella di assessore) a vari livelli: in certi casi, essendo collocati obbligatoriamente in aspettativa, senza però che sia previsto un congruo periodo di tempo tra la sospensione o la cessazione dell’esercizio delle funzioni e l’accettazione della candidatura (o l’assunzione della carica amministrativa) nello stesso luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale il magistrato esercita le sue funzioni, consentendo ai magistrati che abbiano acquisito ampia visibilità mediatica grazie all’attività professionale di trarne vantaggi elettorali[28]; in altri casi, potendo continuare a svolgere le funzioni giurisdizionali, non essendo previsto dalla legislazione vigente un regime d’incompatibilità[29].

Si tratta di un fenomeno che va tenuto distinto da quello della militanza in partiti, perché i magistrati sono generalmente chiamati a candidarsi come “indipendenti”. Tuttavia, com’è stato autorevolmente osservato, «la chiamata presuppone la valutazione positiva della storia professionale dell’interessato, il che può oggettivamente appannare il principio per cui la funzione giudiziaria va esercitata sine spe»[30]. Inoltre, la candidatura, quanto meno in alcuni casi (si pensi, ad esempio, alle elezioni politiche nazionali), consente chiaramente di identificare l’area politica di riferimento del magistrato; e non si può non notare la discrasia fra la normativa che, vietando l’iscrizione e la partecipazione duratura all’attività dei partiti, mirerebbe a preservare l’imparzialità del magistrato (anche sotto il profilo della mera apparenza) e la disciplina dell’esercizio del diritto di elettorato passivo dei magistrati, che per taluni aspetti non risponde all’esigenza di salvaguardare l’imparzialità sotto il profilo dell’apparenza e neppure — ciò che più conta — sul piano sostanziale.

Al fine di evitare che possa essere recato pregiudizio all’amministrazione della giustizia, occorrerebbe dunque che il legislatore intervenisse cercando di contemperare il diritto di elettorato passivo e di accesso ai pubblici uffici — che la Costituzione riconosce ai magistrati come cittadini (art. 51, comma 1) — con l’imparzialità della funzione giurisdizionale[31]. Ciò, anzitutto prevedendo che la candidatura, così come l’assunzione di incarichi politico-amministrativi, non possa avvenire nel luogo in cui il magistrato ha esercitato negli anni precedenti le funzioni giudiziarie (quanto meno nell’ipotesi in cui si tratti di funzioni che possono avere un rilevante impatto politico-sociale), se non dopo che sia trascorso un congruo periodo di tempo dall’interruzione o dalla cessazione delle stesse funzioni[32]. Poi, stabilendo che, a conclusione di qualunque esperienza politica all’interno delle istituzioni (comunali, regionali, ecc.), il magistrato non possa esercitare sùbito le funzioni all’interno di uffici giudiziari che, per la loro collocazione territoriale e per le loro competenze funzionali, è opportuno non siano affidati, almeno per un certo periodo, a chi abbia ricoperto cariche politiche e amministrative[33].



* Nota pubblicata sulla rivista «Studium Iuris», 2010, fasc. n. 2, pp. 136 ss.

[1] Nel senso che «la legge sia autorizzata a fissare limiti unicamente di tal natura che non si risolvano in una completa soppressione del diritto», cfr., in dottrina, A. Cerri, Sindacati, associazioni politiche, partiti, in G. cost. 1966, p. 1920.

[2] Recante «Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12». Per un esame sintetico di questa legge, cfr. Aa. Vv., La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in F. it. 2006, V, p. 1 ss. Per un esame della stessa legge e dei decreti legislativi di attuazione, cfr. D. Carcano (a cura di), Il nuovo ordinamento giudiziario: concorso, funzioni, scuola della magistratura, ufficio del pubblico ministero e responsabilità disciplinare (legge delega e decreti delegati), Milano 2006.

[3] Per i commenti “a prima lettura”, cfr. S. Prisco, Una nuova sentenza della Corte Costituzionale sull’esercizio delle libertà politiche da parte dei magistrati, in federalismi.it, 26 agosto 2009; L. Pepino, I giudici, la politica, la Costituzione, in Quest. Giust. 2009, n. 4, p. 213 ss.

[4] G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, in La pubblica amministrazione. Art. 97-98, in Comm. della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma 1994, p. 445-6 e p. 464.

[5] Cfr., in tal senso, L. Carlassare, Amministrazione e potere politico, Padova 1974, p. 107.

[6] Cfr. il decreto-legge 3 maggio 1991 n. 141, recante «Divieto di iscrizione ai partiti politici per gli appartenenti alle categorie indicate nell’articolo 98, terzo comma, della Costituzione», i cui effetti si esaurirono presto, non essendo avvenuta in tempo la conversione in legge e avendo il Governo rinunciato alla reiterazione.

L’indicazione nel preambolo che il decreto è emanato «in attuazione dell’art. 98, terzo comma, della Costituzione» sarebbe indicativo di un fenomeno per il quale alla lettura emergente dai lavori preparatori della Costituzione si è «sovrapposto, negli anni, un diverso “senso comune”, che tende a concepire la introduzione delle limitazioni (e addirittura del divieto) come attuazione della norma costituzionale» (così G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, cit., p. 446. Vedi anche S. Senese, Magistrati e iscrizione, in Quaderni della giustizia 1986, n. 61, p. 9).

Della presenza all’interno della società di un orientamento favorevole all’introduzione di un vero e proprio divieto d’iscrizione danno prova gli interventi in tal senso di personalità illustri: cfr. A. Galante Garrone, La politica dei giudici, in La Stampa, 14 luglio 1981 (secondo cui il giudice nel suo «lavoro non soltanto non può agire come uomo di parte ma deve guardarsi dall’apparire tale [...]. Per questo, approverei una legge che vietasse ai magistrati l’appartenenza ai partiti»); L. Valiani, Giudici e libertà in una democrazia sana, in Corriere della Sera, 8 novembre 1982 (l’art. 98 «prevede una legge sull’incompatibilità dell’iscrizione a partiti politici dei magistrati» e sarebbe «opportuno varare tale legge, estendendone l’applicazione a quei raggruppamenti politici che formalmente non figurano come partiti, ma in realtà lo sono»).

[7] Nel senso che il «divieto, ove fosse effettivamente sancito dal legislatore, ben potrebbe essere sanzionato in sede disciplinare», cfr. G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni aspetti generali, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Milano 1977, p. 864.

[8] Cfr. G. Ferri, Gli illeciti disciplinari fuori dall’esercizio delle funzioni, in La responsabilità dei magistrati, a cura di M. Volpi, Napoli 2008, p. 97 ss. (lo scritto è pubblicato anche in Questione giustizia, 2008, n. 5, p. 79 ss., con il titolo La responsabilità disciplinare dei magistrati per illeciti extrafunzionali).

[9] Nel senso che è inammissibile «trarre occasione» dall’introduzione del «divieto» d’iscrizione ai partiti «per inibire ai magistrati altre forme di impegno politico che non comportano l’assunzione di vincoli, come ad esempio la partecipazione a riunioni», cfr. G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare, cit., p. 864.

[10] Cfr. G. Ferri, Gli illeciti disciplinari, cit., p. 99 e p. 106.

[11] L. Carlassare, Amministrazione e potere politico, cit., p. 108.

[12] Ibidem.

[13] In questo senso A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino 1990, p. 215 s., il quale rileva tuttavia l’inopportunità della partecipazione all’attività di alcune associazioni (ad esempio, quelle che impegnino i propri aderenti allo svolgimento di attività incompatibili con la riservatezza che deve essere propria dei magistrati).

Diversa è l’opinione di G. Bognetti, Magistrati senza politica, in Il Sole-24 Ore, 21 luglio 1994, il quale scrive: la Costituzione «prevede la possibilità di vietare ai giudici l’iscrizione ai partiti politici». «Ma la sua ratio [...]  si estende ovviamente a coprire anche tutte le ipotesi in cui il legame non riguardi un partito politico nel senso stretto della parola ma una associazione pur sempre di tendenza» qual è la “corrente” dell’A.N.M.

Per una proposta di revisione dell’art. 98, che comporti il divieto di esercitare attività inerenti a partiti o movimenti politici, nonché attività sindacali (eccettuate quelle riguardanti in senso stretto gli interessi di categoria), cfr. S. Galeotti, Il potere giudiziario, in Gruppo di Milano, Verso una nuova Costituzione, II, Milano 1983, p. 650 s.

[14] Cfr. F. Dal Canto, La responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano. La progressiva trasformazione di un modello: dalla responsabilità del magistrato burocrate a quella del magistrato professionista, Relazione svolta in occasione delle VI Giornate italo-spagnole di giustizia costituzionale, dedicate al “Poder judicial”, a La Coruña (Spagna), nei giorni 27-28 settembre 2007, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, p. 18.

[15] Cfr., tra gli altri, E. Cheli, Caratteri del conflitto ideologico nella magistratura italiana, in Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna 1978, p. 139 s.

[16] Cfr. G. Ferri, Magistratura e potere politico, Padova 2005, p. 85 s.; G. Ferri, Gli illeciti disciplinari, cit., p. 104 ss.

[17] Sulla legge 24 ottobre 2006 n. 269, recante «Sospensione dell’efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario», cfr. G. Ferri, La riforma dell’ordinamento giudiziario e la sua sospensione, in questa Rivista, 2007, p. 391 ss.; M.G. Civinini, A. Proto Pisani, G. Salmè, G. Scarselli, La riforma dell’ordinamento giudiziario tra il ministro Castelli e il ministro Mastella, in F. it., 2007, V, p. 12 ss. Sui cambiamenti specificamente inerenti alla disciplina degli illeciti disciplinari, cfr. F. Sorrentino, Prime osservazioni sulla nuova disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, in Quest. giust. 2007, n. 1, p. 54 ss.

[18] In senso favorevole a tale innovazione F. Dal Canto, La responsabilità disciplinare del magistrato nella giurisprudenza costituzionale, in La responsabilità dei magistrati, cit., p. 161-2. In senso critico S. Bartole, Il potere giudiziario, Bologna 2008, p. 73.

[19] Cfr., tra gli altri, F. Dal Canto, La responsabilità disciplinare: aspetti sostanziali, in Aa. Vv., La «riforma della riforma» dell’ordinamento giudiziario, in F. it. 2008, V, p. 119.

[20] Cfr. V. Piccolillo, Toghe e politica, i «divieti» di An, in Corriere della Sera, 24 settembre 2003.

[21] In dottrina, negano questo contrasto, ritenendo che l’introduzione del divieto sia costituzionalmente legittima, N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna 2008, p. 60; F. Biondi, Considerazioni di ordine costituzionale sui limiti, per i magistrati, alla partecipazione alla vita politica (a margine di una questione di costituzionalità), 7 aprile 2009, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, p. 2.

[22] Sul manifestarsi di una tendenza per la quale l’imparzialità, anziché essere intesa come estraneità agli interessi in gioco e distacco dalle parti, viene concepita come apoliticità del magistrato, alimentando un clima di diffidenza nei confronti dei giudici “impegnati”, cfr. criticamente L. Pepino, Passione civile e imparzialità valori compatibili, in la Repubblica, 24 gennaio 2003; Id., Metti una sera a cena il giudice con il premier, in la Repubblica, 29 giugno 2009 (il quale sottolinea che l’imparzialità del giudice andrebbe verificata in base «alle sue opzioni interpretative e al rigore delle sue motivazioni». Non sono «le idee né la loro espressione», bensì «le “appartenenze”, in particolare se occulte, a ridurre l’imparzialità del magistrato»).

[23] Rivedo così l’opinione che avevo espresso incidentalmente quando, esaminando negli aspetti essenziali il testo della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, non mi era parso di poter dubitare della legittimità della norma che prevede il divieto d’iscrizione (cfr. G. Ferri, Magistratura e potere politico, cit., p. 420-421).

[24] Ma, per la tesi della legittimità della norma, cfr. N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., p. 61.

[25] Come fu osservato dai commentatori che si erano espressi criticamente sul decreto legge del 1991 che aveva introdotto il divieto d’iscrizione (v. supra, nota 6). Cfr., ad esempio, D. Gallo, «Martelli, mi denuncio», in il manifesto, 21 maggio 1991, il quale parla di fenomeno «virtualmente inesistente».

V. anche G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, cit., p. 472 s.

[26] L. Pepino, Csm, la falsa morale del ministro Alfano, in il manifesto, 14 giugno 2009, parla della «chiamata di magistrati finanche come segretari particolari di esponenti di secondo piano della maggioranza parlamentare».

Bisognerebbe, poi, dar conto delle «pressioni» provenienti dal mondo politico «per le nomine ad incarichi direttivi e semidirettivi», che sono state denunciate dai membri “togati” del C.S.M. (cfr. E. Fortuna, Luci ed ombre su una gestione molto criticata, in Il Tempo, 1 febbraio 1986; L. Pepino, Intervista a il manifesto, 25 luglio 2008).

[27] Cfr. G. Ferri, Magistratura e potere politico, cit., p. 418 ss.

[28] Evidenzia l’inadeguatezza della normativa che disciplina le cause di ineleggibilità G. Di Cagno, Intervista a La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 gennaio 2000.

È un punto così delicato che la stessa associazione di categoria ha ritenuto di dovere esprimersi a favore dell’introduzione del principio di ineleggibilità dei magistrati per tutte le elezioni nelle circoscrizioni comprese nel distretto di Corte d’Appello dove hanno esercitato nei due anni precedenti la data di accettazione della candidatura. A proposito di una delle vicende che, riguardando la candidatura a sindaco di un’importante città di un magistrato rimasto in servizio presso la Procura della Repubblica della stessa città fino quasi alla scadenza del termine di presentazione delle candidature, hanno avuto ampia risonanza sugli organi d’informazione, cfr. l’intervento critico del segretario dell’epoca dell’A.N.M. E. Bruti Liberati, Casson, un passo indietro, in La Stampa, 10 marzo 2005.

A conferma della delicatezza del problema, possono ricordarsi le reazioni critiche alla nomina ad assessore del comune di Bologna di un magistrato da molti anni in servizio presso gli uffici giudiziari della città (cfr. L. Orsi, La battaglia dell’Udc, firme contro Mancuso: «Rifiuti la nomina» e Casini attacca ancora «Mancuso è solo un cattivo esempio», in il Resto del Carlino, 28 febbraio 2006) e alla recente candidatura al Parlamento europeo di un magistrato che, per le inchieste condotte, aveva ottenuto un’ampia notorietà, favorita dalla sua stessa sovraesposizione mediatica (cfr. A.M. Greco, De Magistris in campo sulle orme di Di Pietro, in il Giornale, 18 marzo 2009).

[29] Cfr., criticamente, A. Spataro, Intervista al Corriere della Sera, 8 agosto 2003.

[30] Cfr. G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, cit., p. 473.

[31] Cfr. F. Rigano, L’elezione dei magistrati al Parlamento, in G. it. 1985, IV, p. 27 ss.

[32] Cfr., fra i numerosi disegni di legge presentati, quello d’iniziativa dei senatori Zanettin e altri recante «Disposizioni in materia di ineleggibilità e di incompatibilità dei magistrati», comunicato alla presidenza il 25 ottobre 2006 (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1119).

Anche la dottrina si è espressa a favore di una nuova disciplina in tema di candidature dei magistrati, assumendo talvolta posizioni molto rigide. Ad esempio, G.U. Rescigno, Note sulla indipendenza della magistratura alla luce della Costituzione e delle controversie attuali, in www.costituzionalismo.it, 21 febbraio 2007, p. 8 e p. 11, ritiene che occorra «stabilire la ineleggibilità dei magistrati a qualunque carica rappresentativa almeno per cinque anni dopo la cessazione dal servizio».

Nel senso che i partiti dovrebbero dotarsi di un “codice di autoregolamentazione”, in base al quale «chi ha gestito processi mediatici prima di tre anni non può candidarsi», L. Violante, Intervista a La Stampa, 20 marzo 2009.

[33] Ma è diffusa l’opinione secondo la quale ai magistrati non dovrebbe più essere consentito di tornare a svolgere le funzioni giudiziarie: cfr., tra gli altri, G. Di Cagno, Intervista, cit.; A. Baldassarre, in la Repubblica, 28 febbraio 1996; F.S. Borrelli, Intervista al Corriere della Sera, 8 agosto 2003; C.F. Grosso, Le toghe in politica, in La Stampa, 19 marzo 2009. Si sono espressi in tal senso anche i Vicepresidenti del C.S.M. Rognoni e Mancino (cfr. D. Martirano, Rognoni: chi è eletto non torni magistrato, in Corriere della Sera, 10 febbraio 2006; P. Silvestrelli, Magistrati, chi esce non rientra, in Italia Oggi, 19 marzo 2009).