*
GIAMPIETRO FERRI*
I MAGISTRATI E LA POLITICA: IL PROBLEMA DEL DIVIETO DI ISCRIZIONE AI
PARTITI NELLA SENTENZA N.
224/2009 DELLA CORTE COSTITUZIONALE
1. L’art. 98 Cost. e la facoltà d’introdurre
limitazioni al diritto d’iscrizione ai partiti politici per i magistrati. –
Prevedendo che si possano con legge stabilire limitazioni al diritto
d’iscriversi ai partiti politici per alcune categorie di soggetti, fra cui
quella dei magistrati, l’art. 98, comma 3, Cost. attribuisce al legislatore
ordinario la facoltà di introdurre, quando vi sia un ragionevole motivo, norme
che impediscano ai magistrati di esercitare il diritto di associarsi in
partiti, in deroga all’art. 49 Cost.[1].
Con la sentenza n. 224 del
2009, la Corte costituzionale ha però dichiarato non fondata la questione
di legittimità costituzionale della norma — contenuta nell’art. 3 lett. h) del d. lgs. n. 109 del 2006, recante
«Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni
e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina
in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio
dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della legge» n. 150 del 2005[2] — che configura
come illecito disciplinare per i magistrati ordinari l’iscrizione a partiti
politici e, quindi, vieta indistintamente a tutti gli appartenenti all’ordine
giudiziario l’esercizio di un diritto politico che la Costituzione riconosce
alla generalità dei cittadini[3].
Secondo la Corte, l’art. 98, comma 3,
Cost. consentirebbe al legislatore ordinario d’introdurre per i magistrati il
divieto d’iscrizione ai partiti politici, al fine di evitare che «l’esercizio
delle loro delicate funzioni sia offuscato» dal legame con una «struttura
partitica» che implica «anche vincoli gerarchici interni».
Tuttavia, nel rimettere al
«legislatore ordinario la considerazione di “sopravvenienze fattuali” o di
“nuovi elementi valutativi”, che giustifichino» l’introduzione di una «norma
limitativa» del diritto d’iscrizione «volutamente non» inserita nel testo
costituzionale, è la Costituzione stessa a escludere la possibilità di
stabilire con legge un divieto per tutti i magistrati[4],
negando anche e prima di tutto che limitazioni al diritto d’iscrizione ai
partiti possano essere previste per le categorie non indicate[5].
2. Il d. legisl. n. 109/2006: l’iscrizione e la
partecipazione ai partiti politici come illeciti disciplinari. – Introdotto
temporaneamente in precedenza con un decreto-legge[6],
senza però essere accompagnato dalla previsione di sanzioni in caso di
violazione[7], il divieto per i
magistrati d’iscriversi ai partiti politici è stato reinserito implicitamente
nell’ordinamento prevedendo — come si è detto — che dall’iscrizione scaturisca
una responsabilità di natura disciplinare.
Ma ciò con una dilatazione ulteriore
rispetto alla previsione dell’art. 98 comma 3 Cost., configurandosi come
illecito anche «la partecipazione a partiti politici» e il «coinvolgimento
nelle attività di centri politici [...] che possono condizionare l’esercizio
delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato»[8]. Infatti, pur
apparendo in larga misura implicato in quello di iscrizione — posto che la
partecipazione agli organi di partito, se si eccettuano gli organi di garanzia
e le commissioni competenti in determinate materie (che potrebbero contemplare
la presenza di soggetti esterni professionalmente qualificati), è riservata
agli iscritti —, il divieto di partecipazione avrebbe comportato anche
l’astensione da qualsiasi riunione organizzata dai partiti (si pensi, ad
esempio, a un’assemblea convocata per discutere dei problemi della giustizia),
pregiudicando l’esercizio di un diritto, quello di riunione, che è
costituzionalmente tutelato (art. 17) e spetta al magistrato come cittadino[9]. Il divieto di
coinvolgimento nelle attività di «centri politici» avrebbe forse potuto
impedire, poi, l’iscrizione e la partecipazione a formazioni sociali diverse
dai partiti che, essendo politicamente orientate (si pensi, ad esempio, alle
fondazioni politico-culturali presiedute da uomini politici, ai circoli
culturali in qualche modo collegati a partiti o che s’ispirano a un’ideologia),
avrebbero danneggiato l’immagine del magistrato.
Ciò, s’intende, sotto il profilo
dell’imparzialità. Sebbene la norma non lo specifichi, è infatti evidente che
un’eventuale “lesione dell’immagine” non avrebbe potuto derivare che
dall’adesione o dalla frequentazione di un’associazione che, per i suoi orientamenti,
avrebbe lasciato trasparire la vicinanza del magistrato a una parte politica.
Lo si evince dalla stessa formulazione della norma, la quale, considerando
prima un aspetto sostanzialmente lesivo dell’imparzialità (il condizionamento
delle funzioni giudiziarie, che sembrerebbe però difficile da dimostrare), si
riferisce poi a un aspetto che è in apparenza lesivo della stessa
caratteristica. Lo si ricava, poi, dall’inserimento, in fondo all’elenco degli
illeciti extrafunzionali, di una “clausola di chiusura” — che verrà
successivamente abrogata — comprendente nell’area dell’illiceità «ogni altro
comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e
l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza» [art. 3
lett. l) d. lgs. n. 109/2006][10].
Tuttavia, come si è osservato in
dottrina, «la sola possibilità prevista» dalla Costituzione «è la limitazione
dell’iscrizione, ma non anche dell’appartenenza»[11].
Resterebbe, pertanto, «libera l’adesione ideologica anche apertamente manifestata»[12], così come
l’espressione di orientamenti politico-culturali e l’iscrizione ad associazioni
“di tendenza” diverse dai partiti[13].
Se così non fosse, i magistrati
sarebbero spinti ad allontanarsi non solo dalla politica partitica, ma dalla
politica tout court: con pregiudizio, ancora una volta, per l’esercizio del
diritto di riunione, oltre che per quello di associazione, che la Costituzione
riconosce a tutti i cittadini e, quindi, anche ai magistrati[14]. Con il rischio,
poi, che dall’“isolamento” dei magistrati derivino effetti negativi per
l’amministrazione della giustizia. Non va, infatti, dimenticato che è stata
proprio la partecipazione alla vita politica intesa in senso lato —
storicamente favorita dalle “correnti”, le quali hanno contribuito alla
crescita della magistratura sul piano culturale[15]
— che ha consentito ai magistrati di affrontare meglio le difficoltà della
giurisdizione all’interno di una società in rapida trasformazione; la quale,
ponendo sempre nuove domande di giustizia che accrescono i problemi di
interpretazione della legge, costringe chi è chiamato ad applicarla a
“confrontarsi” con la realtà circostante[16].
Nell’àmbito di un intervento sugli
illeciti disciplinari teso ad armonizzarne la disciplina normativa con la
Costituzione, che rifletteva il clima di distensione fra “giustizia” e
“politica” creatosi dopo il cambiamento della maggioranza governativa, la legge
n. 269/2006 ha apportato alcune variazioni alla formulazione degli illeciti
riguardanti i rapporti fra i magistrati e i partiti politici[17].
Anzitutto, fermo restando il divieto
di iscrizione per tutti i magistrati, essa ha sostituito il generale divieto di
partecipazione ai partiti con la previsione che vi siano delle limitazioni, stabilendo in particolare che la
partecipazione sia illecita quando avvenga in modo sistematico e continuativo.
La partecipazione occasionale a una riunione organizzata da un partito non
costituisce più, dunque, illecito disciplinare. Ciò, anche per un’altra
ragione. La condizione posta dallo stesso legislatore per la sanzionabilità
degli illeciti è, infatti, che essi non siano di «scarsa rilevanza» (art. 3-bis)[18].
Risulta, però, difficile vedere come
una persona non iscritta possa partecipare con continuità alla vita del partito
e, quindi, come possa esservi una partecipazione duratura disgiunta
dall’iscrizione. La previsione dell’illecito consistente nella partecipazione
«sistematica e continuativa» potrebbe allora essere superflua e anche
problematica per la difficoltà di stabilire in concreto quando vi siano la
continuità e la sistematicità.
In secondo luogo, la legge ha
innovato la disciplina precedente eliminando dall’art. 3, lett. h), il
riferimento al coinvolgimento nell’attività di «centri politici»[19].
La legge ha invece sostanzialmente confermato
come illecito il coinvolgimento in «centri [...] operativi nel settore
finanziario», che nella nuova formulazione della lett. h) si realizzerebbe quando il magistrato risulti coinvolto «nelle
attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario», sempre che
si tratti di attività che possono «condizionare l’esercizio delle funzioni o
comunque compromettere l’immagine del magistrato».
3. La sentenza della Corte costituzionale n.
224/2009 e il riconoscimento della legittimità del divieto d’iscrizione ai
partiti politici: considerazioni critiche. – La questione di legittimità
costituzionale posta davanti alla Corte è stata sollevata dalla Sezione
disciplinare del C.S.M. nel corso di un giudizio avente ad oggetto
l’accertamento della responsabilità disciplinare di un magistrato collocato
fuori dell’organico della magistratura perché addetto ad una funzione di
consulenza parlamentare, a cui era stata contestata la violazione dell’art. 3
lett. h), avendo egli assunto una carica direttiva all’interno di
un’organizzazione periferica di un partito politico, la copertura della quale
dovrebbe presupporre l’iscrizione allo stesso partito e comporterebbe in ogni
caso una continuità nella partecipazione alla vita del partito che non è
consentita.
Proprio in considerazione della
particolarità del caso, riguardante un magistrato collocato fuori ruolo (dopo
aver fruito di un’aspettativa per alcuni anni essendo stato eletto in
rappresentanza del medesimo partito senatore e, fatto assai curioso, essere stato
in tale veste promotore delle norme più restrittive per la partecipazione dei
magistrati alla vita politica[20]), ci si sarebbe
forse attesi che il giudice a quo sollevasse la questione con specifico
riferimento alla posizione dei magistrati che, trovandosi in tale condizione,
non esercitano le funzioni giurisdizionali, evidenziando che la norma oggetto
priverebbe in maniera irragionevole una categoria di cittadini (i magistrati
fuori ruolo) di un diritto politico tutelato dalla Costituzione.
La Sezione disciplinare ha, invece,
impostato la questione in termini generali, sostenendo che il divieto «formale
ed assoluto» di iscrizione ai partiti politici per i magistrati andrebbe «oltre
la nozione giuridica di mera limitazione» («ovvero di una regolamentazione che
contemperi il diritto politico del singolo con l’esigenza di imparzialità» del
magistrato), ponendosi anzitutto in contrasto con l’art. 98 Cost.[21]. Inoltre, che esso
sarebbe lesivo della libertà di associazione, in violazione degli artt. 18 e
49, nonché degli artt. 2 e 3 Cost., atteso che pregiudicherebbe il diritto del
singolo di partecipare alle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità
e il principio di eguaglianza.
Ma — a giudizio della Corte
costituzionale — i magistrati, che come cittadini devono poter godere gli
stessi diritti di libertà garantiti agli altri cittadini, per le peculiari
funzioni che svolgono non possono essere del tutto equiparati ad essi,
giustificandosi l’«imposizione di speciali doveri» a loro carico. Dovere
fondamentale, «per dettato costituzionale», è quello di essere «imparziali e
indipendenti» (art. 1, comma 2, e art. 104, comma 1, Cost.). I «valori»
dell’imparzialità e dell’indipendenza — sostiene la Corte — vanno tutelati «non
solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni
giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni
comportamento», al fine di allontanare il dubbio che il magistrato non possieda
tali caratteristiche.
Proprio in questa prospettiva, si
comprenderebbe «l’esigenza di assicurare la terzietà dei magistrati ed anche
l’immagine di estraneità agli interessi dei partiti che si contendono il campo»
recepita dalla Costituzione nell’art. 98, comma 3; il quale, secondo la Corte,
consentirebbe — come si è detto — al legislatore di introdurre un generale
divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati, senza distinzioni
per funzione e per posizione giuridica, essendo indifferente che il magistrato
ricopra un ruolo o sia temporaneamente collocato fuori ruolo, che sia in ruolo
svolgendo effettivamente le funzioni giurisdizionali oppure senza svolgerle in
quanto collocato in aspettativa (come avviene, ad esempio, quando il magistrato
sia eletto al Parlamento nazionale o al Parlamento europeo), ecc.
Inoltre, la stessa norma
costituzionale darebbe, sia pure implicitamente, al legislatore la facoltà di
«vietare la partecipazione sistematica e continuativa» all’attività dei
partiti. Infatti, detta partecipazione, comportando l’«organico schieramento
con una delle parti politiche in gioco», sarebbe suscettibile, al pari
dell’iscrizione, «di condizionare l’esercizio indipendente ed imparziale delle
funzioni e di comprometterne l’immagine».
Altro è, però, essere iscritti a un
partito mentre si esercitano le funzioni giudiziarie, altro è essere iscritti
quando, pur appartenendo all’ordine giudiziario, non si esercitano tali
funzioni, essendo intervenuto — come nel caso portato all’esame della Corte
costituzionale — un provvedimento di collocamento fuori ruolo. Mentre nel primo
caso l’indipendenza del magistrato e l’imparzialità della funzione esercitata
potrebbero talvolta risentire dei vincoli derivanti dall’appartenenza dello
stesso magistrato a un’associazione partitica (si pensi, ad esempio, a un
sostituto procuratore che si occupi dei reati contro la pubblica
amministrazione), nel secondo caso nessun pregiudizio per i valori
dell’indipendenza e dell’imparzialità potrebbe esservi perché non vi è
esercizio delle funzioni giurisdizionali.
A meno di sostenere — come sembra voler
fare la Corte nella sentenza qui annotata — che l’iscrizione a un partito
politico per il periodo durante il quale il magistrato è privo delle funzioni
giurisdizionali si ripercuoterebbe negativamente sull’immagine del magistrato
stesso nel corso della carriera, gettando delle ombre sulla sua imparzialità o
comunque non garantendola pienamente, quanto meno sotto il profilo
dell’apparenza. Lo stesso dovrebbe dirsi, però, anche per il magistrato non
iscritto a un partito che, dopo essere stato eletto e aver concluso il mandato
parlamentare, ritorni — com’è più volte accaduto — a esercitare le funzioni
giurisdizionali.
Tuttavia, il bene che sembra essere
tutelato dalla norma costituzionale che consente d’introdurre limitazioni (e
non un divieto) al diritto di associarsi in partiti per i magistrati è il
corretto esercizio della funzione giurisdizionale, al quale potrebbero nuocere
eventuali condizionamenti derivanti appunto dall’iscrizione di chi la esercita
ai partiti. La norma in questione mira, dunque, a preservare l’imparzialità
della giurisdizione. Cosa diversa è dire — come ha fatto la Corte — che occorre
rassicurare i cittadini «sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso
giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere
una parte politica»: una rassicurazione che non può essere fornita dalla norma
che vieta l’iscrizione ai partiti e da nessuna altra norma.
Potrebbe, invece, ma soltanto sul
piano meramente esteriore, essere garantita l’imparzialità, ossia l’immagine di
una giustizia lontana dalle parti, se si spingesse il magistrato ad estraniarsi
dall’ambiente in cui vive[22]. Bisogna, però,
tenere presente che — come già si è detto — il magistrato gode a pieno titolo
di tutti i diritti spettanti al cittadino, potendo esprimersi sui problemi
della giustizia, parlare degli argomenti al centro del dibattito politico,
manifestare pubblicamente per difendere un principio costituzionale, ecc.
In conclusione, comportando
un’ingiustificata restrizione di un diritto, quello di associarsi in partiti,
la Corte avrebbe dovuto dichiarare illegittima per contrasto con gli artt. 3,
49 e 98 Cost. la norma contenuta nell’art. 3 lett. h)[23], quanto meno nella
parte in cui non esclude dal novero dei magistrati destinatari del divieto di
iscrizione quelli che sono collocati fuori ruolo. Si tratta, infatti, di
magistrati che non esercitano le funzioni giudiziarie, e nei confronti dei
quali non vi è perciò ragione per l’applicazione del divieto. Inoltre, avrebbe
dovuto dichiarare l’illegittimità della stessa norma nella parte in cui prevede
come illecito la partecipazione sistematica e continuativa, che non è vietata
dalla Costituzione, pur essendo in larga misura coperta dal divieto
d’iscrizione[24].
Il fatto che la Corte abbia invece
considerato la norma che vieta l’iscrizione e la partecipazione ai partiti come
attuativa dell’art. 98, comma 3, Cost. supera ogni problema riguardo
all’inserimento nell’art. 3 lett. h)
della previsione che costituisca illecito anche il coinvolgimento nell’attività
di soggetti operanti nel settore economico-finanziario che possono condizionare
l’esercizio delle funzioni giudiziarie o comunque compromettere l’immagine del
magistrato.
Ma la Corte ha voluto sottolineare
che il legislatore non ha operato una indebita assimilazione fra ipotesi di
«ben diversa portata», «essendo stato spinto dall’esigenza di porre una tutela
rafforzata dell’immagine di indipendenza del magistrato». Si tratterebbe,
dunque, di una previsione coerente con l’esigenza di garantire l’«immagine di
indipendenza» del magistrato, la quale può essere messa «in pericolo tanto
dall’essere il magistrato politicamente impegnato e vincolato ad una struttura
partitica, quanto dai condizionamenti, anche sotto il profilo dell’immagine,
derivanti dal coinvolgimento» nelle «attività di soggetti operanti nel settore
economico o finanziario».
4. Riflessioni conclusive. – Poiché l’iscrizione dei magistrati ai
partiti politici è un fenomeno storicamente irrilevante[25]
e nessuna tendenza alla crescita delle iscrizioni sembra essersi manifestata
nel corso degli anni precedenti l’approvazione della riforma dell’ordinamento
giudiziario; poiché, pertanto, non si vede quale incidenza possa avere sui
rapporti tra i magistrati e il mondo dei partiti (e, conseguentemente, sull’esercizio
della funzione giurisdizionale) la previsione dell’illecito disciplinare
consistente nella violazione del divieto d’iscrizione, ne viene che
l’introduzione di detto divieto, più che dare risposta a un problema reale,
sembra rispondere all’esigenza di rassicurare che in futuro la giustizia non
verrà contaminata dalla politica partitica (anche se andrebbe detto che, mentre
un tempo l’attività politica si svolgeva essenzialmente all’interno dei
partiti, oggi i luoghi in cui si fa politica sono diffusi e inoltre che sono
stati i partiti ad “attrarre” i magistrati, offrendo loro candidature e
incarichi di varia natura[26]).
Così come, più che a sanzionare un
comportamento riprovevole dal punto di vista disciplinare, rispondeva
all’esigenza di rassicurare che la giustizia non sarebbe stata contaminata
dalla politica intesa in senso lato la previsione dell’illecito consistente nel
coinvolgimento in «centri politici».
Tutto ciò lasciando intendere che in passato
l’esercizio delle funzioni giudiziarie abbia subìto l’influenza della politica,
e quindi che sarebbe fondata l’accusa di “politicizzazione” che è stata rivolta
in molti casi a una parte della magistratura, la quale, dopo le “invasioni di
campo”, dovrebbe “rientrare nei ranghi”. Di qui l’impressione che la norma
implicante il divieto d’iscrizione ai partiti — come altre norme inserite nella
riforma dell’ordinamento giudiziario — sia stata concepita anche con un intento
“punitivo”[27].
Tuttavia, va osservato che le norme
giuridiche dovrebbero essere approvate per essere applicate (o, se si
preferisce, nella previsione che le prescrizioni in esse contenute abbiano la
capacità di modificare in qualche modo la realtà), e non allo scopo di
“lanciare messaggi” tendenti a rassicurare la collettività o a “richiamare
all’ordine” un potere dello Stato. Lascia perplessi che la Corte, invocando
l’esigenza di rassicurare il cittadino circa la netta separazione fra
“politica” e “giustizia”, abbia mostrato di avallare un modo di legiferare che
tende a eludere i veri problemi.
Il punto, infatti, è che vi sono
numerosi magistrati che, pur non essendo iscritti ai partiti, ricoprono cariche
elettive o cariche politico-amministrative non elettive (come quella di
assessore) a vari livelli: in certi casi, essendo collocati obbligatoriamente
in aspettativa, senza però che sia previsto un congruo periodo di tempo tra la
sospensione o la cessazione dell’esercizio delle funzioni e l’accettazione
della candidatura (o l’assunzione della carica amministrativa) nello stesso
luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale il magistrato
esercita le sue funzioni, consentendo ai magistrati che abbiano acquisito ampia
visibilità mediatica grazie all’attività professionale di trarne vantaggi
elettorali[28]; in altri casi,
potendo continuare a svolgere le funzioni giurisdizionali, non essendo previsto
dalla legislazione vigente un regime d’incompatibilità[29].
Si tratta di un fenomeno che va
tenuto distinto da quello della militanza in partiti, perché i magistrati sono
generalmente chiamati a candidarsi come “indipendenti”. Tuttavia, com’è stato
autorevolmente osservato, «la chiamata presuppone la valutazione positiva della
storia professionale dell’interessato, il che può oggettivamente appannare il
principio per cui la funzione giudiziaria va esercitata sine spe»[30]. Inoltre, la
candidatura, quanto meno in alcuni casi (si pensi, ad esempio, alle elezioni
politiche nazionali), consente chiaramente di identificare l’area politica di
riferimento del magistrato; e non si può non notare la discrasia fra la
normativa che, vietando l’iscrizione e la partecipazione duratura all’attività
dei partiti, mirerebbe a preservare l’imparzialità del magistrato (anche sotto
il profilo della mera apparenza) e la disciplina dell’esercizio del diritto di
elettorato passivo dei magistrati, che per taluni aspetti non risponde
all’esigenza di salvaguardare l’imparzialità sotto il profilo dell’apparenza e
neppure — ciò che più conta — sul piano sostanziale.
Al fine di evitare che possa essere
recato pregiudizio all’amministrazione della giustizia, occorrerebbe dunque che
il legislatore intervenisse cercando di contemperare il diritto di elettorato
passivo e di accesso ai pubblici uffici — che la Costituzione riconosce ai
magistrati come cittadini (art. 51, comma 1) — con l’imparzialità della
funzione giurisdizionale[31]. Ciò, anzitutto
prevedendo che la candidatura, così come l’assunzione di incarichi
politico-amministrativi, non possa avvenire nel luogo in cui il magistrato ha
esercitato negli anni precedenti le funzioni giudiziarie (quanto meno
nell’ipotesi in cui si tratti di funzioni che possono avere un rilevante
impatto politico-sociale), se non dopo che sia trascorso un congruo periodo di
tempo dall’interruzione o dalla cessazione delle stesse funzioni[32]. Poi, stabilendo
che, a conclusione di qualunque esperienza politica all’interno delle
istituzioni (comunali, regionali, ecc.), il magistrato non possa esercitare
sùbito le funzioni all’interno di uffici giudiziari che, per la loro
collocazione territoriale e per le loro competenze funzionali, è opportuno non
siano affidati, almeno per un certo periodo, a chi abbia ricoperto cariche
politiche e amministrative[33].
* Nota pubblicata sulla rivista «Studium Iuris», 2010, fasc. n. 2, pp. 136 ss.
[1]
Nel senso che «la legge sia autorizzata a fissare limiti unicamente di tal
natura che non si risolvano in una completa soppressione del diritto», cfr., in
dottrina, A. Cerri, Sindacati, associazioni politiche, partiti,
in G. cost. 1966, p. 1920.
[2]
Recante «Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui
al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12». Per un esame sintetico di questa
legge, cfr. Aa. Vv., La
legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in F. it. 2006, V, p. 1 ss. Per un esame della stessa legge e dei
decreti legislativi di attuazione, cfr. D. Carcano
(a cura di), Il nuovo ordinamento
giudiziario: concorso, funzioni, scuola della magistratura, ufficio del
pubblico ministero e responsabilità disciplinare (legge delega e decreti
delegati), Milano 2006.
[3]
Per i commenti “a prima lettura”, cfr. S. Prisco, Una nuova sentenza della Corte
Costituzionale sull’esercizio delle libertà politiche da parte dei magistrati,
in federalismi.it, 26 agosto 2009; L.
Pepino, I giudici, la politica, la Costituzione, in Quest. Giust. 2009, n. 4, p. 213 ss.
[4]
G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, in La
pubblica amministrazione. Art. 97-98,
in Comm. della Costituzione, fondato
da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma 1994, p. 445-6 e p. 464.
[5]
Cfr., in tal senso, L. Carlassare,
Amministrazione e potere politico,
Padova 1974, p. 107.
[6]
Cfr. il decreto-legge 3 maggio 1991 n. 141, recante «Divieto di iscrizione ai
partiti politici per gli appartenenti alle categorie indicate nell’articolo 98,
terzo comma, della Costituzione», i cui effetti si esaurirono presto, non
essendo avvenuta in tempo la conversione in legge e avendo il Governo
rinunciato alla reiterazione.
L’indicazione
nel preambolo che il decreto è emanato «in attuazione dell’art. 98, terzo
comma, della Costituzione» sarebbe indicativo di un fenomeno per il quale alla
lettura emergente dai lavori preparatori della Costituzione si è «sovrapposto,
negli anni, un diverso “senso comune”, che tende a concepire la introduzione
delle limitazioni (e addirittura del divieto) come attuazione della norma costituzionale» (così G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, cit., p. 446. Vedi anche S. Senese, Magistrati e iscrizione, in Quaderni
della giustizia 1986, n. 61, p. 9).
Della
presenza all’interno della società di un orientamento favorevole
all’introduzione di un vero e proprio divieto d’iscrizione danno prova gli
interventi in tal senso di personalità illustri: cfr. A. Galante Garrone, La politica dei giudici, in La
Stampa, 14 luglio 1981 (secondo cui il giudice nel suo «lavoro non soltanto
non può agire come uomo di parte ma deve guardarsi dall’apparire tale [...].
Per questo, approverei una legge che vietasse ai magistrati l’appartenenza ai
partiti»); L. Valiani, Giudici e libertà in una democrazia sana,
in Corriere della Sera, 8 novembre
1982 (l’art. 98 «prevede una legge sull’incompatibilità dell’iscrizione a
partiti politici dei magistrati» e sarebbe «opportuno varare tale legge,
estendendone l’applicazione a quei raggruppamenti politici che formalmente non
figurano come partiti, ma in realtà lo sono»).
[7]
Nel senso che il «divieto, ove fosse effettivamente sancito dal legislatore,
ben potrebbe essere sanzionato in sede disciplinare», cfr. G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni
aspetti generali, in Scritti in onore
di C. Mortati, IV, Milano 1977, p. 864.
[8]
Cfr. G. Ferri, Gli illeciti disciplinari fuori
dall’esercizio delle funzioni, in La
responsabilità dei magistrati, a cura di M. Volpi, Napoli 2008, p. 97 ss.
(lo scritto è pubblicato anche in Questione
giustizia, 2008, n. 5, p. 79 ss., con il titolo La responsabilità disciplinare dei magistrati per illeciti
extrafunzionali).
[9]
Nel senso che è inammissibile «trarre occasione» dall’introduzione del «divieto»
d’iscrizione ai partiti «per inibire ai magistrati altre forme di impegno
politico che non comportano l’assunzione di vincoli, come ad esempio la
partecipazione a riunioni», cfr. G. Zagrebelsky,
La responsabilità disciplinare, cit.,
p. 864.
[10]
Cfr. G. Ferri, Gli illeciti disciplinari, cit., p. 99 e
p. 106.
[11]
L. Carlassare, Amministrazione e potere politico, cit.,
p. 108.
[12]
Ibidem.
[13]
In questo senso A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia,
Torino 1990, p. 215 s., il quale rileva tuttavia l’inopportunità della
partecipazione all’attività di alcune associazioni (ad esempio, quelle che
impegnino i propri aderenti allo svolgimento di attività incompatibili con la
riservatezza che deve essere propria dei magistrati).
Diversa
è l’opinione di G. Bognetti, Magistrati senza politica, in Il Sole-24 Ore, 21 luglio 1994, il quale
scrive: la Costituzione «prevede la possibilità di vietare ai giudici
l’iscrizione ai partiti politici». «Ma la sua ratio [...] si estende
ovviamente a coprire anche tutte le ipotesi in cui il legame non riguardi un
partito politico nel senso stretto della parola ma una associazione pur sempre
di tendenza» qual è la “corrente” dell’A.N.M.
Per una proposta di revisione
dell’art. 98, che comporti il divieto di esercitare attività inerenti a partiti
o movimenti politici, nonché attività sindacali (eccettuate quelle riguardanti
in senso stretto gli interessi di categoria), cfr. S.
Galeotti, Il potere giudiziario, in Gruppo
di Milano, Verso una nuova
Costituzione, II, Milano 1983, p. 650 s.
[14]
Cfr. F. Dal Canto, La responsabilità del magistrato
nell’ordinamento italiano. La progressiva trasformazione di un modello: dalla
responsabilità del magistrato burocrate a quella del magistrato professionista,
Relazione svolta in occasione delle VI Giornate italo-spagnole di giustizia
costituzionale, dedicate al “Poder
judicial”, a La Coruña (Spagna), nei giorni 27-28 settembre 2007, in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
p. 18.
[15]
Cfr., tra gli altri, E. Cheli, Caratteri del conflitto ideologico nella
magistratura italiana, in Costituzione
e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna 1978, p. 139 s.
[16]
Cfr. G. Ferri, Magistratura e potere politico, Padova 2005,
p. 85 s.; G. Ferri, Gli illeciti disciplinari, cit., p. 104
ss.
[17]
Sulla legge 24 ottobre 2006 n. 269, recante «Sospensione dell’efficacia nonché
modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario», cfr. G. Ferri, La riforma dell’ordinamento giudiziario e la sua sospensione, in
questa Rivista, 2007, p. 391 ss.;
M.G. Civinini, A. Proto Pisani, G. Salmè, G. Scarselli, La riforma dell’ordinamento giudiziario tra il ministro Castelli e il
ministro Mastella, in F. it.,
2007, V, p. 12 ss. Sui cambiamenti specificamente inerenti alla disciplina
degli illeciti disciplinari, cfr. F. Sorrentino,
Prime osservazioni sulla nuova disciplina
degli illeciti disciplinari dei magistrati, in Quest. giust. 2007, n. 1, p. 54 ss.
[18]
In senso favorevole a tale innovazione F. Dal
Canto, La responsabilità
disciplinare del magistrato nella giurisprudenza costituzionale, in La responsabilità dei magistrati, cit.,
p. 161-2. In senso critico S. Bartole,
Il potere giudiziario, Bologna 2008,
p. 73.
[19]
Cfr., tra gli altri, F. Dal Canto,
La responsabilità disciplinare: aspetti
sostanziali, in Aa. Vv., La
«riforma della riforma» dell’ordinamento giudiziario, in F. it. 2008, V, p. 119.
[20]
Cfr. V. Piccolillo, Toghe e politica, i «divieti» di An, in Corriere
della Sera, 24 settembre 2003.
[21]
In dottrina, negano questo contrasto, ritenendo che l’introduzione del divieto sia costituzionalmente
legittima, N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna 2008, p. 60;
F. Biondi, Considerazioni di ordine costituzionale sui limiti, per i magistrati,
alla partecipazione alla vita politica (a margine di una questione di
costituzionalità), 7 aprile 2009, in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
p. 2.
[22]
Sul manifestarsi di una tendenza per la quale l’imparzialità, anziché essere
intesa come estraneità agli interessi in gioco e distacco dalle parti, viene
concepita come apoliticità del magistrato, alimentando un clima di diffidenza
nei confronti dei giudici “impegnati”, cfr. criticamente L. Pepino, Passione civile e imparzialità valori compatibili, in la Repubblica, 24 gennaio 2003; Id., Metti
una sera a cena il giudice con il premier, in la Repubblica, 29 giugno 2009 (il quale sottolinea che
l’imparzialità del giudice andrebbe verificata in base «alle sue opzioni
interpretative e al rigore delle sue motivazioni». Non sono «le idee né la loro
espressione», bensì «le “appartenenze”, in particolare se occulte, a ridurre
l’imparzialità del magistrato»).
[23]
Rivedo così l’opinione che avevo espresso incidentalmente quando, esaminando
negli aspetti essenziali il testo della legge delega di riforma
dell’ordinamento giudiziario, non mi era parso di poter dubitare della
legittimità della norma che prevede il divieto d’iscrizione (cfr. G. Ferri, Magistratura e potere politico, cit., p. 420-421).
[24]
Ma, per la tesi della legittimità della norma, cfr. N. Zanon, F. Biondi,
Il sistema costituzionale della
magistratura, cit., p. 61.
[25]
Come fu osservato dai commentatori che si erano espressi criticamente sul
decreto legge del 1991 che aveva introdotto il divieto d’iscrizione (v. supra, nota 6). Cfr., ad esempio, D. Gallo, «Martelli, mi denuncio», in il
manifesto, 21 maggio 1991, il quale parla di fenomeno «virtualmente
inesistente».
V.
anche G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, cit., p. 472 s.
[26]
L. Pepino, Csm, la falsa morale del ministro Alfano, in il manifesto, 14 giugno 2009, parla della «chiamata di magistrati
finanche come segretari particolari di esponenti di secondo piano della
maggioranza parlamentare».
Bisognerebbe,
poi, dar conto delle «pressioni» provenienti dal mondo politico «per le nomine
ad incarichi direttivi e semidirettivi», che sono state denunciate dai membri “togati”
del C.S.M. (cfr. E. Fortuna, Luci ed ombre su una gestione molto
criticata, in Il Tempo, 1
febbraio 1986; L. Pepino, Intervista a il manifesto, 25 luglio 2008).
[27]
Cfr. G. Ferri, Magistratura e potere politico, cit., p.
418 ss.
[28]
Evidenzia l’inadeguatezza della normativa che disciplina le cause di
ineleggibilità G. Di Cagno, Intervista a La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 gennaio 2000.
È
un punto così delicato che la stessa associazione di categoria ha ritenuto di
dovere esprimersi a favore dell’introduzione del principio di ineleggibilità
dei magistrati per tutte le elezioni nelle circoscrizioni comprese nel
distretto di Corte d’Appello dove hanno esercitato nei due anni precedenti la
data di accettazione della candidatura. A proposito di una delle vicende che,
riguardando la candidatura a sindaco di un’importante città di un magistrato
rimasto in servizio presso la Procura della Repubblica della stessa città fino
quasi alla scadenza del termine di presentazione delle candidature, hanno avuto
ampia risonanza sugli organi d’informazione, cfr. l’intervento critico del
segretario dell’epoca dell’A.N.M. E. Bruti
Liberati, Casson, un passo
indietro, in La Stampa, 10 marzo
2005.
A
conferma della delicatezza del problema, possono ricordarsi le reazioni
critiche alla nomina ad assessore del comune di Bologna di un magistrato da
molti anni in servizio presso gli uffici giudiziari della città (cfr. L. Orsi, La battaglia dell’Udc, firme contro Mancuso: «Rifiuti la nomina» e Casini attacca ancora «Mancuso è solo un
cattivo esempio», in il Resto del
Carlino, 28 febbraio 2006) e alla recente candidatura al Parlamento europeo
di un magistrato che, per le inchieste condotte, aveva ottenuto un’ampia
notorietà, favorita dalla sua stessa sovraesposizione mediatica (cfr. A.M. Greco, De Magistris in campo sulle orme di Di Pietro, in il Giornale, 18 marzo 2009).
[29]
Cfr., criticamente, A. Spataro, Intervista al Corriere della Sera, 8 agosto 2003.
[30]
Cfr. G. Borrè, sub Art. 98 comma 3, cit., p. 473.
[31]
Cfr. F. Rigano, L’elezione dei magistrati al Parlamento,
in G. it. 1985, IV, p. 27 ss.
[32]
Cfr., fra i numerosi disegni di legge presentati, quello d’iniziativa dei
senatori Zanettin e altri recante «Disposizioni in materia di ineleggibilità e
di incompatibilità dei magistrati», comunicato alla presidenza il 25 ottobre
2006 (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1119).
Anche
la dottrina si è espressa a favore di una nuova disciplina in tema di
candidature dei magistrati, assumendo talvolta posizioni molto rigide. Ad
esempio, G.U. Rescigno, Note sulla indipendenza della magistratura
alla luce della Costituzione e delle controversie attuali, in www.costituzionalismo.it,
21 febbraio 2007, p. 8 e p. 11, ritiene che occorra «stabilire la
ineleggibilità dei magistrati a qualunque carica rappresentativa almeno per
cinque anni dopo la cessazione dal servizio».
Nel
senso che i partiti dovrebbero dotarsi di un “codice di autoregolamentazione”,
in base al quale «chi ha gestito processi mediatici prima di tre anni non può
candidarsi», L. Violante, Intervista a La Stampa, 20 marzo 2009.
[33]
Ma è diffusa l’opinione secondo la quale ai magistrati non dovrebbe più essere
consentito di tornare a svolgere le funzioni giudiziarie: cfr., tra gli altri, G. Di Cagno, Intervista, cit.; A. Baldassarre,
in la Repubblica, 28 febbraio 1996;
F.S. Borrelli, Intervista al Corriere della Sera, 8 agosto 2003; C.F. Grosso, Le toghe in
politica, in La Stampa, 19 marzo
2009. Si sono espressi in tal senso anche i Vicepresidenti del C.S.M. Rognoni e
Mancino (cfr. D. Martirano, Rognoni: chi è eletto non torni magistrato,
in Corriere della Sera, 10 febbraio
2006; P. Silvestrelli, Magistrati, chi esce non rientra, in Italia Oggi, 19 marzo 2009).