Pasquale Costanzo
La gestione delle crisi di governo e lo scioglimento
anticipato delle Camere*
Sommario: 1. Premessa. – 2. La prassi costituzionale
anteriore al 1993. La nomina del Presidente del Consiglio. – 3. La
prassi costituzionale anteriore al 1993. La scioglimento
parlamentare. – 4. La prassi nella gestione
delle crisi di governo sotto la vigenza della normativa elettorale delle leggi
n. 276 e 277 del 1993 (l’assestamento istituzionale). – 5.
Segue. Il quinquennato parlamentare,
finalmente. – 6. La prassi nella gestione
delle crisi di governo sotto la vigenza della normativa elettorale della legge
n. 270 del 2005. – 7. Quali scenari istituzionali per le crisi di
governo a metà della XVI legislatura. – 8.
Segue. I mutamenti
della legislazione elettorale tra vaticini e inadeguatezze a determinare reali
(e legittime) torsioni del quadro costituzionale. – 9. Conclusioni (con qualche
divagazione sull’extravagante idea dello scioglimento di una Camera sola).
1. Premessa.
Allo svolgimento del tema della mia relazione, ossia la gestione delle crisi di governo e lo scioglimento anticipato delle
Camere, il sottoscritto, occorre ammetterlo, giunge
“buon ultimo” in quanto, anche a voler considerare, come pare
appropriato in questa sede, solo la fase della vicenda repubblicana che ha
preso inizio con l’abbandono del sistema elettorale proporzionale nel 1993,
sono già stati numerosi ed autorevoli i commentatori, i quali si sono cimentati
sull’argomento, che – bisogna subito sottolinearlo – chiama in causa, per più
di un profilo, addirittura la tematica della forma di governo, se non della
caratura democratica complessiva dello stesso sistema costituzionale.
È
soprattutto per questa ragione che mi corre l’obbligo di scusarmi in anticipo
delle inevitabili ripetizioni di nozioni già
ampiamente note, anche se non potrà mancare, da parte mia, il tentativo di
formulare talune considerazioni di carattere più personale.
2. La
prassi costituzionale anteriore al 1993. La nomina del Presidente del Consiglio.
– Dicevo del versante temporale costituito dal mutamento della legislazione elettorale realizzatosi, a seguito e in conseguenza del
risultato dell’ormai arcinoto referendum
abrogativo del 18 aprile 1993: mutamento che, a giudizio di taluni osservatori,
anche autorevoli, avrebbe avuto l’effetto, in virtù di “eccedenti” esiti di un
voto popolare, di dislocare anche gli equilibri costituzionali, così come
prefigurati nella Carta costituzionale del 1947 e/o come inveratisi nella
prassi repubblicana precedente[1].
Ora,
per quanto riguarda particolarmente tale prassi, anche una rapidissima rassegna
della manualistica e dei commentari dell’epoca rinviava, per quanto riguarda la
gestione delle crisi di governo, ad un sostanziale
consenso sul fatto che il Capo dello Stato, nell’esercizio dell’attribuzione
conferitagli dall’art. 92, comma 2, della Costituzione, ossia di nomina del
presidente del Consiglio, debba orientarsi verso scelte a vocazione
maggioritaria, in grado, in altri termini, di ottenere la fiducia della
maggioranza delle Camere[2].
A tale
scopo, benché il testo costituzionale nessun cenno vi faccia, al Presidente
della Repubblica spetterebbe, in forza di un obbligo di natura consuetudinaria,
procedere alle cd. consultazioni, la cui ampiezza
potrebbe variare in dipendenza delle particolari contingenze politiche (nel
senso, cioè, di suggerire l’audizione delle personalità reputate più idonee ad
offrire a il necessario supporto conoscitivo, fermo restando il nocciolo duro
degli esponenti delle forze politiche rappresentate in Parlamento): ma, non
mancando in proposito chi ha sottolineato la valenza delle consultazioni anche
nel senso di chiarire, ancor prima, le ragioni di crisi svoltesi in modo assai
poco trasparente, se non indecifrabile, ai più. Quest’ultimo rilievo vale
evidentemente per le cd. crisi extraparlamentari, che
hanno, salvo rarissimi casi, costituito, in quella fase, il genus più praticato delle crisi di
governo, motivando, persino, che, almeno a partire dalla presidenza Pertini (e
a corrente alternata successivamente) si sia tentata la cd.
parlamentarizzazione della crisi, operata con il respingimento delle dimissioni
del Governo ed il suo rinvio alle Camere per l’eventuale constatazione,
nell’ambito di una procedura formale e pubblica, della sopraggiunta
impossibilità per il Gabinetto di durare (è quasi superfluo rilevare come anche
tale prassi abbia mostrato i suoi inconvenienti quando foriera di una
radicalizzazione dello scontro politico)[3].
Mi
rendo, peraltro, conto come tutto questo affastellarsi di notazioni apra, a sua
volta, scenari problematici di vasta portata su cui la
dottrina pubblicistica di quegli anni ha condotto indagini approfondite e
illuminanti, Non c’è modo, purtroppo, di rievocarne qui esaustivamente gli
esiti, potendosi, tuttavia, almeno ricordare come, nel corso del tempo, il
ruolo del Capo dello Stato, quale risolutore delle crisi di Governo, si sia andato
viepiù arricchendo strumentalmente a tale primaria funzione (di qui l’opinione
della loro sostanziale ammissibilità), di tratti di carattere più attivo,
quando non addirittura protagonista, rispetto al ruolo, pur fondamentale, di un
semplice mediatore istituzionale.
Mi
riferisco intuitivamente, oltre che al già ricordato impulso alla
parlamentarizzazione delle crisi, alle prassi del mandato esplorativo e del
preincarico, quali figure destinate a creare le condizioni più propizie per un
esito favorevole delle crisi medesime[4].
Per altro più generale verso, non va neanche trascurato lo stesso potere, ormai
pacificamente riconosciuto al Presidente di sterilizzare momentaneamente le
crisi, attraverso una valutazione prudenziale del momento esatto in cui accettare
le dimissioni (facoltà che gli sarebbe, invece, preclusa in
presenza di passaggi formali avversi al Governo e generatori in via
immediata dell’obbligo costituzionale delle dimissioni).
Più
problematiche, se mai, potrebbero considerarsi le situazioni nelle quali. da
parte del Capo dello Stato, si sia proceduto alla delimitazione delle possibili
soluzioni di uscita dallo stallo ministeriale, in tanto accettabili, a mio
avviso, in quanto liberamente condivise dal soggetto
incaricato e non, quindi, nel caso in cui si trattasse di una condizione sine qua non calata dall’alto per la
ricostituzione di un nuovo Gabinetto.
Meno
apportatore di perplessità mi parrebbe, invece, l’esercizio di qualche potere
d’influenza in ordine alle scelte dei Ministri, in quanto
vertente sulla loro personalità morale e fors’anche sulla sulla loro competenza
tecnica in concreto, senza alcuna ingerenza, s’intende, nell’impianto politico
del Ministero.
Sicché,
conclusivamente, assolutamente significativa, in
questa ricostruzione del ruolo presidenziale nella gestione delle crisi di
governo, si rivela la circostanza che la controfirma del Presidente del
Consiglio designato, apposta al proprio decreto di nomina attesti come la
relativa decisione sia da ricondursi alla sostanziale indicazione del Capo
dello Stato[5].
3. La
prassi costituzionale anteriore al 1993. La scioglimento
parlamentare. – Ancora, purtroppo, a notazioni sintetiche si è
costretti, affrontando l’altro versante di questa mia relazione. ossia quello della gestione dello scioglimento parlamentare,
quale si era venuto a configurare nei quattro decenni e più trascorsi dalla
presa di vigore della Costituzione repubblicana. Rispetto alla relativa
problematica prende rilievo, come nel già citato caso dell’art. 92, comma 2, Cost., una disposizione ad hoc (e, quindi, non ricompresa nel catalogo dell’art. 87 Cost.)
intesa a conferire la titolarità del potere al Presidente della Repubblica,
laddove, tuttavia, non altrettanto incontrovertibile risulta la valenza della
controfirma apposta al decreto di scioglimento dal Presidente del Consiglio.
A
parte, infatti, l’opinione, espressa agli albori della Repubblica e rivelatasi
assolutamente minoritaria, dello scioglimento come potere sostanzialmente
governativo[6],
le principali tesi che si sono contese il campo sono,
com’è noto, due. L’una è quella che punta sulla titolarità sostanzialmente
presidenziale di detto potere, per cui il concorso ministeriale alla formazione
dell’atto andrebbe ricondotto (non diversamente da qualche altro esempio che
pure potrebbe farsi) ad una funzione di controllo di
legittimità da parte del soggetto controfirmante, tanto da essere riguardato
come un atto dovuto[7].
L’altra tesi perora, invece, la natura cd. duumvirale
del congedo anticipato dei parlamentari, in quanto rifletterebbe un paritario
concorso di natura sostanziale delle volontà del Presidente della Repubblica e
del Presidente del Consiglio[8].
Per
vero, il quadro non sarebbe accurato se non fossero ancora
ricordate sia la proposta ricostruttiva di chi (Esposito) ha visto nell’atto di
scioglimento una decisione. per così dire, a geometria variabile, potendo
talora imputarsi al solo Capo dello Stato e talaltra al solo Governo,
rispettivamente, se dettato da una crisi del sistema, o se rientrante invece
nell’ordinaria amministrazione[9]; sia quella di chi ha ragionato di una sostanziale pratica
dell’autoscioglimento nella vicenda repubblicana italiana, di cui il Capo dello
Stato sarebbe, in ultima analisi, costretto a prendere atto[10].
Dovrebbe
essere abbastanza chiaro, a questo punto, come l’opzione
per una o l’altra di dette soluzioni implichi la risposta da darsi all’altra
fondamentale questione in materia, attinente all’individuazione dei corretti
presupposti costituzionali del provvedimento di dissoluzione, considerato, tra
l’altro, che, ad essi, il testo costituzionale non fa alcun esplicito
riferimento.
Non
par dubbio, infatti, che le motivazioni di uno scioglimento operato da un
organo di garanzia ed estraneo al circuito della formazione e della gestione
dell’indirizzo politico, qual è il Capo dello Stato in una forma di governo
parlamentare come la nostra, non possano attenere che alla manutenzione esterna
di tale circuito, da ripristinarsi, appunto, quando il suo principale relais è riconosciuto nell’incapacità di
funzionare (cd. scioglimento funzionale)[11]; mentre un organo squisitamente politico quale è, appunto,
il Governo potrebbe anche (e soprattutto) essere comprensibilmente mosso
dall’intento di provocare un giudizio popolare sulla sua conduzione o sulla
risoluzione da darsi ad un contrasto politico di rilevante portata.
Occorre,
peraltro, per maggior completezza, rammentare, come altre ipotesi sono state
formulare per sostenere la legittimità di uno scioglimento parlamentare, tra
cui, l’insorgenza di problemi del tutto nuovi su cui gli eletti non avessero
perciò potuto prendere posizione durante la campagna
elettorale, od il presunto venir meno (a causa, ad esempio, del risultato di
tornate elettorali parziali od intermedie) della corrispondenza tra eletti e
corpo elettorale[12];
laddove anche l’eventualità di uno scioglimento-sanzione non è stata esclusa
allorché il Parlamento resti inerte nei confronti di essenziali adempimenti
costituzionali[13].
4. La
prassi nella gestione delle crisi di governo sotto la vigenza della normativa
elettorale delle leggi n. 276 e 277 del 1993 (l’assestamento istituzionale).
– I due aspetti, per così dire, del Presidente risolutore e del Presidente
dissolutore, appena abbozzati, non sono ovviamente separati o separabili tra
loro, dal momento che, se una crisi di Governo pone
sempre le condizioni per l’attivazione del ruolo “ricostituente” del Capo dello
Stato, rappresenta, nel contempo, la premessa necessaria, anche se non sufficiente,
per l’innesco della procedura di scioglimento parlamentare. Più precisamente,
è, soprattutto, in esito all’infruttuoso tentativo di coagulare una maggioranza
parlamentare intorno ad un nuovo Ministero che lo scioglimento palesa la sua
caratterizzazione funzionale, destinato com’è a consentire al corpo elettorale
di proiettare nuove dimensioni e nuovi equilibri nelle
Camere elettive.
Ora,
che tale raffigurazione corrisponda alla pratica interpretativa ed attuativa indotta dalla nostra forma di governo è parso
fino a tempi recenti un punto pressoché incontestabile[14],
così come sufficientemente evidenti sono stati ritenuti i valori costituzionali
a cui tale pratica ha prestato il doveroso ossequio. Più esplicitamente,
postulato il carattere distruttivo dello scioglimento parlamentare, la sua
configurazione nei termini di extrema
ratio in un sistema politico che ha nella rappresentanza parlamentare il
suo baricentro è apparsa la necessaria conseguenza. Di qui, l’obbligo
costituzionale del Capo dello Stato di esperire con il massimo scrupolo
tentativi di ricomposizione di una maggioranza idonea a scongiurare
il rimedio terminale della dissoluzione, in ciò, peraltro, non potendo
discriminare alcuna delle forze politiche presenti in Parlamento in quanto tutte
parimenti dotate della dignità e dell’idoneità a governare il Paese.
Ecco
perché, prima di cercare di accreditare o smentire l’ipotesi formulata
all’inizio di una qualche metamorfosi del quadro istituzionale che sarebbe stato indotta dal mutamento delle regole elettorali, non
sembra inutile operare anche una succinta ricognizione della concreta pratica
costituzionale della gestione delle crisi avutasi dopo il 1993, posto che, se
il riscontro del modo di attuazione delle regole costituzionali, il formarsi di
nuove regolarità ed il deperimento di vecchie non può certo valere ad
emarginare il dato formale, resta però il solo a fornire indicazioni su quale,
tra le varie soluzioni che la duttilità del testo può consentire, si sia
inverato nella prassi costituzionale.
È,
dunque, del 1993 (precisamente, con l’approvazione delle leggi 4 agosto 1993 n.
276 e n. 277) sotto la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, inviato alla massima
carica dello Stato appena l’anno precedente (25 maggio 1992), il ridisegno
radicale del sistema elettorale, a cui, a torto o a
ragione, venivano in buona parte addebitate le disfunzioni del sistema
Da
tale momento in poi, il quadro politico-partitico ormai disgregato per la
convergente azione di diversi fattori, tenderà, per effetto della nuova
normativa, a ricomporsi, in maniera pressoché assorbente, su due poli
contrapposti capeggiati da leaders autocandidatisi alla Presidenza del Consiglio per il
caso di vittoria della rispettiva parte politica, così che, innegabilmente, il
Capo dello Stato non avrà difficoltà nel riconoscere, in una maniera
incomparabilmente più sbrigativa che per il passato, nel leader della coalizione vittoriosa alle elezioni il soggetto
verosimilmente in grado di formare il governo d’avvio della legislatura.
Alle
prime elezioni regolate dalla nuova legge elettorale, si arriva, dunque, il 27
marzo 1994, quando viene sostituito l’ultimo dei
Parlamenti eletti con il precedente sistema proporzionale, allorché l’XI legislatura aveva dato vita, sia pure con lo sfilamento
del Partito Repubblicano, ad una maggioranza simile a quella che aveva
caratterizzato i governi italiani fin dal 1981, da quando, cioè, era stato dato
avvio alla prima esperienza di un Gabinetto capeggiato da un esponente di un
partito diverso dalla Democrazia Cristiana. Il Parlamento in parola aveva, in
breve torno di tempo, attribuito la fiducia al Governo Amato ed
al Governo Ciampi[15],
ossia ad un Governo politicamente caratterizzato ed ad un altro cd. tecnico,
finché si era fatta inoppugnabilmente manifesta una situazione sfilacciata in
cui se una maggioranza sembrava numericamente possibile, minori chances erano offerte a maggioranze che
fossero convintamente impegnate intorno ad un programma politico comune, come
stava, del resto, a dimostrare il supporto ad un ministero tecnico che, per
quanto autorevole, sortiva sostanzialmente l’effetto di tenere in vita il
Parlamento.
In
questo senso, nutro la convinzione, che, anche lo scioglimento del 16 gennaio
1994, al di là di quanto affermato nello stesso
messaggio di accompagnamento del Presidente Scalfaro, nonché da pregevoli
commenti del medesimo, sia da annoverarsi all’unica categoria di scioglimenti
ritenuta fino ad allora ammissibili, ossia quelli di funzionalità, se si
concorda sul fatto che le patologie idonee a denunciare l’impotenza
parlamentare possono, in fondo, diagnosticarsi anche senza il sintomo patente
della crisi di governo, ma anche dalla storia clinica di una rappresentanza,
qualora questa, a cui nessuno potrebbe fare ostacolo nel proporre soluzioni
ministeriali condivise e politicamente caratterizzate (anche magari rimuovendo
il Ministero in carica nelle forme costituzionali), resta invece afasica,
indecisa e finalmente inerte davanti ad uno scioglimento, più volte e con tanto
anticipo preannunciato (si ricordino le parole di Scalfaro dopo l’esito
referendario del 1993 e ancora il discorso del Capodanno 1994), ma mai
risolutamente avversato o contraddetto.
Tra
l’altro, questa mia proposta ricostruttiva, se convincente, potrebbe anche
togliere dall’imbarazzo di vedere nell’episodio un’eccezione alla regola o
addirittura l’inizio di un’inversione di rotta rispetto alla prassi precedente,
intesa a far valere, invece, dissociazioni profonde tra Parlamento e opinione
pubblica (sempre del tutto problematiche da comprovare).
Comunque
sia, mi pare che viga un sufficiente consenso circa il fatto che la sequenza
crisi di governo – scioglimento parlamentare che ha caratterizzato la
successiva XII legislatura abbia corrisposto al
modello impostosi nel circa mezzo secolo di Repubblica che l’ha preceduto.
Con il
ritiro della Lega Nord dalla coalizione governativa
uscita vittoriosa dalle elezioni del 27 marzo 1994, il Presidente della
Repubblica respinge, infatti, ogni automatismo destinato a congedare
anticipatamente i parlamentari, e, reperita alle Camere una nuova maggioranza
(si ricordi, tra l’altro, come la stessa coalizione recasse in sé i segni di
una forte ambiguità costruita com’era su combinazioni diverse a livello di
alleanza al nord e al sud del Paese, imperniate su forze politiche in forte
tensione dialettica tra loro stesse), forma il Governo Dini che, alla Camera
ottiene la fiducia con i voti del centrosinistra e della Lega Nord, mentre il
Polo delle Libertà si astiene, risultando ostili solo i 39 componenti di
Rifondazione Comunista.
Difficile,
dunque, tra l’altro, dire, come pure è stato detto detto,
che fosse un governo di minoranza, pur se caratterizzato da una compagine dove,
per la prima volta, non sedeva alcun componente parlamentare.
Ma
anche la vicenda del Ministero Dini dimostra quanto remota fosse in tale
momento l’idea dell’esistenza di automatismi dissolutori: vi fecero,
infatti, seguito, dapprima, il rinvio alle Camere del Governo teso a ripianare
la configurazione extraparlamentare della crisi; e, quindi, il cd. tentativo
Maccanico, che, alfine, con il suo insuccesso, certificò la sussistenza delle
condizioni classiche dello scioglimento di funzionalità (poi decretato il 16
febbraio 1996), non essendo praticabile alcuna maggioranza di governo nelle
Camere[16].
5. Segue.
Il quinquennato parlamentare, finalmente. – La XIII
e la XIV legislatura non offrono esempi di
scioglimenti anticipati, essendo stato, in entrambi i casi, esaurito l’intero
mandato parlamentare (per avere esempi del genere, occorre risalire alle prime
quattro legislature e alla X, sicché fino ad oggi solo 7
legislature su 16 hanno tagliato il traguardo costituzionale del quinquennato)
Per converso, nessun governo nell’arco temporale delle due legislature dura
quanto esse, verificandosi cesure in corrispondenza di altrettante crisi
dell’esecutivo.
Sono,
pertanto, i relativi episodi ad interessare in questa
sede. Particolarmente frastagliata è l’esperienza governativa della XIII legislatura, benché, alle elezioni del 21 aprile 1996,
le coalizioni abbiano giocato un ruolo maggiormente
consapevole dell’importanza di accordi di governo al possibile non precari e
non ambigui, in grado di offrire al programma, per la sua attuazione, il
respiro dell’intera legislatura.
Ma non
sempre una tale consapevolezza è assecondata dalla pratica politica, che resta
ancora considerevolmente segnata da tatticismi e da veti incrociati, tanto più
probabili quanto meno è forte il collante della
coalizione. Ciò può, del resto, in parte, spiegare il più alto numero di incidenti occorsi alla maggioranza di centrosinistra, che
ha retto il timone del governo nella XIII
legislatura, rispetto alla maggioranza di centrodestra cui è toccato lo stesso
ruolo nella legislatura successiva.
Ma,
per restare all’esperienza inaugurata dal Governo Prodi I, subito dopo le
elezioni dianzi ricordate, inizia uno stillicidio
contestativo che tocca un suo primo acme (dopo la crisi, poi rientrata con il
ripristino del rapporto fiduciario con Rifondazione Comunista, dell’aprile 1997)
con le dimissioni del Presidente del Consiglio il 9 ottobre dello stesso anno
per contrasti interni alla maggioranza sui contenuti della legge finanziaria
sfociati nella presentazione di una mozione di sfiducia da parte di
Rifondazione Comunista[17].
Si noti
come, in tale occasione, l’opposizione di centro-destra, pur reclamando le
dimissioni di Prodi, si dichiara contraria alle elezioni e favorevole invece ad un governo di larghe intese che comprenda Polo e Ulivo e
che serva – come viene detto – a "portare l'Italia in Europa”.
Segue,
invece, come da copione della cd. Prima Repubblica, il
rinvio alle Camere, dove, per questa volta, il Governo ritrova la fiducia. E,
al proposito, crediamo debba convenirsi sull’esattezza dell’osservazione[18]
per cui, a seguito di una crisi, la successiva permanenza del medesimo Premier alla guida del ministero (ma,
per vero, qualunque altra soluzione) si dissalda dall’esito elettorale sulla
cui base era stato prescelto per rigenerarsi nel solo collegamento con la
rappresentanza parlamentare della cui maggioranza è ora sostenuto
Comunque
sia, non sarà questa la fisionomia della crisi successiva, nell’ottobre 1998,
originata dalla mancata approvazione di una questione di fiducia apposta dal
Governo su una risoluzione (anche se non mancherà, tra i tentativi di uscirne fuori, un mandato esplorativo, poi fallito, allo stesso
Prodi). Da tale seconda crisi, si esce non solo con un altro Presidente del
Consiglio (Massimo D’Alema), ma persino con una maggioranza diversa da quella
vittoriosa alle elezioni e in cui convivono il nuovo
partito di Cossutta, ora organico alla maggioranza e non più semplice
desistente; e l’UDR di Cossiga (di qui, mi pare, anche la non decisività di
eventuali identità cromosomiche nella successione dei due Premiers del centro-sinistra) [19].
Peraltro, l’esperienza D’Alema si rivela non meno turbolenta: il suo governo è
assillato da una prima crisi, originata da vivaci critiche da parte di una componente della coalizione, che sfocia nelle dimissioni del
Governo il 19 dicembre 1999, in esito alla quale, tuttavia, D’Alema viene
riconfermato, dopo appena quattro giorni, nella carica da Ciampi, Presidente
della Repubblica neoeletto il 13 maggio precedente, laddove la mancata
parlamentarizzazione della crisi può forse spiegarsi con il valore di
sostanziale rimpasto dall’operazione: rimpasto che, del resto, era già stato
ventilato prima dell’apertura della crisi stessa.
Il
rinvio del Governo dimissionario alle Camere non manca, invece, nel successivo
episodio che, il 17 aprile 2000, chiude definitivamente l’esperienza del
Governo D’Alema II. Di fronte, tuttavia, al suo esito
negativo, il Capo dello Stato rifiuta risolutamente la richiesta di
scioglimento pretesa dall’opposizione di centro destra (si noti che, nelle
elezioni regionali appena svoltesi con il nuovo sistema che prevedeva
l'elezione diretta dei Presidenti delle Giunte regionali, era emersa una netta
affermazione della coalizione di centro-destra),
mentre la maggioranza indica in Giuliano Amato il Presidente del Consiglio, al
quale, infatti, toccherà di traghettare il Governo alla fine naturale della
legislatura (se si considera meramente tecnico e privo di rilevanza politica
(al fine di evitare le elezioni nel periodo estivo) lo scioglimento anticipato
decretato da Ciampi l’8 marzo 2001[20].
La XIV legislatura nata con le elezioni del 13 maggio 2006 è, anch’essa, destinata, come già
detto, a durare i cinque anni previsti dall’art. 60 Cost., ma, per le ragioni
accennate, si presenta meno accidentata, registrando soltanto la crisi, indotta
dall’esito negativo per il centro-destra delle elezioni regionali del 2005.
Peraltro,
la procedura che contrassegna questo episodio non appare delle più consuete.
Presentatosi al Senato il 20 aprile, il Presidente del Consiglio Berlusconi,
che capeggia il governo sostenuto dalla coalizione di
centro-destra vittoriosa alle elezioni dianzi citate, ancora prima di recarsi
al Quirinale a rimettere le proprie dimissioni, annuncia la sua volontà di
costituire un nuovo governo di fine legislatura. Tale annuncio segue
evidentemente agli accertamenti già effettuati “in proprio” per la
ricomposizione della crisi: trascorrono, infatti, appena ventiquattro ore dal
conferimento del nuovo incarico allo stesso Berlusconi da parte del Capo dello
Stato ed il giuramento del nuovo Gabinetto.
D’altro
canto, è lo stesso Berlusconi a lagnarsi per la serie di passaggi
costituzionalmente imposti nel passaggio tra un governo e l’altro, mentre dal Quirinale
fanno ufficiosamente sapere che quelli, che, sempre più spesso, vengono definiti «riti da Prima Repubblica», sono stati
inventati come strumenti di garanzia della nostra democrazia parlamentare.
Resta, in ogni caso, indubbio che, nella circostanza,
il protagonismo del Presidente del Consiglio dimissionario tende a prosciugare
al possibile il ruolo affidato dalla Costituzione al Presidente della
Repubblica.
La
legislatura si conclude, anch’essa, con uno
scioglimento anticipato di natura tecnica teso ad evitare il cd. ingorgo
istituzionale che si sarebbe verificato con la sovrapposizione delle elezioni
politiche all’elezione del capo dello Stato[21]:
ma, non prima, che il Governo riesca a varare, con il netto voto contrario
dell’opposizione, una nuova legge elettorale (n. 270 del 2005).
Al
proposito, rileva meno ricordare il credito dato alle supposte finalità di tale
legge di destabilizzare sul nascere la coalizione di
centro-sinistra data per vittoriosa alle successive elezioni, che non il fatto
che, invece, con la nuova riforma, si passa da un sistema elettorale
prevalentemente maggioritario ad un sistema elettorale proporzionale su liste
bloccate di candidati, caratterizzato da una pluralità di clausole di
sbarramento e da un ingente premio di maggioranza alla lista o alla coalizione
di liste comunque meglio piazzata. (su base nazionale alla Camera e su base regionale al Senato).
6. La
prassi nella gestione delle crisi di governo sotto la vigenza della normativa
elettorale della legge n. 270 del 2005. – Benché della legge n. 270 del 2005, sarà necessario
ancora ragionare più avanti, al momento, occorre, proseguendo sulla
linea principale del discorso, dare conto della gestione delle crisi di governo e dello scioglimento anticipato delle
Camere proprio sotto il suo vigore e con riferimento a certe sue criticità.
Infatti, talune aporie insite nella nuova normativa
elettorale non si fanno attendere per manifestarsi, dato che le accennate
diverse modalità di assegnazione del premio di
maggioranza non consentono al Governo Prodi II,
nominato il 17 maggio 2006 dal Presidente della Repubblica Napolitano eletto
appena una settimana prima, di usufruire dello stesso margine di maggioranza nei
due rami del Parlamento (al Senato, si tratta di un vantaggio rischiosamente
risicato).
In
questo quadro, il Governo Prodi si trova a condurre una vita perigliosa e di
corto respiro, dovendo non infrequentemente far conto sui senatori a vita. Il
Governo entra, dunque, in crisi, una prima volta, nel febbraio 2007, quando si
dimette dopo il rigetto di una risoluzione in tema di politica estera[22],
e va ad esaurirsi definitivamente, nel febbraio del
2008, dopo il rigetto di una questione di sfiducia posta al Senato
Ora,
la crisi del 2007 viene risolta, secondo tradizione,
rinviando il Governo in Parlamento, che si esprime a suo favore (sul cd.
dodecalogo formulato da Prodi), con conseguente “riavvolgimento” della crisi.
Il Presidente della Repubblica, Napolitano, a corredo della sua decisione,
rispondendo a talune sollecitazioni, precisa come non ricorrano nella specie “le condizioni per un immediato scioglimento delle Camere,
sia alla luce di una costante prassi istituzionale sia in considerazione di un
giudizio largamente convergente, benché non unanime, sulla necessità
prioritaria di una modificazione del sistema elettorale vigente”[23].
Di
qui, mi pare, anche la necessità di registrare un’attitudine presidenziale
assai più attenta ai profili del merito delle crisi rispetto al passato, che,
se non si converte, in indebite ingerenze nella dialettica politica, ben può
arricchire il già ricordato armamentario di cui il Capo dello stato può
disporre per esercitare al meglio le sue attribuzioni costituzionali. Per altro
verso, non può non far riflettere come le problematicità in merito alla
formazione della rappresentanza parlamentare possano essere state considerate
persino una controindicazione al ricorso allo scioglimento, direi in netta
controtendenza rispetto a chi, proprio allo spirito di tale legge, si appella
per accreditare la vigenza di automatismi dissolutori.
Nel
2008, la situazione appare subito assai grave, per il defilarsi, rivelatosi,
irreversibile di componenti numericamente essenziali
della maggioranza. La non percorribilità di salde maggioranze
politiche di ricambio è, del resto, visibile a luce meridiana: ma tale
circostanza – si ponga attenzione al caso - sulla scorta del precedente del
2007, finisce, persino essa, per non sembrare più sufficiente per l’avvio della
procedura di dissoluzione, ritenendosi, invece, più corretto e più
corrispondente all’interesse generale (ad avere una legge in grado di
“realizzare la necessaria stabilità politica ed efficienza istituzionale”)
cercare di pervenire a nuove elezioni con una riforma della legge elettorale.
Occorre, peraltro, ricordare come, anche con il già menzionato Governo Dini, le
preoccupazioni collegate alla legislazione elettorale nel suo complesso avessero contribuito a sorreggere la formazione di un nuovo
ministero piuttosto che un provvedimento di dissoluzione (ossia la necessità di
una disciplina organica e stabile della cd. par
condicio, oltreché dell’allestimento della normativa elettorale regionale).
Non
deve, pertanto, apparire sorprendente se simili considerazioni sono alla base
anche del tentativo Marini, per cui, al Presidente del Senato, il Capo dello
Stato affida, il 30 gennaio 2008, l’incarico “di verificare le possibilità di
consenso su una riforma delle legge elettorale e di
sostegno ad un Governo funzionale all'approvazione di tale riforma e
all'assunzione delle decisioni più urgenti”[24].
Tale
tentativo sarà, tuttavia, destinato a fallire, soprattutto per l’opposizione
dei leaders di centro-destra,
inducendo l’incaricato a rimettere il mandato ed il
Capo dello Stato ad emanare, il 6 febbraio 2008, il decreto di scioglimento
delle Camere, non senza aver rimarcato, in un messaggio di pari data di esservi
stato costretto dall'accertata impossibilità di
dar vita a una maggioranza che concordasse in particolare sull'approvazione in
tempi brevi di una riforma della legge elettorale.
La XVI legislatura, ancora in corso nel momento in cui vi
parlo, ha avuto avvio con le elezioni del 13/14 aprile 2008, celebratesi per la
seconda volta con le regole recate dalla legge n. 270 del 2005, che hanno dato al centro-destra un ampio margine di maggioranza
sia al Senato, sia alla Camera, conducendo alla formazione del Governo
Berlusconi IV in carica dall’8 maggio 2008, il quale
si è, pertanto, profilato all’inizio come un governo dotato di una solidità
sconosciuta all’esperienza italiana e verosimilmente destinato a durare tutto
l’arco della legislatura.
Occorre,
del resto, riconoscere come il Governo non abbia fino ad oggi subito scosse
istituzionali d’intensità paragonabile a quelle subite dallo stesso Berlusconi
o da Prodi nelle legislature precedenti, ed anzi,
anche di recente, a fine settembre, sulla questione di fiducia sui famosi
cinque punti ha raccolto il necessario consenso, ossia quando assai netto era
già il distacco rispetto alla componente facente capo al Presidente della
Camera Gianfranco Fini, cofondatore del Popolo della Libertà, ma poi fatto
oggetto di ostracismo, insieme ai suoi sostenitori, per le sue prese di
posizioni critiche nel confronti di Silvio Berlusconi.
Per
vero, momenti critici non sono mancati, ma hanno riguardato singole componenti del Gabinetto, come nel caso del Ministro per lo
Sviluppo economico, del Ministro senza portafoglio per la Sussidiarietà e il
Decentramento, e di un Sottosegretario all’Economia e alle Finanze, tutti
dimessisi in seguito alla mera e ventilata minaccia di una mozione di sfiducia
individuale; mentre, non è stata accolta una mozione di sfiducia individuale ad
un Sottosegretario alla Giustizia, anche se l’occasione ha segnato la prima
volta (4 agosto 2010) in cui, dall’inizio della legislatura, il Governo
Berlusconi non ha più avuto la certezza di detenere la maggioranza assoluta
alla Camera.
La
situazione successivamente, com’è noto, è andata
aggrovigliandosi, mentre la posizione del Gabinetto è parsa in taluni momenti
assai precaria, fino all’ultimo episodio, del 15 novembre scorso, delle
dimissioni dei componenti della compagine governativa facenti capo al movimento
politico, nel frattempo, costituito da Gianfranco Fini.
Ora,
transitando nella pura cronaca, non è certo il caso che siano rievocate vicende
che sono sotto gli occhi di tutti: basti dire che l’attuale tregua politica, se
così si può dire, è frutto della necessità di procedere all’approvazione della
legge di stabilità (ex legge
finanziaria), senza cui v’è pressoché unanime consenso
che il nostro Paese rimarrebbe esposto, più di quanto lo sia già ora, alle
reazioni negative dell’Unione europea e degli organismi e dei mercati
finanziari a livello planetario. Per iniziativa, in particolare, del Capo dello
Stato, che, così, ha ancor più irrobustito un suo ruolo maggiore nella gestione
non solo delle crisi, ma anche delle “precrisi”, grazie ad un incontro con i
Presidenti delle Camere, la crisi politica, culminata nella presentazione alla
Camera di una mozione di sfiducia al governo ai sensi dell'art. 94 della Costituzione, e nella richiesta del Presidente del
Consiglio di rendere comunicazioni al Senato e alla Camera, è stata “posposta”
all'esigenza di dare la precedenza, nell’agenda parlamentare, all'approvazione
finale delle leggi di stabilità e di bilancio per il 2011[25].
Ma
proprio questa boccata di ossigeno per l’Esecutivo sta in un certo senso
concedendo tempo per allestire da parte di tutti i soggetti interessati
le misure ritenute più opportune, da parte del Governo, per assicurare
la sua sopravvivenza, e, da parte degli oppositori, per tentare di liquidare
l’esperienza Berlusconi e forse per rimettere a zero l’orologio delle vicende
istituzionali italiane dopo che, proprio a partire dai primi anni ’90, la scena
politica è stata fortemente occupata, non senza vistose anomalie, dal titolare
del maggior numero di concessioni radiotelevisive nel nostro Paese.
Resta,
tuttavia, gravido di interrogativi e, perciò,
intrigante per il costituzionalista il percorso che, nel caso in cui un atto di
dimissioni determinasse la fine del Governo Berlusconi IV,
occorrebbe compiere per non debordare, nemmeno questa
volta, dal solco tracciato dai principi e dalle regole costituzionali, così
come interpretati ed applicati finora a fronte della loro creduta, immutata
consistenza nell’arco di più di sessant’anni di vigenza.
7. Quali
gli scenari istituzionali possibili per le crisi di governo a metà della XVI legislatura. – Fortunatamente, è possibile – credo – ridurre all’essenziale il fascio delle
soluzioni possibili, vertendosi in sostanza nella
sola alternativa se, in seguito alle dimissioni del
Gabinetto, debba in maniera automatica procedersi al
ricorso alle urne in base a valutazioni ancorabili al contesto istituzionale,
previo prematuro decesso della XVI legislatura (la
cui fine naturale cadrebbe nell’aprile 2013) o se, invece, possa o debba il
Capo dello Stato tendere, per quanto possibile, al raggiungimento di
quest’ultima data in ossequio all’art. 61 cost., attraverso il rinvenimento di
maggioranze alternative e pervie in seno alla rappresentanza parlamentare.
A
questo proposito, eviterò di fare riferimento ai pronunciamenti delle parti in
conflitto, potendo essere comprensibile l’interesse degli avversari della
maggioranza di centro-destra a rilevare il testimone del governo per la via più
diretta, evitando il passaggio, sempre problematico e
imponderabile delle elezioni (ma attenzione: sto semplificando assai in quanto
non tutti i protagonisti di tale parte, almeno a parole, osteggiano un
subitaneo ricorso alle urne); e, per contro, l’interesse di chi attualmente
governa a non ritenere plausibile, se del caso, che una successione a se stesso
(ma anche qui è noto come almeno una componente importante della coalizione
stimi invece più vantaggioso lucrare il supposto vantaggio che un’elezione
immediata darebbe ad essa, non importa, magari, se a scapito di altra
componente della medesima coalizione).
Confermando,
dunque, anche qui, come i due profili della formazione di un nuovo governo dopo
la crisi del precedente e la rigenerazione eventuale delle Camere mediante
nuove elezioni si alimentino a vicenda, andando a costituire un quadro
unitario, è possibile osservare come la, pur
schematica, analisi della prassi costituzionale post 1993, poc’anzi condotta,
abbia fornito elementi di grande importanza per il nostro ragionamento.
Se
mai, il punctum crucis è, più in
generale, quello del valore da riconoscere
alla prassi, non potendo che consentirsi sul fatto che il
giurista non «dovrebbe mai prescindere, nel corso delle sue analisi, dalla
dimensione precettiva delle disposizioni costituzionali e della loro essenza
normativa» dato che «l’innovazione
legislativa, la prassi, le vicende politiche e istituzionali devono essere sì
scandagliate, studiate, indagate, ma alla luce del dato costituzionale e non
viceversa»[26].
Ma, pur con tale cautela, non mi pare nemmeno che le
vicende descritte abbiano offerto elementi certi e concordanti per accreditare
clamorose deviazioni rispetto alla prassi anteriore al 1993 nella gestione
delle crisi. O meglio, qualche novità è piuttosto da individuarsi in un maggior
attivismo del Capo dello Stato sia sul versante del monitoraggio delle crisi[27],
sia sui tempi dello scioglimento, mentre si potrebbe concludere
che nessuno degli scioglimenti occorsi nel periodo considerato abbia obbedito,
anche marginalmente, alle suggestioni provenienti dal principio maggioritario[28].
Si
spiega, del resto, così, perché sul tema abbiano continuato a confrontarsi gli indirizzi dottrinali di cui si è dato conto con
riferimento al periodo anteriore al 1993. In questo senso, permane, infatti, ancora robusto il filone dottrinale che assume che lo
scioglimento sia «funzionalizzato ad assicurare la perpetuazione dei meccanismi
rappresentativi quando non vi sia altro modo di provvedervi», spettando dunque
al Capo dello Stato la responsabilità di «impegnarsi ad evitare l’estremo
rimedio della dissoluzione»[29].
Più in generale, resta saldo il favor per i principi della democrazia rappresentativa, dovendosi
«rifugge[re] – fin dove è possibile – alle suggestioni della democrazia
immediata capace di innestare procedimenti i quali non necessitano della
mediazione dei partiti politici»[30].
Se mai, è solo a livello propositivo, che è emersa
la posizione di chi, pur dando atto come non sia questa la lettura che possa
darsi attualmente della prassi, auspica, in presenza
di un sistema di regole istituzionali ed elettorali che rafforzi la posizione
del Premier, che «la controfirma [si
trasformi] nella sottoscrizione di un organo “proponente” (secondo la formula
equivoca dell’art. 89 della nostra Carta costituzionale)»: in tale ottica, «un
consolidamento del sistema maggioritario e la formazione di coalizioni omogenee
potrebbe portare, anche a Costituzione vigente, alla formazione di convenzioni costituzionali, di cui potrebbe
rendersi promotore lo stesso Capo dello Stato, volte ad aggiornare una diversa
lettura dell’art. 88 Cost.»[31].
Con maggior respiro teorico, poi, è stata formulata
l’ipotesi, per il caso che dovesse viepiù consolidarsi il carattere
sostanzialmente “diretto” dell’investitura all’ufficio del Presidente del
Consiglio, unitamente alla precostituzione della formula politica rispetto al
fatto elettorale, di una lettura maggiormente accreditata del combinato
disposto degli artt. 94 e 1 Cost., per cui sarebbe
possibile, ed anzi, doveroso già all’indomani dell’apertura di una crisi e per
effetto immediato e diretto di essa lo scioglimento delle Camere[32].
Non manca,
peraltro, chi sostiene che questa sorta di bing
bang del nuovo universo costituzionale sarebbe con certezza già avvenuto,
per cui l’introduzione del principio maggioritario da parte delle leggi
elettorali avrebbe ormai comportato sul piano dell’interpretazione
costituzionale un cambiamento rispetto alla fase della vigenza del principio
proporzionalistico allorché le disposizioni
costituzionali sulla formazione e la soluzione delle crisi di governo andavano,
invece, lette nella logica del principio di identità che demandava ai partiti
di fare e disfare maggioranze[33].
Tuttavia, anche se, rebus sic stantibus, parrebbe ingiustificato
accedere de plano a simili
impostazioni, non vorrei rinunciare ad esaminarle, tanto più in considerazione
del fatto che talune di esse sono state formulate in tempi non sospetti.
8. Segue. I mutamenti della legislazione elettorale
tra vaticini e inadeguatezze a determinare reali (e legittime) torsioni del
quadro costituzionale. – Si
tratterebbe, in sostanza, di verificare se, pur
restando immutato il quadro delle titolarità, possano essere ritenuti
plausibili innovazioni circa i presupposti idonei a legittimare lo scioglimento
parlamentare, in buona sostanza affievolendo il principio cardine per cui il
relativo provvedimento debba obbedire solo a ragioni di funzionalità ed essere,
quindi, attivato solo in via di extrema
ratio. Ciò che, dunque,
esonererebbe il Presidente della Repubblica dall’obbligo di ricercare in
Parlamento una qualsiasi maggioranza disposta a concedere la fiducia al Governo
prima di sciogliere le Camere.
Sul piano descrittivo della prassi, dunque,
particolarmente ad avviso di autorevoli osservatori[34],
non sarebbero, intanto, mancati qualificati orientamenti nel senso di ritenere
ammissibile, a seguito di una crisi di governo, la sola ricostituzione di governi gravitanti nella stessa maggioranza di partenza.
Ora, ho già anticipato quanto sia opinabile il tentativo di valorizzare l’unico
indizio, a mia conoscenza (quello che si ebbe in occasione della formazione del
Governo D’Alema I) allo scopo di estrapolarne un principio di carattere generale, laddove tutta la prassi precedente e successiva
pare andare in senso diverso.
Né
sembra potersi sopravvalutare più di tanto l’asserito deperimento della regola
consuetudinaria delle consultazioni presidenziali in vista della formazione del
nuovo Governo in esito ad una nuova tornata
elettorale. Ora, la delimitazione del campo della
possibili soluzioni in tale circostanza non non sembrerebbe idonea ad inficiare
la tesi dell'obbligo di natura consuetudinaria delle consultazioni, in quanto
un siffatto obbligo ha come contenuto indefettibile solo il fatto stesso della
consultazione delle forze parlamentari e non le sue modalità pratiche, come la
prassi ha sovente dimostrato. Mi pare, anzi, che una completa omissione delle
consultazioni non sarebbe auspicabile e probabilmente scorretta in quanto la formazione del governo non può essere concepita
in principio come un affare domestico della maggioranza uscita dallo scrutinio,
sibbene del Parlamento come istituzione democratico-rappresentativa, dove anche
le opposizioni godono di eguale dignità.
Per
altro verso, l'omissione della fase dell'incarico, che, peraltro non sembra
essersi fino a qui essersi realizzata in via assoluta, non pare possa
dimostrare nient'altro che le consultazioni si sono rivelate del tutto
sufficienti alla bisogna, laddove, se mai, erano i vecchi e dilatati riti
dell’incarico a incidere sulle prerogative presidenziali (è qui forse una cosa
può dirsi: che cioè, la ricomposizione delle relazioni tra i partiti secondi
uno schema fondamentalmente bipolare indotto dal sistema elettorale ha
contribuito a riportare al centro della scena il Capo dello Stato e a motivare
quel rinnovato attivismo dell’organo di cui s’è prima parlato).
Ma, a parte simili considerazioni, ciò che pare contestabile è che possa veramente essersi verificato
come dire? nella costituzione materiale? il radicamento di un principio tale da produrre un esito
omologabile a quanto esplicitamente disposto, per il livello regionale,
dall’art. 126 Cost. (ossia la famosa regola del simul …simul, da cui consegue, com’è noto, l’automatica
dissoluzione dell’assemblea eletta uno
actu con il Presidente della Regione). Restando, se mai, in ogni caso, da
domandarsi come mai un principio assiologicamente così forte abbia
potuto essere emarginato in tutta la fase corrispondente a quella
giornalisticamente denominata come “Prima Repubblica”.
Certo,
non potrebbe neanche trascurarsi come talune delle pur pregevoli proposte
ricostruttive qui considerate si siano originate sotto il vigore delle leggi
elettorali del 1993, per cui c’è da chiedersi se, a tutto concedere, esse siano
meccanicamente riproponibile con la legge elettorale del 2005, non foss’altro
perché quest’ultima legge in realtà riproporzionalizza il sistema, mentre
l’effetto maggioritario non è autentico, sibbene “artefatto” sino al limite
dell’incostituzionalità (si pensi qui al monito formulato dalla Corte
costituzionale in ordine alla mancanza di soglia per il conseguimento del
premio nelle sentt.
15 e 16 del
2008[35]).
Se,
quindi, come a me pare, non potrebbe ragionarsi di un reale principio
maggioritario, nemmeno se ne potrebbero dedurre con certezza le conseguenze che
pure ne sono state tratte.
Ad
analoghe conclusioni, si giungerebbe anche a voler ragionare più semplicemente
di un principio di cd. democrazia immediata, peraltro
ignorando quella diffidenza per le sue forme che tracima dal tessuto
costituzionale. Inoltre, tale principio sarebbe inficiato dalla circostanza
che, in realtà, non sussiste (peraltro del tutto correttamente) alcun obbligo
sanzionato per le componenti della coalizione di
restare assieme anche dopo la tornata elettorale[36].
In
ogni caso, resta il problema maggiore della liceità dell’estrapolazione di un principio valido ed efficace da una legge ordinaria su
cui gravano sospetti d’incostituzionalità e rischi d’inefficienza sistemica
come provano, rispettivamente, l’accennato intervento della Corte
costituzionale e la ricordata iniziativa del Capo dello Stato nel senso di
promuovere il mutamento della legge[37].
Ma,
per concludere sul punto, è abbastanza sorprendente
che non si rifletta su un motivo ostativo al riconoscimento del principio che a
me pare assolutamente dirimente. Si ricordi, infatti, come, dal corpo
elettorale, che le tesi qui vagliate prediligono richiamare, sia stata bocciata
nel giugno 2006 la riforma costituzionale destinata (si ponga mente, se non
altro, alla cronologia) a far sistema con la legge n. 270 del 2005, ed in cui si prevedeva che il Presidente della Repubblica
avrebbe dovuto nominare Primo Ministro il candidato a tale carica dalla maggioranza
uscita vittoriosa dalle elezioni, senza più la minima libertà di scelta
contemplata dall'art. 92 Cost., e che lo stesso Presidente della Repubblica
avrebbe potuto sciogliere la Camera dei deputati, oltre che in più obiettive
ipotesi, solo su richiesta del Primo Ministro[38].
L’impegno
connaturato a questo mio discorso esige, tuttavia, che non ci si arresti alla
constatazione dell’inidoneità sia della prassi attuale, sia del dato elettorale
a motivare la convinzione di mutamenti profondi occorsi al sistema.
Occorre,
infatti, anche riflettere se tali mutamenti potrebbero avvenire, in difetto di
un cambiamento formale delle regole costituzionali (che – non lo nego –
potrebbe per taluni versi ritenersi auspicabile, se diretto contemporaneamente
a potenziare la capacità operativa dell’esecutivo e gli strumenti di controllo
del legislativo) solo sulla base delle cd. regolarità
della politica (quali, tra l’altro, non avrebbero nemmeno avuto il tempo di
consolidarsi in un relativamente breve arco temporale e in una temperie
particolarmente scossa e confusa). Di esse, infatti, sarebbe necessario, in
ogni caso, accertare pregiudizialmente non solo la compatibilità
costituzionale, ma anche l’armonia con la complessiva trama costituzionale.
Il
fatto è che anche accedere alle tesi qui contrastate
si porterebbe appresso una serie di problemi non facili da risolvere a
Costituzione invariata[39].
Significativamente,
anche chi ha esortato a riflettere sulle possibili intervenute riconfigurazioni
del principio democratico, poi, del tutto esattamente, continua a far salvi gli
istituti tipici della forma di governo parlamentare quali precipuamente
l'investitura fiduciaria iniziale, laddove non del tutto persuasiva appare il
tentativo di riconfigurarne la funzione o meglio di dimidiarla, tenendola buona
per il solo programma[40],
visto che se è vero che sulla scheda elettorale non
c'è scritto, né forse potrebbe esserci scritto il programma, è anche innegabile
che un candidato premier si presenti
(ed eventualmente una coalizione sul suo nome si formi) non semplicemente per
attributi estrinseci o per il suo curriculum
pregresso, ma soprattutto per quanto egli promette di fare e/o di omettere
rispetto a ciò che l'avversario ometterebbe e /o farebbe se fosse lui il
vincitore.
Insomma,
accedere alla tesi dello scioglimento automatico ed
obbligatorio a Costituzione invariata significherebbe anche concludere che la
forma di governo parlamentare è divenuta una forma di governo di legislatura
senza che in realtà vi sia l’elezione diretta del Premier: risultato, questo, peraltro, non ineluttabile (si pensi
alle diverse maggioranze che possono prodursi tra Camera e Senato); che
l’attribuzione presidenziale dello scioglimento sarebbe da considerarsi un atto
dovuto, a dispetto di una procedura che fa intendere che non si sia in presenza
di automatismi (o, addirittura, un atto sostanzialmente governativo); che si
snaturerebbero le obbligatorie consultazioni dei Presidenti delle Camere ex art. 88 Cost.; Anche la previsione
del perdurante divieto di scioglimento nel semestre bianco se non coincidente
con la fine della legislatura perderebbe di senso; che, infine, muterebbe
significato la previsione del quinquennato: da garanzia sostanziale della
democrazia, frutto di una risalente tradizione del costituzionalismo
occidentale, a limite temporale massimo della durata in vita di un’assemblea e
del gabinetto che la dirige.
9. Conclusioni
(con qualche divagazione sull’extravagante idea dello scioglimento di una
Camera sola). – Ritornando, in conclusione, alla cronaca costituzionale ed alle possibili concrete movenze di una crisi di governo,
mi pare che quanto si è cercato di argomentare in precedenza conduca de plano a configurare come corretto uno
scenario nel quale il Capo dello Stato, riservandosi, come per prassi, di
accettare tali dimissioni, se offerte in esito ad una crisi extraparlamentare,
oppure non potendo evitare di accettarle se indotte dalla votazione di una
mozione di sfiducia, acceda, rispettivamente, alla parlamentarizzazione della
crisi, ove non ne sia aliunde
accertata l’esatta dimensione e le sue concrete motivazioni, o all’avvio di
consultazioni di tutte le forze politico-parlamentari al fine di verificare o
meno la sussistenza di una maggioranza di ricambio (che, anche se limitata nel
respiro politico, sia però almeno salda e determinata almeno nel predisporre le
risposte urgenti richieste dal piano internazionale e da quello interno, ivi
compresa la già da molto tempo auspicata riforma elettorale).
Tra
l’altro, l’eventuale parlamentarizzazione della crisi potrebbe, sia pure con un
certo ottimismo, condurre al suo riavvolgimento, mentre, quale che sia la
natura extraparlamentare o parlamentare della crisi, neanche un Governo Berlusconi
V potrebbe escludersi in seguito ad un comporsi dei conflitti o ad un ricomporsi delle alleanze.
Diversamente
non resterebbe al Capo dello Stato che procedere allo scioglimento, appunto,
quale extrema ratio per riavviare un
sistema dimostratosi completamente bloccato.
Al
proposito, un cenno merita, per essere stato riportato agli onori della
cronaca, l’eventualità dello scioglimento di una sola delle Camere
(precisamente quella sulla quale l’Esecutivo ritenga di non poter più fare
affidamento)[41].
In questo
senso, credo che due almeno sia le questioni che potrebbero venire in rilievo.
La prima attiene addirittura alla perdurante percorribilità di tale soluzione,
nonostante il chiaro disposto dell’art. 88, comma 1,
Cost., La seconda questione concernerebbe, nel caso di risposta positiva, i
presupposti formali e sostanziali che ancora legittimerebbero tale asimmetria
di trattamento tra i due rami del Parlamento.
Dico
subito che, pur sapendo di esprimere una posizione pressoché isolata ed avversata in passato da chi scrive (sia pure con
riferimento e sotto la suggestione della comune ispirazione proporzionalisti
dei sistemi elettorali allora vigenti[42]), di aver maturato la convinzione che l’operazione di
allineamento cronologico delle due Camere effettuata con la revisione di cui
alla legge costituzionale n. 2 del 1963 abbia implicato la caducazione
“implicita” (per nuova regolazione della materia, come indica l’art. 15 delle
cd. Preleggi[43]) della previsione della dissoluzione della singola Camera.
Tale previsione aveva, del resto, di mira, la possibilità di ovviare alle
divergenze di orientamento tra Camera e Senato che la sfalsatura temporale
nella loro durata avrebbe potuto comportare e la cui eliminazione ha reso
inoperante la previsione dell’art. 88 Cost. in
parte qua. Si noti al proposito come diversamente opinando, la camera
rieletta a seguito del suo solo scioglimento, partirebbe già quasi
inesorabilmente condannata a durare quanto il tempo residuo della camera
sopravissuta onde evitare il rischio (questa volta
molto più probabile) di una disparità grave di composizione e di vedute tra i
due rami del Parlamento, in implicita contraddizione con l’art. 61 della
Costituzione.
Poco
convincente, a questo punto, mi parrebbe, l’idea della sua sopravvivenza per
l’ipotesi che quelle divergenze fossero il portato di un contestualmente
diverso orientamento degli elettori in ragione delle (marginali) diversità dei
rispettivi corpi elettorali, ma ancor più delle logiche di reclutamento sottese
ai rispettivi sistemi elettorali. Infatti, in caso di effettivo insanabile
contrasto tra le Camere su questioni d’importanza sistemica (evidentemente non in ordine alla funzione legislativa, dato che questa ipotesi
è già messa in conto dal testo costituzionale, a meno che il dissidio non cada
su leggi particolarmente protette dalla Costituzione come, esemplarmente, la
legge di bilancio), come, appunto, il sostegno ad un Gabinetto, non mi parrebbe
così banale determinare quale delle due assemblee debba essere congedata
anticipatamente perché reputata, per così dire, “versare in errore”.
In
ogni caso, non parrebbe dubbio come la volontà di scioglimento vada sempre
attribuita al Presidente della Repubblica nella sua veste di garante: anche
quando, si volesse accedere alla possibilità di scioglimento della singola
Camera ed, anzi, a più forte ragione, non sembrando
sensato, per tutte le varie ragioni sopra esposte, lasciare al Governo, sia
pure in questa sola ipotesi, la volontà sostanziale dello scioglimento,
addivenendo ad uno scioglimento di combat
di ottocentesca memoria.
Consentitemi
un’estrema notazione suggerita dalla questione in esame. Se, si è d’accordo
sulla caratteristica paritaria del nostro bicameralismo che esige, per il suo
funzionamento, un fondamentale idem
sentire dei due rami del Parlamento, ne dovrebbe logicamente ed anzi di necessità conseguire che la legislazione
elettorale sia disegnata ut res magis valeat quam pereat: di qui la plateale inadeguatezza costituzionale
di una legislazione elettorale che non scongiura, ma addirittura sconta in
partenza il possibile contrasto nelle fisionomia politica delle due Camere. A
ciò saggiamente ha cercato di ovviare l’iniziativa di qualche Presidente della
Repubblica, quale supremo manutentore del sistema (e, da parte mia, si spera,
anche dell’attuale).
(19 novembre 2010)
* Relazione tenuta al Convegno su “Evoluzione
del sistema politico-istituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica” (Messina/Siracusa, 19 e 20 novembre 2010)
[1] Come non ricordare, per tutti, la suggestiva immagine di C. Mezzanotte (I rapporti tra Parlamento e altre istituzioni, in Associazione
italiana dei costituzionalisti, Annuario
2000. Il Parlamento, Padova,
2001, 297) del “subitaneo lampeggiare del potere costituente che, seppure per
un istante, aveva liberato la sua terribile forza”,
quasi una sua epifania nello svolgimento referendario?
[2] Esemplarmente, cfr. G. Pitruzzella, Il
Consiglio dei Ministri, in G. Branca e A. Pizzorusso
(curr.),
in Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1994, sub
artt. 92-93, 49.
[3] Cfr. S. Bartole,
Governo italiano, in Dig. disc. pubbl., VIII,
1995, 642.
[4] Cfr. P.A. Capotosti,
Governo, in Enc. Giur. Treccani,
XV, 1989, 4 e s.
[5] Ciò che non pare contraddetto, ed anzi, avvalorato, dal significato di accettazione comunemente
ormai attribuito alla controfirma del Presidente del Consiglio entrante (cfr.
L. Paladin, Diritto
costituzionale, Padova, 1998, 479).
[6] In proposito, cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari. II. Studio sui presupposti e i limiti dello scioglimento nell’ordinamento
repubblicano italiano, Milano, 1988, 93 ss.
[7] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 132.
[8] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 153.
[9] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 141 ss.
[10] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 282.
[11] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 130 e 175.
[12] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 172.
[13] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 178. Una ricognizione
teorico-generale delle motivazioni dello scioglimento parlamentare sul piano
storico e comparato, può eventualmente rinvenirsi in
P. Costanzo, Lo scioglimento delle
assemblee parlamentari, I. Teoria e
pratica dello scioglimento dalle origini al parlamentarismo razionalizzato, Milano,
1984.
[14] Come si evidenzia dalla seguente
tabella:
legislatura |
cessazione |
tipologia scioglimento[14] |
I legislatura 1948-1953 |
scioglimento anticipato (solo Senato) |
scioglimento “tecnico” (per uniformare la durata delle Camere) |
II legislatura 1953-1958 |
scioglimento anticipato (solo Senato) |
scioglimento “tecnico” (per uniformare la durata delle Camere) |
III legislatura 1958-1963 |
scioglimento anticipato (solo Senato) |
scioglimento “tecnico” (per adeguare la durata delle Camere
alla revisione costituzionale dell’art. 60) |
IV legislatura 1963-1968 |
decorso fisiologico |
|
V legislatura 1968-1972 |
scioglimento anticipato |
scioglimento funzionale (incombeva anche il referendum sul divorzio |
VI legislatura 1972-1976 |
scioglimento anticipato |
scioglimento funzionale (incombeva anche il referendum sull’aborto) |
VII legislatura 1976-1979 |
scioglimento anticipato |
scioglimento funzionale (fine dei c.d. governi di solidarietà
nazionale) |
VIII legislatura 1979-1983 |
scioglimento anticipato |
scioglimento funzionale (instabilità politica tra i principali
partiti della coalizione di governo) |
IX legislatura 1983-1987 |
scioglimento anticipato |
scioglimento funzionale (incombevano anche i referendum su nucleare e giustizia) |
X legislatura 1987-1992 |
scioglimento anticipato |
scioglimento “tecnico” (per evitare il c.d. ingorgo
istituzionale con l’elezione del Capo dello Stato) |
[15] Per una cronaca delle dimissioni del
Governo Amato, delle dimissioni del Governo Ciampi e dello scioglimento del
1994, cfr. C. De Fiores, La travagliata fine
dell’XI legislatura, in Giur. cost., 1994, 1479 s.
[16] Per una cronaca
delle dimissioni del Governo Berlusconi, delle dimissioni del Governo Dini, del
“tentativo” Maccanico e dello scioglimento del 1996, cfr. R. Viriglio L’esercizio del potere di scioglimento del
Parlamento negli anni 1994-
[17] Per una cronaca della crisi
(rientrata) dell’ottobre 1997, cfr. M. Olivetti,
Le dimissioni
rientrate del Governo Prodi, in Giur. cost., 1997,
3141 s.
[18] Così, sia pure implicitamente, G.
Marino, La crisi del Governo Prodi
tra Seconda e Terza Repubblica, in https://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/nuovi%20pdf/Paper/0017_marino.pdf.
[19] Per una cronaca delle
dimissioni del Governo Prodi e della nascita del Governo D’Alema, cfr. R. Viriglio, L’esercizio del potere di scioglimento del Parlamento negli anni 1994-1999, cit.,
283 ss.
[20] Non può, peraltro, sottacersi come
la XIII legislatura abbia assistito a notevoli
iniziative di aggiornamento delle regole parlamentari, in particolare alla
Camera (al Senato, il regolamento viene modificato
solo relativamente ad alcuni aspetti come la riserva di tempi per argomenti
introdotti da gruppi di opposizione), rispetto alla quale il punto di partenza
delle riforme è costituito dagli indirizzi adottati dalla Giunta per il
Regolamento il 4 luglio 1996, relativamente all’eliminazione e modifica di
istituti ormai superati da prassi consolidate, la definizione di uno statuto
dell’opposizione, la questione dei c.d. procedimenti speciali , il problema
della programmazione dei lavori, della disciplina degli emendamenti e delle
varie fasi del procedimento legislativo, lo status
del parlamentare (in particolare relativamente alla insindacabilità e alla
verifica dei poteri), i problemi connessi al numero legale e alla posizione
delle minoranze linguistiche. La soluzione prospettata di queste problematiche
mira a conseguire maggiore efficienza nella decisione parlamentare e a garantire
al Governo strumenti più incisivi per consentire alla propria maggioranza
parlamentare di decidere: tra il settembre e il novembre del 1997, la Camera
dei Deputati approva, dunque, una serie di importanti
riforme al proprio Regolamento (c.d. “pacchetto Violante”), cui si sono
aggiunte le ulteriori novelle del 1998 e del 1999. Si vedano, tra i diversi
contributi, F. Lanchester, Introduzione a La riforma del Regolamento della Camera dei
Deputati in S. Panunzio (cur.), I costituzionalisti e le riforme, Milano, 1998. 242 s., N. Lupo,
Le recenti modifiche del Regolamento
della Camera: una riforma del procedimento legislativo “a Costituzione
invariata”, in Gazz. giur.,
1997, 1 ss., A. Morrone, Quale modello di
governo nella riforma del Regolamento della Camera dei Deputati, in Quad.
cost., 1998, 449 ss., S. Ceccanti, Regolamenti
parlamentari: un altro tassello di una riforma strisciante, ivi, 157
e 165, nonché la Tavola Rotonda
“Prospettive ed evoluzioni dei regolamenti parlamentari” in Associazione per gli studi e le ricerche
parlamentari, Quaderno n. 9, Torino, 1999, con interventi di P. Caretti, F.
Posteraro e A. Palanza.
[21] Per una cronaca dello scioglimento
del 2006 e sulle problematiche giuridiche ad esso
connesse, cfr. C. De Fiores, Sulla natura polivalente del potere di
scioglimento delle Camere, in Riv. dir. cost., 2007, 170 ss.
[22] Per una cronaca sulla crisi
(rientrata) del febbraio 2007, cfr. G. Marino,
La crisi del Governo Prodi tra
Seconda e Terza Repubblica, cit., e M. Belletti, Continuità e discontinuità nella prassi statutaria sullo scioglimento delle Assemblee parlamentari e riflessi sulla prassi
repubblicana, in Ann. dir. cost., 2008,
101 ss.
[23] V. le Dichiarazioni del Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano del 24 febbraio
2007 (https://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=944)
[24] Per una cronaca delle dimissioni del
Governo Prodi, del “tentativo” Marini e dello scioglimento cfr. M. Timiani, Taccuino della crisi del II Governo prodi e della fine anticipata della XV legislatura, in https://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/temi_attualita/speciale_elezioni_2006/0006_timiani.pdf,
e P.L. Petrillo,
L’ultimo tentativo: il Presidente
Napolitano e il potere di scioglimento delle Camere, in Rass. parl., 2008, 427 s.
[25] Il riferimento è all’incontro del 16
novembre 2010 al Quirinale tra il Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano e i Presidenti di Senato e Camera, Renato Schifani e Gianfranco
Fini, durante il quale sono state, per così dire, calendarizzate
(si noti sotto la supervisione del Capo dello Stato) le scansioni temporali
della crisi.
[26] Cfr. De Fiores,
Sulla natura polivalente del potere di
scioglimento delle Camere, in Riv. dir. cost., 2007, 136
s.
[27] Può risultare, comunque, utile lo schema
seguente:
XI legislatura (1992-1994) |
tipologia crisi |
P. R. |
Governo Amato I (1992-1993) |
crisi extraparl. |
Scalfaro (1992-1999) |
Governo Ciampi (1993-1994) |
crisi extraparl. |
|
XII legislatura (1994-1996) |
|
|
Governo Berlusconi I (1994) |
crisi extraparl. |
|
Governo Dini (1995) |
crisi extraparl. con rinvio del Governo alle Camere |
|
“Tentativo” Maccanico (1996) |
|
|
XIII legislatura (1996-2001) |
|
|
Governo Prodi I (1996-1998) Prima crisi: dimissioni ottobre 1997 Seconda crisi: sfiducia ottobre 1998 |
crisi parlamentare rigetto questione di fiducia |
|
Governo D’Alema I (1998-1999) |
crisi extraparl. |
|
Governo D’Alema II
(1999-2000) |
crisi extraparl. con rinvio Governo alle Camere |
|
Governo Amato II
(2000-2001) |
conclusione legisl. |
Ciampi (1999-2006) |
XIV legislatura (2001-2006) |
|
|
Governo Berlusconi II
(2001-2005) |
crisi extraparl. |
|
Governo Berlusconi III
(2005-2006) |
conclusione legisl |
|
XV legislatura (2006-2008) |
|
Napolitano (2006-….) |
Governo Prodi II
(2006-2008) Prima crisi: dimissioni febbraio 2007 Seconda crisi: sfiducia febbraio 2008 |
crisi parlamentare rigetto questione di fiducia |
|
“Tentativo” Marini |
|
[28] Si consideri riassuntivamente
lo schema seguente:
decreto di scioglimento |
tipologia |
P.R. |
XI legislatura (1992-1994) - Elezioni: 5 aprile 1992 - |
||
d.p.r 16 gennaio 1994, n. 27 |
Scioglimento funzionale, formalmente motivato dal Presidente
della Repubblica (cfr. lettera 16 gennaio 1994) in ragione di: a)
referendum elettorale con il quale gli elettori hanno dimostrato di
“volere non solo altre regole, ma anche un nuovo Parlamento”; b) risultato elezioni
amministrative e “divario molto sensibile tra le forze rappresentate
oggi in parlamento e la reiterata volontà popolare”; c) “varie patologie manifestatesi nella gestione
della cosa pubblica” |
Scalfaro (1992-1999) |
XII legislatura (1994-1996) - Elezioni: 27 marzo 1994 |
||
d.p.r 16 febbraio 1996, n. 63 |
scioglimento funzionale (per impossibilità di aggregare una
maggioranza dopo il fallimento del “tentativo” Maccanico) |
|
XIII legislatura (1996-2001) - Elezioni: 21 aprile 1996 |
||
d.p.r. 8 marzo 2001, n. 42 |
scioglimento “tecnico” (per evitare lo scioglimento delle
elezioni in estate) |
Ciampi (1999- 2006) |
XIV legislatura (2001-2006) - Elezioni: 13 maggio 2006 |
||
d.p.r. 11 febbraio 2006, n. 32 |
scioglimento “tecnico” (per evitare il c.d. ingorgo istituzionale
con l’elezione del Capo dello Stato) |
|
XV legislatura (2006-2008) - Elezioni: 8 aprile 2006 |
||
d.p.r. 6 febbraio 2008, n. 19 |
scioglimento funzionale (per impossibilità di aggregare una
maggioranza dopo il fallimento del “tentativo” Marini) |
Napolitano (2006-...) |
[29] Cfr. S. Bartole, Scioglimento delle Camere, in Enc. dir., Vol. 3 Agg., 1999, 940. Se mai,
sarebbe vero che «il mutamento del sistema elettorale incida sul sistema
costituzionale, o meglio, sul suo
funzionamento [nel senso che] la situazione determinata dall’introduzione
di un nuovo sistema elettorale può rendere
impossibile di fatto ogni soluzione
diversa dallo scioglimento (cfr. L. Carlassare, Presidente della Repubblica, crisi di
Governo e scioglimento delle Camere, in M. Luciani e M.
Volpi (curr.), Il Presidente
della Repubblica, Bologna, 1997, 140). In definitiva in
seguito all’avvento del maggioritario “la ‘banda di oscillazione’ nella quale
entra in questi casi il ruolo politico del Presidente della Repubblica si è per
così dire assestata e il numero delle possibili scelte a sua
disposizione ridotto, a causa di una forte capacità di indirizzo
esplicitata direttamente dalle forze politiche di maggioranza, non dal sistema
dei partiti in genere”.
[30] Cfr. S. Bartole, op. et loc. ult.
cit., nonché A. Di Giovine, Dieci anni di presidenza della Repubblica, in M. Luciani
e M. Volpi (curr.), Il Presidente della Repubblica, cit., 59.
[31] Cfr. A. Barbera, Tendenze nello scioglimento
delle Assemblee parlamentari, in Associazione
per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 7, Torino, 1997 (ora
in Premierato nei governi parlamentari, a
cura di T.E. Frosini, 2004, 39 s.)
[32] Cfr. A. Ruggeri, Evoluzione del sistema
politico-istituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica, in https://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0237_ruggeri.pdf
[33] Cfr. S. Mangiameli, Il recupero dell’evoluzione della forma di governo parlamentare in Italia:
considerazioni pratiche per affrontare l, tema della stabilità, in L.
Ventura (cur.), Le crisi di
governo nell’ordinamento e nell’esperienza costituzionale, Torino, 2001,
211 ss. Su posizioni che prendono le mosse dalla supposta riconfigurazione della
natura delle coalizioni elettorali, si collocano poi T.E. Frosini e P.L. Petillo, Verso una
interpretazione maggioritaria del potere di scioglimento della Camere, in Dir. soc., 2005, 148, secondo i
quali l’obiettivo (del Presidente della Repubblica) non sarebbe più di far
durare le Camere (in presenza di qualsiasi maggioranza), ma far durare un
preciso governo (ossia quello uscito dalle elezioni). Analogamente
e in senso critico sulla prassi contraria, cfr. C. Fusaro,
Il Presidente della Repubblica nel sistema bipolare:
spunti dalla prassi più recente, in Ann. dir. cost., 2008,
25 s.
[34] Cfr. A. Ruggeri, Le crisi di governo tra “regole”
costituzionali e “regolarità” della politica, in L. Ventura (cur.), Le crisi di governo nell’ordinamento e
nell’esperienza costituzionale, cit., 60 ss.; Id., Evoluzione del sistema politico-istituzionale e ruolo del Presidente
della Repubblica, cit.
[35] In Giur. cost,. 2008,
rispettivamente, 164 (con nota di G. Tarli Barbieri) e 202.
[36] Per non parlare del fatto che non
pare che la scelta dell’elettore sia in maniera assoluta perspicuamente orientata verso una
qualche coalizione, che, sulla scheda elettorale, non è dato di percepire in
base ad uno specifico contrassegno, e la cui esistenza è rimessa alla previa
informazione del votante: certo il votante potrebbe anche inferirla dal comune
allineamento, sulla medesima riga orizzontale, delle liste alleate, ma non
tutti i simboli consentono necessariamente di comprenderne la comune
convergenza delle liste verso un unico leader.
[37] Oltre a quanto detto per il premio
di maggioranza, hanno, com’è noto, sollevato serie perplessità la
differenziazione tra soglie di sbarramento, la mancata attribuzione
all’elettore di un qualche potere di scelta (anche al fine di far valere il
principio di responsabilità politica), il meccanismo (che rende imprevedibile
persino il risultato della blindatura delle liste) delle candidature multiple, nonché la mancata implementazione del principio
costituzionale pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche
elettive.
[38] Cfr. P. Caretti,
La forma di governo in https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/convegni/20050516_roma/caretti.html
[39] Se, infatti, tutto va a collocarsi
nell’ambito di un principio inespresso, e non nel solco di salde ed esplicite
regole, chi può dire dove la capacità pervasiva di
quel principio è giusto che si arresti? Si pensi, per fare un esempio al limite
del paradosso, all’eventuale inattuazione del
programma su cui le forze politiche elettoralmente vittoriose hanno giocato la
loro credibilità ed ottenuto la fiducia
“maggioritaria” degli elettori: potrebbe, anche in tal caso, il Presidente
della Repubblica trarne spunto per provvedimenti dissolutori? Ma se tale
ipotesi appare, com’è giusto insensata, in quanto
sarebbe impossibile pensare al programma in maniera statica e non invece a
qualcosa di continuamente sollecitato da avvenimenti imprevisti e
imprevedibili, non si capisce perché dovrebbe a priori essere esclusa l’ipotesi di un cambiamento anche della
compagine governativa qualora un’altra (maggioranze parlamentari permettendo)
se ne prospetti verosimilmente più capace e meglio intenzionata a far fronte ai
problemi. Del resto, è appunto questo il ruolo delle Camere in una forma di
governo come la nostra, ossia quello di continuo rigeneratore della legittimità
dei Governi, dei programmi e degli uomini.
[40] A. Ruggeri, Evoluzione del sistema politico-istituzionale e ruolo del Presidente
della Repubblica, cit.
[41] “Senza una maggioranza alla Camera
dei deputati si andrà a votare per la stessa Camera”: questo
annuncio è stato dato dallo stesso Presidente del Consiglio, intervenuto al
telefono alla manifestazione della propria formazione politica di sostegno al
governo, svoltasi a Milano al Teatro Nuovo il 14 novembre 2010.
[42] Cfr. P. Costanzo, Lo scioglimento delle assemblee
parlamentari, II, cit., 251. Comunque, per la
tesi sostenuta nel testo, cfr., esemplarmente, F. Pinto,
Scioglimento anticipato delle Camere e
poteri del Presidente della Repubblica, in Pol. dir. 1980. 249 s.
[43] E quindi non di tipo tacito che
potrebbe ritenersi sconsigliabile in un testo costituzionale, se non altro a motivo del valore della rigidità.