Sentenza n. 279 del 2019

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SENTENZA N. 279

ANNO 2019

Commento alla decisione di

Guglielmo Leo

Dalla Consulta un preciso monito per il legislatore: rendere effettivo ed efficiente il sistema di esecuzione delle pene pecuniarie

per g.c. di Sistema Penale

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Aldo CAROSI;

Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», introdotto dall’art. 1, comma 473, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Avellino nel procedimento di sorveglianza nei confronti di M. P., con ordinanza del 7 novembre 2018, iscritta al n. 35 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 7 novembre 2018, il Magistrato di sorveglianza di Avellino ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», introdotto dall’art. 1, comma 473, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella parte in cui, ai fini della attivazione della procedura di conversione delle pene pecuniarie dinanzi al magistrato di sorveglianza, parifica all’ipotesi della comunicazione di esperimento infruttuoso della procedura esecutiva l’ipotesi di mancato esperimento della procedura esecutiva decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione.

1.1.– Il giudice rimettente premette di essere stato investito della richiesta con cui il Pubblico ministero presso il Tribunale ordinario di Torre Annunziata ha trasmesso, ai sensi dell’art. 660, comma 2, del codice di procedura penale, gli atti per la conversione di una pena pecuniaria di 150 euro di multa, inflitta a M. P. con sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Castellammare di Stabia, del 22 giugno 2010.

Rileva il rimettente che in allegato alla richiesta di conversione sono stati trasmessi soltanto il titolo esecutivo e un prospetto dal quale appare iscritta nell’anno 2011 una partita di credito nei confronti di M. P., non risultando tuttavia posta in essere alcuna procedura esecutiva nei confronti del condannato, al quale la cartella di pagamento risulta notificata in data 26 gennaio 2013 «in condizioni di “irreperibilità relativa”».

Osserva il giudice a quo che, per effetto della norma censurata, il mancato esperimento di attività esecutiva da parte dell’agente di riscossione costituirebbe presupposto sufficiente perché il pubblico ministero investa degli atti il magistrato di sorveglianza competente alla conversione ai sensi dell’art. 660 cod. proc. pen.

1.2.– Il rimettente, tuttavia, dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione sotto plurimi profili.

1.2.1.– Essa violerebbe anzitutto l’art. 3 Cost., in quanto, parificando il mero decorso di ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione all’esperimento infruttuoso della procedura esecutiva, determinerebbe l’instaurazione automatica della procedura di conversione anche nei confronti di condannati potenzialmente solvibili, ma che potrebbero essere rimasti del tutto ignari della procedura esecutiva in corso, dal momento che la previa notificazione della cartella di pagamento potrebbe essere stata effettuata ai sensi degli artt. 140 e 143 del codice di procedura civile, e dunque senza che risulti la prova della loro effettiva conoscenza della stessa. Essi sarebbero così esposti al rischio di subire una compressione della libertà personale per effetto della conversione della pena pecuniaria inflitta nei loro confronti in conseguenza della mera inerzia dell’agente della riscossione, risultando così la loro situazione irragionevolmente equiparata a quella di coloro che, avendo subito l’infruttuoso esperimento di atti di esecuzione forzata nei propri confronti, siano consapevoli della procedura in corso.

1.2.2.– La disposizione censurata violerebbe, inoltre, l’art. 24, secondo comma, Cost. – interpretato anche alla luce degli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – dando avvio ad un procedimento per chi sia stato condannato a una mera pena pecuniaria, finalizzato all’adozione di un provvedimento limitativo della sua libertà personale, senza che egli abbia avuto la possibilità di averne notizia e di esporre le proprie ragioni prima che venga adottato un provvedimento che gli rechi pregiudizio.

1.2.3.– Da ultimo, sarebbe violato anche l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata, al fine di evitare l’estinzione della pena pecuniaria per prescrizione, legittimerebbe l’instaurazione di una «procedura pregiudizievole per il reo che potrebbe sfociare nell’adozione di un provvedimento avente ad oggetto una pena non proporzionata alla gravità del reato e inidonea a far sì che il reo impari a vivere nel rispetto delle regole di civiltà».

1.3.– Le questioni prospettate sarebbero altresì rilevanti, dal momento che dalla loro definizione dipenderebbe la possibilità di procedere o meno alla conversione della pena pecuniaria oggetto del giudizio a quo.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano rigettate in quanto infondate.

2.1.– Quanto alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., l’interveniente sostiene l’erroneità delle premesse interpretative dalle quali muove il rimettente, le quali trascurerebbero altre disposizioni in materia di riscossione di pene pecuniarie non pagate.

In particolare, l’art. 235 del d.P.R. n. 115 del 2002 prevederebbe l’annullamento del credito in caso di irreperibilità del condannato (segnatamente, qualora la notifica dell’invito al pagamento riferito alle spese e alle pene pecuniarie si ha per eseguita ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ.) e la possibilità di una nuova iscrizione a ruolo da parte dell’ufficio solo se il debitore risulti reperibile.

Dal combinato disposto di tali disposizioni dovrebbe ricavarsi che l’agente della riscossione non può attivare la procedura esecutiva per il recupero della pena pecuniaria in caso di irreperibilità cosiddetta assoluta del condannato, ossia nell’ipotesi di notifica a persona di residenza, dimora o domicilio sconosciuti ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ.

In senso analogo si sarebbe espressa – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – anche la Corte di cassazione a sezioni unite, che ha affermato che la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva postula il necessario accertamento della insolvibilità del condannato, chiarendo che tale accertamento non può essere svolto nei confronti di quei soggetti per i quali, proprio a cagione della loro irreperibilità, non è possibile conoscere quali siano le effettive e attuali (eventualmente anche sopravvenute) possibilità economiche (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 ottobre 1995-17 gennaio 1996, n. 35).

Di contro, la disposizione censurata potrebbe trovare applicazione nel caso di irreperibilità relativa (quale quello verificatosi nel giudizio a quo), ossia nei casi di cui all’art. 140 cod. proc. civ. e, dunque, di notifica a persona di residenza, dimora o domicilio conosciuti, ma non andata a buon fine.

Rispetto a chi sia stato destinatario di una tale notificazione, l’ordinamento stabilirebbe una «presunzione legale di conoscenza che deriva dall’avvenuta notifica dell’invito presso la residenza del debitore o il suo domicilio conosciuti – e, dunque, presso un luogo che ha un collegamento effettivo con il destinatario – e dalle successive formalità ivi previste».

2.2.– Parimenti sarebbe insussistente la violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.

L’esercizio del diritto di difesa, infatti, non sarebbe qui precluso, bensì solo differito, in quanto avverso l’ordinanza del magistrato di sorveglianza l’interessato può proporre opposizione davanti al medesimo giudice, la cui decisione è ricorribile per cassazione, essendo altresì previsto che il ricorso avverso l’ordinanza di conversione ne sospenda l’esecuzione.

2.3.– Infondata sarebbe infine la censura relativa all’art. 27, terzo comma, Cost., la quale porrebbe in realtà in discussione la legittimità dell’istituto della conversione delle pene pecuniarie, che sarebbe invece stata riconosciuta a più riprese da questa Corte.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Magistrato di sorveglianza di Avellino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», introdotto dall’art. 1, comma 473, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella parte in cui, ai fini dell’attivazione della procedura di conversione delle pene pecuniarie dinanzi al magistrato di sorveglianza, parifica all’ipotesi della comunicazione di esperimento infruttuoso della procedura esecutiva l’ipotesi di mancato esperimento della procedura esecutiva decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione.

2.– Ai fini della valutazione dell’ammissibilità e della fondatezza delle questioni prospettate, è opportuna una sintetica ricapitolazione dell’evoluzione del quadro normativo che fa da sfondo alle questioni medesime.

2.1.– All’esecuzione delle pene pecuniarie il codice di procedura penale del 1988 dedicava un sottosistema costituito dall’art. 660, che tuttora disciplina i presupposti per la rateizzazione o la conversione delle pene pecuniarie rimaste insolute, e dagli artt. 181 e 182 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, relativi ai profili esecutivi del «recupero della pena pecuniaria».

Tali previsioni furono tuttavia abrogate dall’art. 299 del d.P.R. n. 115 del 2002, che pose in essere un radicale intervento di riforma della materia, dettando una disciplina organica in tema di riscossione delle somme dovute allo Stato, tra l’altro, a titolo di pena pecuniaria, e attribuendo la competenza del procedimento relativo alla conversione delle pene pecuniarie al giudice dell’esecuzione anziché al magistrato di sorveglianza.

Questa Corte, con sentenza n. 212 del 2003, ha tuttavia dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, dell’art. 299 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia (Testo B)», confluito, come art. 299, nel d.P.R. n. 115 del 2002, relativo al procedimento di esazione delle pene, nella parte in cui abrogava l’art. 660 cod. proc. pen.

In conseguenza di tale pronuncia, la disciplina del procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie risulta oggi da un complesso quadro normativo composto: dalle previsioni del d.P.R. n. 115 del 2002 non incise dalla declaratoria di illegittimità costituzionale, relative agli adempimenti amministrativi volti alla riscossione della pena pecuniaria; dall’art. 136 del codice penale, che prevede la conversione a norma di legge delle pene della multa e dell’ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato; dall’art. 660 cod. proc. pen., riportato in vigore dalla citata sentenza n. 212 del 2003, che disciplina i presupposti per la conversione o la rateizzazione della pena pecuniaria; dall’art. 678, comma 1-bis, cod. proc. pen., che (ri)attribuisce la competenza in materia al magistrato di sorveglianza; e, infine, dagli artt. 102 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che disciplinano le sanzioni di conversione e le loro modalità di esecuzione.

2.2. – Per effetto del combinarsi di tali norme, le scansioni del procedimento di esecuzione della pena pecuniaria sono alquanto macchinose, e vedono l’intervento di quattro distinti soggetti: la cancelleria del giudice dell’esecuzione, l’agente della riscossione, il pubblico ministero e il magistrato di sorveglianza.

Più in particolare, tale procedimento è articolato in due fasi. In una prima fase, meramente amministrativa, i soggetti preposti alla riscossione sono, da un lato, la cancelleria del giudice dell’esecuzione, quale «ufficio incaricato della gestione delle attività connesse alla riscossione […] per il processo penale» ai sensi dell’art. 208, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 115 del 2002, e, dall’altro, l’agente della riscossione. La seconda fase, eventuale, coinvolge il pubblico ministero e il magistrato di sorveglianza, ed è funzionale – alternativamente – alla rateizzazione della pena pecuniaria non eseguita, ovvero alla conversione della stessa per insolvibilità del condannato.

2.2.1.– L’art. 212 del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che, passato in giudicato o divenuto comunque definitivo il provvedimento da cui sorge l’obbligo, la cancelleria del giudice dell’esecuzione notifica al condannato, nelle forme del rito civile – e dunque, ai sensi degli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile – un invito al pagamento con allegato il modello di pagamento, avvertendolo che, in caso di mancato adempimento nel termine di un mese dalla notifica dell’avviso, si procederà all’iscrizione a ruolo. Il condannato è, altresì, invitato a depositare la ricevuta di versamento entro dieci giorni dall’avvenuto pagamento.

Decorso inutilmente il termine concessogli, la cancelleria provvede all’iscrizione a ruolo, ai sensi dell’art. 213 del d.P.R. n. 115 del 2002, e all’attivazione dell’agente della riscossione.

Quest’ultimo notifica quindi al condannato una cartella di pagamento che contiene l’intimazione ad adempiere nel termine di sessanta giorni, con l’avviso che, in caso contrario, verrà dato corso all’esecuzione forzata (art. 227-ter del d.P.R. n. 115 del 2002).

2.2.2.– Una volta esperite, senza successo, le attività previste dal d.P.R. n. 115 del 2002, la cancelleria del giudice dell’esecuzione investe il pubblico ministero, il quale trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza (art. 678, comma 1-bis, cod. proc. pen.), affinché provveda in ordine alla conversione.

In particolare, il magistrato di sorveglianza deve stabilire se il condannato versi in una situazione di mera insolvenza ovvero di insolvibilità: a seconda dell’uno o dell’altro caso, sono, infatti, diversi gli esiti decisori.

L’insolvenza consiste in una contingente e transitoria impossibilità giuridica di porre in essere validi atti di pagamento della sanzione pecuniaria. L’insolvibilità è, invece, l’incapacità economica del condannato di far fronte al pagamento per carenza di beni (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 16 maggio-13 giugno 2014, n. 25355; Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 giugno-15 luglio 2005, n. 26358).

In presenza di situazioni di mera insolvenza il magistrato può, alternativamente, disporre la rateizzazione della pena pecuniaria ai sensi dell’art. 133-ter cod. pen., purché non sia stata già prevista dalla sentenza di condanna; ovvero differire la conversione della pena per un periodo massimo di sei mesi, al cui spirare – se lo stato d’insolvenza perdura – dovrà disporre un nuovo differimento, e in caso contrario ordinare la conversione (art. 660, comma 3, cod. proc. pen.).

Se, invece, risulta accertata «la impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa», e dunque una situazione di insolvibilità del condannato e, se ne è il caso, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria, il magistrato di sorveglianza dispone a carico del condannato la conversione della pena pecuniaria giusta il disposto degli artt. 102 e seguenti della legge n. 689 del 1981 (art. 660, comma 2, cod. proc. pen.).

2.3.– In questo complesso contesto normativo è intervenuto l’art. 1, comma 473, della legge n. 205 del 2017, che ha introdotto l’art. 238-bis nel d.P.R. n. 115 del 2002, al fine di rendere più efficace, e comunque di accelerare, il procedimento di conversione della pena pecuniaria, onde evitare che essa sia vanificata dalla prescrizione (di regola decennale per la multa e quinquennale per l’ammenda, ai sensi rispettivamente degli artt. 172 e 173 cod. pen.), in caso di inerzia dell’agente della riscossione.

Il comma 1 dell’art. 238-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che, entro la fine di ogni mese, l’agente della riscossione trasmetta alla cancelleria del giudice dell’esecuzione «le informazioni relative […] all’andamento delle riscossioni delle pene pecuniarie effettuate nel mese precedente».

Il comma 2 dispone che la cancelleria del giudice dell’esecuzione «investe il pubblico ministero perché attivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente, entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione da parte dell’agente della riscossione, relativa all’infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni».

Il comma 3, in questa sede censurato, stabilisce che «[a]i medesimi fini di cui al comma 2, l’ufficio investe, altresì, il pubblico ministero se, decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione e in mancanza della comunicazione di cui al comma 2, non risulti esperita alcuna attività esecutiva ovvero se gli esiti di quella esperita siano indicativi dell’impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa».

Il comma 4 prevede che, nei casi disciplinati dai due commi precedenti, siano trasmessi al pubblico ministero tutti i dati acquisiti che siano rilevanti ai fini dell’accertamento dell’impossibilità di esazione.

Infine, il comma 6 – riprendendo la formulazione dell’abrogato art. 182 norme att. cod. proc. pen. – prevede che «[i]l magistrato di sorveglianza, al fine di accertare l’effettiva insolvibilità del debitore, può disporre le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si abbia ragione di ritenere che lo stesso possieda altri beni o cespiti di reddito e richiede, se necessario, informazioni agli organi finanziari».

3. – Tanto premesso, va preliminarmente vagliata l’ammissibilità delle questioni di legittimità in questa sede prospettate dal Magistrato di sorveglianza di Avellino.

Pur in assenza di eccezioni sul punto da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, occorre in particolare verificare se tali questioni siano rilevanti nel giudizio a quo. Il dubbio in proposito ha ragion d’essere, in quanto la disposizione censurata – il comma 3 dell’art. 238-bis del d.P.R. n. 115 del 2002, il cui contenuto si è appena riferito – disciplina l’attività dell’«ufficio» (e cioè della cancelleria del giudice dell’esecuzione) in rapporto con il pubblico ministero, e non già l’attività del magistrato di sorveglianza. Tale attività è, invece, regolata – per ciò che attiene specificamente al procedimento di conversione della pena pecuniaria – dai commi 6 e 7 dello stesso art. 238-bis, nonché dall’art. 660 cod. proc. pen.

Va tuttavia considerato che il magistrato di sorveglianza rimettente non sarebbe stato adito dal pubblico ministero, ove quest’ultimo non fosse a sua volta stato investito dalla cancelleria del giudice dell’esecuzione proprio in forza della disposizione censurata. Ciò basta ad assicurare la rilevanza delle questioni aventi ad oggetto tale disposizione, la quale non potrebbe altrimenti essere sottoposta allo scrutinio di questa Corte, dal momento che l’«ufficio» rappresentato dalla cancelleria del giudice dell’esecuzione – la cui attività è direttamente disciplinata dalla disposizione medesima – non potrebbe esso stesso sollevare questione di legittimità costituzionale difettando della qualità di «autorità giurisdizionale» ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale); con conseguente scivolamento della disposizione ora censurata in una “zona franca” dal controllo di costituzionalità, che la giurisprudenza di questa Corte mira costantemente a evitare (da ultimo, sentenze n. 242 del 2019, punto 4. del Considerato in diritto; n. 99 del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto; n. 13 del 2019, punto 3.1. del Considerato in diritto).

4.– Nel merito, le questioni prospettate non sono fondate.

4.1.– A parere del rimettente, la disposizione censurata violerebbe anzitutto l’art. 3 Cost., in quanto, parificando l’ipotesi dell’esperimento infruttuoso della procedura esecutiva a quella del mero decorso di ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo dell’agente della riscossione, determinerebbe l’instaurazione automatica della procedura di conversione anche nei confronti di condannati potenzialmente solvibili, ma che potrebbero essere rimasti del tutto ignari della procedura esecutiva in corso. Ciò in quanto, secondo il giudice a quo, la previa notificazione della cartella di pagamento potrebbe essere stata effettuata «in base all’art. 60» del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella misura in cui è richiamato dall’art. 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) e dunque, sempre a detta del rimettente, ai sensi degli artt. 140 e 143 cod. proc. civ., senza che risulti la prova dell’effettiva conoscenza della stessa da parte dei condannati. Essi sarebbero così esposti al rischio di subire una compressione della libertà personale per effetto della conversione della pena pecuniaria in conseguenza della mera inerzia dell’agente della riscossione; e la loro situazione risulterebbe irragionevolmente equiparata dalla legge a quella di coloro che, avendo subito l’infruttuoso esperimento di atti di esecuzione forzata nei propri confronti, siano certamente consapevoli della procedura in corso.

4.2.– Al riguardo, va tuttavia considerato che la notifica della cartella di pagamento da parte dell’agente della riscossione è necessariamente preceduta dalla notifica dell’avviso di pagamento, ad opera dell’ufficio del giudice dell’esecuzione; e che già tale avviso ha la funzione di intimare al condannato il pagamento della pena pecuniaria stabilita nella sentenza di condanna, ponendolo così a conoscenza anche delle possibili conseguenze del mancato pagamento.

Come rilevato dall’Avvocatura generale dello Stato, nei casi in cui la notifica al condannato dell’invito al pagamento delle pene pecuniarie sia eseguita nelle forme dell’art. 143 cod. proc. civ. (e dunque a persona di residenza, dimora o domicilio sconosciuti), l’ufficio è tenuto ad annullare il credito ai sensi dell’art. 235 del d.P.R. n. 115 del 2002.

La disposizione censurata, pertanto, non può trovare applicazione nel caso di irreperibilità “assoluta” del condannato.

L’art. 238-bis, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002 può, invece, trovare applicazione nei casi in cui la notifica dell’invito al pagamento sia eseguita ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. In tal caso, tuttavia, la conoscibilità dell’atto da parte del destinatario della notifica è assicurata dall’affissione alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario dell’avviso di deposito dell’atto nella casa comunale, nonché dall’invio al medesimo indirizzo di una raccomandata con avviso di ricevimento, perfezionandosi poi la notificazione – secondo quanto statuito da questa Corte nella sentenza n. 3 del 2010 – al momento della ricezione della raccomandata, ovvero decorsi dieci giorni dalla spedizione di essa. Modalità, quelle descritte, che riducono in linea generale a dimensioni tollerabili, nel quadro di un ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco, il rischio che il destinatario non abbia effettiva contezza dell’atto notificato.

Non sussiste, dunque, la disparità di trattamento denunciata dal rimettente: presupposto per l’operatività della disposizione censurata è, in ogni caso, l’avvenuta notificazione dell’invito al pagamento, quanto meno con le forme dell’art. 140 cod. proc. civ.; ciò che assicura che il condannato sia stato posto in condizioni di avere contezza del proprio obbligo di pagare la somma stabilita a titolo di pena pecuniaria dalla sentenza di condanna, nonché delle possibili conseguenze del mancato pagamento. E ciò indipendentemente dalla circostanza se alla notificazione dell’avviso segua, o no, la notificazione della cartella di pagamento e il compimento di atti esecutivi da parte dell’agente della riscossione: atti esecutivi, peraltro, che a loro volta non assicurano in maniera assoluta che il condannato abbia effettiva contezza della procedura in corso, dal momento che l’atto di pignoramento potrebbe essere stato, esso stesso, notificato ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ.

Ferma, allora, la necessità che il condannato sia posto in grado di conoscere il proprio obbligo, il legislatore ha inteso evitare – con la disposizione qui censurata – la paralisi del procedimento di conversione in conseguenza dell’eventuale inerzia dell’agente della riscossione, prescrivendo l’obbligo a carico dell’ufficio del giudice dell’esecuzione di dare comunque impulso a tale procedimento decorsi infruttuosamente ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente.

Tale scelta non può ritenersi irragionevole, non sussistendo – sul piano costituzionale – alcuna necessità che il legislatore condizioni l’attivazione del procedimento di conversione della pena pecuniaria al previo esperimento di una procedura esecutiva nei confronti di un condannato che, essendo stato debitamente avvertito del proprio obbligo e delle conseguenze di legge in caso di inadempimento, non abbia spontaneamente provveduto al pagamento.

4.3.– Va peraltro rammentato che la disposizione censurata si limita a prescrivere all’ufficio del giudice dell’esecuzione di trasmettere gli atti al pubblico ministero, affinché questi promuova la conversione della pena presso il magistrato di sorveglianza, al ricorrere delle due condizioni alternative menzionate nella disposizione medesima (inerzia dell’agente della riscossione per ventiquattro mesi, ovvero impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa); ma non impone affatto al magistrato di sorveglianza, una volta ricevuti gli atti, di disporre ipso iure la conversione. L’attività di quest’ultimo resta, infatti, regolata dall’art. 660 cod. proc. pen., che impone la conversione soltanto in presenza di una situazione di «effettiva insolvibilità» del condannato ai sensi del comma 2, da accertarsi – secondo quanto dispone l’art. 238-bis, comma 6, del d.P.R. n. 115 del 2002 – anche attraverso «le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si abbia ragione di ritenere che lo stesso possieda altri beni o cespiti di reddito», da effettuarsi se necessario sollecitando la cooperazione degli «organi finanziari».

Laddove, dunque, il magistrato di sorveglianza accerti la solvibilità del condannato, egli dovrà – ai sensi dell’art. 238-bis, comma 7, del d.P.R. n. 115 del 2002 – restituire gli atti all’agente della riscossione perché riavvii le attività di competenza sullo stesso articolo di ruolo; mentre, laddove emerga una soltanto temporanea situazione di insolvenza, il condannato potrà essere ammesso – in forza dell’art. 660, comma 3, cod. proc. pen. – alla rateizzazione del pagamento, ovvero al suo differimento.

Tali considerazioni confermano che il sistema disegnato dal legislatore non discrimina irragionevolmente tra chi sia già stato oggetto di attività esecutiva da parte dell’agente della riscossione e chi, invece, abbia ricevuto soltanto la notifica dell’invito al pagamento, restando comunque fermi – in relazione all’una e all’altra categoria di condannati – gli obblighi di accertamento sanciti a carico del magistrato di sorveglianza dall’art. 660 cod. proc. pen., nonché dall’art. 238-bis, comma 6, del d.P.R. n. 115 del 2002.

5.– Non fondata è anche la censura riferita all’art. 24 Cost.

5.1.– Secondo il rimettente, la disposizione censurata darebbe avvio a un procedimento, per chi sia stato condannato a una mera pena pecuniaria, finalizzato all’adozione di un provvedimento limitativo della sua libertà personale, senza che gli sia stato possibile averne notizia ed esporre le proprie ragioni prima che venga adottato un provvedimento che gli rechi pregiudizio. Ciò che determinerebbe, oltre che una lesione dell’art. 24 Cost., anche una violazione degli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla cui luce lo stesso art. 24 Cost. dovrebbe essere interpretato.

5.2.– Ora – in disparte ogni considerazione concernente gli artt. 47 e 48 CDFUE, che non possono essere qui esaminati, non avendo il rimettente neppure indicato le ragioni per le quali si dovrebbe ritenere che la questione ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, paragrafo 1, CDFUE – basti rilevare, per quanto riguarda l’art. 24 Cost., che la censura si fonda in sostanza sul medesimo argomento già invocato a proposito dell’art. 3 Cost.: e cioè sul pregiudizio che la disciplina denunziata arrecherebbe ad un condannato in ipotesi ignaro della procedura esecutiva in corso, che si vedrebbe convertire la pena pecuniaria in pena limitativa della libertà personale, senza essere stato posto in condizioni di interloquire prima dell’adozione del provvedimento relativo.

Come si è visto, invece, l’operatività della disposizione censurata è condizionata alla previa notifica dell’invito al pagamento, quanto meno nelle forme dell’art. 140 cod. proc. civ.; notifica volta ad avvisare il debitore della possibilità di un’esecuzione forzata e, in difetto di risultato utile, della conversione della pena nelle sanzioni sostitutive previste dalla legge n. 689 del 1981.

Contro l’ordinanza del magistrato di sorveglianza che dispone la conversione, il condannato ha peraltro la facoltà, ai sensi degli artt. 678, comma 1-bis, e 667, comma 4, cod. proc. pen., di proporre opposizione davanti al medesimo giudice, nonché quella di ricorrere in cassazione contro l’eventuale rigetto dell’opposizione, con l’ulteriore garanzia – imposta dalla sentenza n. 108 del 1987 di questa Corte e oggi riconosciuta dall’art. 660, ultimo comma, cod. proc. pen. – dell’effetto sospensivo dell’esecuzione a far data dalla presentazione del ricorso per cassazione.

Il che assicura il pieno rispetto del diritto di difesa del condannato in relazione all’intero procedimento in esame.

6.– Non è fondata, infine, la censura formulata con riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.

6.1.– Assume il rimettente che la disposizione censurata, al fine di evitare l’estinzione della pena pecuniaria per prescrizione, legittimerebbe l’instaurazione di una «procedura pregiudizievole per il reo che potrebbe sfociare nell’adozione di un provvedimento avente ad oggetto una pena non proporzionata alla gravità del reato e inidonea a far sì che il reo impari a vivere nel rispetto delle regole di civiltà».

6.2.– L’argomento a ben vedere pone in dubbio la stessa legittimità costituzionale dell’istituto della conversione delle pene pecuniarie così come disciplinato dalla legge n. 689 del 1981, il quale è invece stato ritenuto da questa Corte in linea di principio compatibile con la Costituzione, sulla base essenzialmente dell’argomento secondo cui «la complessiva considerazione dei valori in gioco […] comporta che non sia concretamente evitabile né la previsione di misure succedanee alla pena pecuniaria non corrisposta per insolvibilità, né che queste possano incorporare, rispetto a quella, un margine di maggiore afflittività», ferma restando per il legislatore la necessità – imposta dal rispetto dovuto al principio di uguaglianza, a cui aveva in precedenza fatto richiamo la sentenza n. 131 del 1979 – di «adottare misure sostitutive», come quelle previste dalla stessa legge n. 689 del 1981, «che riducano al minimo possibile tale divario» e che, «agevolando l’adempimento della pena pecuniaria e rendendo effettivo il controllo sulla sussistenza di reali situazioni d’insolvibilità, circoscrivano nella massima misura possibile l’area di concreta operatività della conversione» (sentenza n. 108 del 1987).

Tali considerazioni devono essere in questa sede integralmente ribadite, con conseguente infondatezza anche di quest’ultima censura proposta dal rimettente.

7.– Una considerazione finale non può, cionondimeno, essere pretermessa.

Già nella sentenza n. 108 del 1987, questa Corte aveva invocato un intervento del legislatore sulla disciplina processuale della conversione, ritenuta inficiata da «difetti che la rendono non pienamente adeguata ai principi costituzionali in materia, e che possono indirettamente frenare un più ampio ricorso alla pena pecuniaria, da molti auspicato».

Un simile monito deve essere ora ribadito. Il procedimento di esecuzione della pena pecuniaria, del quale i provvedimenti di conversione costituiscono uno dei possibili esiti, è oggi ancor più farraginoso di quanto non lo fosse nel 1987, prevedendo l’intervento, in successione, dell’ufficio del giudice dell’esecuzione, dell’agente della riscossione, del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza. A tutti questi soggetti sono demandati plurimi adempimenti più o meno complessi, che tuttavia non riescono, allo stato, ad assicurare né adeguati tassi di riscossione delle pene pecuniarie, né l’effettività della conversione delle pene pecuniarie non pagate.

Tale situazione, oggetto di diagnosi risalenti in dottrina, fa sì che la pena pecuniaria non riesca a costituire in Italia un’alternativa credibile rispetto alle pene privative della libertà, come accade invece in molti altri ordinamenti.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», introdotto dall’art. 1, comma 473, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Avellino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2019.

F.to:

Aldo CAROSI, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2019.