SENTENZA N. 218
ANNO 2019
Commento alla decisione di
Giangiacomo D’Angelo
Impiego
pubblico e privato pari sono (in relazione al regime fiscale della previdenza
complementare)
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
Presidente:
Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo
CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto
Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del decreto
legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del decreto
del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del
testo unico delle imposte sui redditi), promosso dalla Commissione
tributaria provinciale di Vicenza nel procedimento vertente tra Paola Rizzo e
l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Vicenza, con ordinanza
dell’11 ottobre 2017, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2019 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno
2019.
Visti l’atto di
costituzione di Paola Rizzo, nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi l’avvocato
Flavio De Benedictis per Paola Rizzo e l’avvocato dello Stato Gabriella
Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza
dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria
provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 23, comma 6, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252
(Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art.
52, comma 1, lettera d-ter), del decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi),
in riferimento agli artt.
3 e 53 della
Costituzione.
La controversia
pendente davanti al giudice rimettente riguarda il rifiuto tacito opposto
dall’Agenzia delle entrate all’istanza di rimborso dell’imposta sui redditi
delle persone fisiche (IRPEF) e delle addizionali comunale e regionale per
l’anno 2014 presentata dalla ricorrente; questa ritiene di avere versato
un’imposta maggiore del dovuto poiché al reddito complessivo prodotto è stato
sommato l’ammontare dell’imponibile erogatole dal Fondo nazionale pensione
complementare per i lavoratori della scuola (Fondo scuola «Espero»), tassato
sulla base di disposizioni asseritamente illegittime. A tale fondo la stessa è
stata iscritta dal 16 dicembre 2009 al 30 giugno 2014, maturando una posizione
individuale imponibile di euro 8.108,70; esercitato il riscatto volontario, il
fondo ha applicato sulla somma liquidatale una ritenuta alla fonte di euro
1.865,01 a titolo di tassazione ordinaria, per effetto del combinato disposto
degli artt. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005 e 52, comma 2, lettera
d-ter), t.u. imposte redditi.
2.– Quanto alla
non manifesta infondatezza, l’ordinanza ricorda che il fondo al quale la
ricorrente aveva aderito, costituito a seguito della riforma pensionistica
contenuta nella legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico
obbligatorio e complementare), è destinato ai lavoratori del comparto scuola,
sia con contratto a tempo indeterminato che determinato, che vi aderiscono
volontariamente.
Prosegue il
giudice rilevando che la riforma introdotta dalla legge 23 agosto 2004, n. 243
(Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della
previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e
all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed
assistenza obbligatoria), avente tra l’altro ad oggetto l’adozione di norme
intese a «sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche
complementari» (art. 1, comma 1), non avrebbe trovato immediata applicazione
nei confronti del pubblico impiego. Infatti, non è stato emanato l’apposito
decreto di armonizzazione necessario per l’attuazione degli specifici principi
e criteri direttivi indicati all’art. 1, comma 2, lettera p), della legge
citata: «applicare i princìpi e i criteri direttivi di cui al comma 1 e al
presente comma e le disposizioni relative agli incentivi al posticipo del
pensionamento di cui ai commi da 12 a 17, con le necessarie armonizzazioni, al
rapporto di lavoro con le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, previo
confronto con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative
dei datori e dei prestatori di lavoro, le regioni, gli enti locali e le
autonomie funzionali, tenendo conto delle specificità dei singoli settori e
dell’interesse pubblico connesso all’organizzazione del lavoro e all’esigenza
di efficienza dell’apparato amministrativo pubblico».
Il d.lgs. n. 252
del 2005, recante disposizioni attuative della predetta legge delega,
prevedeva, infatti, all’art. 21, comma 8, che «[f]atto salvo quanto previsto
dall’art. 23, comma 5, è abrogato il decreto legislativo 21 aprile 1993, n.
124», recante «Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma
dell’articolo 3, comma 1, lettera v), della legge 23 ottobre 1992, n. 421», e
all’art. 23, comma 6, che «[f]ino all’emanazione del decreto legislativo di
attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera p), della legge 23 agosto 2004, n.
243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma
2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed
integralmente la previgente normativa».
Ad avviso del
giudice a quo, il combinato disposto di tali previsioni escluderebbe
«l’applicazione, al rapporto di lavoro pubblico, del regime fiscale più
favorevole introdotto dallo stesso decreto legislativo, creando due regimi
impositivi e una disparità di trattamento costituzionalmente rilevante».
Infatti, il cosiddetto riscatto volontario di una posizione individuale
accumulata dopo il 1° gennaio 2007 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 252
del 2005), «se erogato a favore di dipendenti del settore privato iscritti a
una forma pensionistica di natura negoziale di cui sono destinatari, beneficia
della favorevole imposizione sostitutiva di cui all’art. 14 del decreto
legislativo n. 252/2005, mentre il medesimo riscatto erogato a favore di
dipendenti pubblici subisce una differente e penalizzante imposizione ordinaria
che si configur[erebbe]
nella maggiorazione dell’onere tributario, derivante dall’applicazione
dell’art. 52, comma 1, lett. d-ter) del TUIR».
Pertanto, il
rimettente ritiene che il d.lgs. n. 252 del 2005 risulterebbe «carente di una
disciplina generale di armonizzazione con il settore pubblico», per effetto
delle sopra richiamate disposizioni di cui agli artt. 21, comma 8, e 23, comma
6 della stessa fonte normativa.
Il combinato
disposto di queste ultime «esclude[rebbe],
irragionevolmente, al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, il regime
fiscale più favorevole introdotto dallo stesso decreto legislativo, creando due
sistemi impositivi». La conseguente disparità di trattamento appare al
rimettente irragionevole, e quindi in violazione dell’art. 3 Cost., essendo
lesiva del principio di uguaglianza tra lavoratori del settore pubblico e di
quello privato, nonché dell’art. 53 Cost., «in quanto una medesima fonte di
capacità contributiva v[errebbe] sottoposta a due
diverse imposizioni fiscali».
L’ordinanza
ritiene le questioni rilevanti in quanto la risoluzione della controversia in
senso sfavorevole o favorevole al contribuente dipenderebbe dall’applicazione
della norma della cui costituzionalità si dubita.
3.– Con atto
depositato il 19 febbraio 2019 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque
manifestamente infondate.
Vengono, in
premessa, richiamate le principali fonti normative in materia di previdenza
complementare segnalando, da ultimo, l’art. 1, comma 156, della legge 27
dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020): tale disposizione,
a decorrere dal 1° gennaio 2018, ha esteso ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni le disposizioni concernenti la deducibilità dei premi e dei
contributi versati ai fini della previdenza complementare e il regime di
tassazione delle prestazioni previsti dal d.lgs. n. 252 del 2005, precisando
che, per i dipendenti pubblici iscritti alla data di entrata in vigore della
legge a forme previdenziali complementari, «relativamente ai montanti delle
prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le
disposizioni previgenti».
3.1.– L’Avvocatura
generale eccepisce la inammissibilità delle questioni, «per non avere investito
la normativa rilevante, con particolare riferimento all’art. 1 della legge
delega n. 243/2004, in forza della quale è stato emanato il D.Lgs.
252/2005». Richiamando il principio direttivo contenuto nella lettera p) del
comma 2 di tale articolo, ritiene evidente che l’art. 23, comma 6, del d.lgs.
n. 252 del 2005, sospettato di incostituzionalità, trovi in esso il suo
fondamento.
Un ulteriore
profilo di inammissibilità deriverebbe dal fatto che l’ordinanza ha richiesto
la dichiarazione di illegittimità dell’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del
2005 senza richiamare, «neppure in estrema sintesi», la disciplina, contenuta
nel citato decreto legislativo, in tema di trattamento fiscale delle
prestazioni di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati diverse
dal riscatto volontario, di cui l’accoglimento del petitum
formulato «comporterebbe l’estensione ai lavoratori del comparto pubblico».
3.2.– A sostegno
della manifesta infondatezza della questione, l’Avvocatura premette che le
prestazioni di previdenza complementare costituiscono reddito da lavoro
dipendente o da pensione e che, sia il d.lgs. n. 124 del 1993, sia il decreto
legislativo 18 febbraio 2000, n. 47 (Riforma della disciplina fiscale della
previdenza complementare, a norma dell’articolo 3 della l. 13 maggio 1999, n.
133), avevano delineato «un trattamento fiscale delle anzidette prestazioni omogeneo
per i lavoratori privati e pubblici analogo a quello dettato dal TUIR per tali
redditi».
Secondo la
ricostruzione dell’Avvocatura il regime applicabile alla quota parte delle
prestazioni riferibili ai contributi e al trattamento di fine rapporto (TFR) versati
fino al 31 dicembre 2006, sia per i lavoratori pubblici che per quelli privati,
prevedeva: a) la tassazione progressiva, per le prestazioni in forma periodica;
b) la tassazione separata, per le prestazioni in forma di capitale e per le
anticipazioni; c) la tassazione separata, per riscatti conseguenti a
pensionamento, cessazione del rapporto di lavoro per mobilità e per altre cause
non dipendenti dalla volontà delle parti; d) la tassazione progressiva, per i
riscatti volontari.
Rispetto a tale
regime tipico, la nuova disciplina dettata dal d.lgs. n. 252 del 2005 avrebbe
un connotato evidentemente agevolativo, come risulterebbe dal contenuto
dell’art. 11. Per quanto attiene ai riscatti, si applicherebbe la medesima
tassazione prevista per le prestazioni erogate sotto forma di capitale, nei
casi di riscatti esercitati ai sensi dell’art. 14, commi 2 e 3, del d.lgs. n.
252 del 2005, mentre le ipotesi di riscatto per cause diverse sarebbero
assoggettate a ritenuta a titolo d’imposta del 23 per cento.
Ciò ricordato, ad
avviso dell’interveniente le censure sollevate dal giudice a quo sarebbero
manifestamente infondate «[i]n considerazione della natura agevolativa delle
disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 252/2005» e del
principio affermato dalla Corte (è richiamata la sentenza n. 21 del
2005), secondo cui «la previsione di aliquote differenziate per settori
produttivi e per tipologie di soggetti passivi rientra pienamente nella
discrezionalità del legislatore, se sorretta da non irragionevoli motivi di
politica economica e ridistributiva». L’Avvocatura ritiene che la stabilità del
rapporto pubblico e la circostanza che i dipendenti pubblici percepissero e
continuino a percepire trattamenti pensionistici obbligatori di importo pari
«circa al doppio di quelli percepiti dai dipendenti privati», costituirebbero
«ragioni sufficienti a giustificare una disciplina differenziata del
trattamento fiscale delle prestazioni erogate dalle forme di previdenza
complementare».
Argomentando sotto
un ulteriore profilo di infondatezza, l’Avvocatura generale considera che la
previdenza integrativa sarebbe stata costituita prendendo a modello il settore
dipendente privato e attribuendo un ruolo fondamentale al trattamento di fine
rapporto. Peraltro, ciò avrebbe fin dall’inizio comportato difficoltà di
applicazione nel settore pubblico, nel quale mancava il TFR, e non potendo
quindi il bilancio pubblico facilmente «trasferirlo ai fondi pensione nel caso
di una trasformazione dei trattamenti di fine servizio (TFS) in TFR».
La difesa dello
Stato prosegue riepilogando le fasi che hanno segnato l’estensione ai
dipendenti pubblici del TFR, inizialmente disposta dalla legge n. 335 del 1995,
e delineando le modalità di determinazione della misura dei contributi a carico
del lavoratore e del datore di lavoro, nonché le modalità di accantonamento del
TFR dei dipendenti pubblici.
Tali peculiari
vicende e, in particolare, la «diversa disciplina ed entità del TFS e la
differente modalità di accantonamento del TFR» costituirebbero, ad avviso
dell’Avvocatura, ulteriori ragioni che varrebbero «a rendere non irragionevole
la scelta del legislatore di differenziare il trattamento fiscale delle
prestazioni di previdenza complementare erogate dai fondi pensione ai
lavoratori pubblici e privati».
4.– Con atto
depositato il 15 febbraio 2019, si è costituita Paola Rizzo, come rappresentata
e difesa, in qualità di parte del giudizio a quo.
Dopo avere
richiamato il regime di tassazione applicabile per il periodo dal 1° gennaio
2001 al 31 dicembre 2006, e avere menzionato la disposizione di cui all’art.
23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, la parte dà atto del nuovo regime di
tassazione delle prestazioni a favore dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche introdotto dall’art. 1, comma 156, della l. n. 205 del 2017.
4.1.– Anche a
seguito dell’entrata in vigore di tale disposizione, tuttavia, non potrebbe
«considerarsi cessata la materia del contendere del presente procedimento»: ad
avviso della parte lo ius superveniens
«non [avrebbe] avuto carattere satisfattivo dei rilievi sollevati dal giudice a
quo» e, inoltre, vi sarebbe stata «applicazione medio tempore della
disposizione originariamente censurata». Considerando che quest’ultima avrebbe «già
conosciuto effettiva applicazione al momento in cui è entrata in vigore la
disciplina sopravvenuta», si prospetta l’estensione del «giudizio incidentale
di legittimità costituzionale» al comma 156 dell’art. 1 della l. n. 205 del
2017; nonostante lo ius superveniens,
i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche continuerebbero a
subire una illegittima discriminazione, risultante dai diversi regimi, di cui
si esplicitano i contenuti.
4.2.– Il regime
impositivo previgente al d.lgs. n. 252 del 2005, applicabile alle prestazioni
erogate a dipendenti di pubbliche amministrazioni per la quota riferibile al
montante accumulato dal 1° gennaio 2007 al 31 dicembre 2017, risulterebbe in
contrasto con i parametri evocati dal rimettente. A sostegno di tale tesi si
richiamano le affermazioni contenute nella sentenza n. 10 del
2015 sul principio della capacità contributiva, da interpretare come
specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza di cui
all’art. 3 Cost., e nella sentenza n. 83 del
2015, sul limite della manifesta irragionevolezza applicabile anche in
materia tributaria al principio della discrezionalità e dell’insindacabilità
delle opzioni legislative.
La scelta
legislativa di tassare in modo totalmente differente e penalizzante una
prestazione di previdenza complementare percepita da un aderente a una forma
pensionistica collettiva per la sola circostanza che il proprio datore di
lavoro sia una pubblica amministrazione (e non un soggetto di diritto privato)
sarebbe quindi manifestamente irragionevole e discriminatoria in forza dei
parametri costituzionali evocati.
Da ultimo, si
sostiene che il vizio di irragionevolezza sopra evidenziato porrebbe una
questione di illegittimità costituzionale «anche con riferimento al principio
di non discriminazione di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
[…] e in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».
5.– In prossimità
dell’udienza è pervenuta una memoria della parte privata, che replica all’atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
A confutazione
della eccezione di inammissibilità per non essere stata censurata la legge di
delegazione, si osserva che la situazione di irragionevolezza denunciata nel
giudizio conseguirebbe dalla mancata attuazione del criterio di legge delega di
cui alla lettera p) del comma 2 dell’art. 1 della legge n. 243 del 2004 e non
dalla stessa disposizione di legge, che prevedeva l’applicazione al rapporto di
lavoro con le pubbliche amministrazioni degli stessi principi e criteri
direttivi fissati per il settore privato. Pertanto, il giudice rimettente non
avrebbe dovuto censurare anche tale ultima disposizione normativa.
Ugualmente
infondata sarebbe l’altra eccezione prospettata, atteso che l’ordinanza esplicitamente
ed esaustivamente richiamerebbe il regime impositivo di cui al d.lgs. n. 252
del 2005, citandone l’art. 14.
Quanto agli
argomenti di merito utilizzati dalla difesa dello Stato, la memoria ritiene che
si basino su presupposti errati e siano comunque infondati. Precisa che la
ricorrente aveva prestato la sua attività in forza di un contratto di lavoro a
tempo determinato con scadenza al 30 giugno 2014, sì che nessuna stabilità del
rapporto stesso potrebbe essere invocata. Inoltre, fa presente che i dipendenti
pubblici non beneficiano di trattamenti pensionistici obbligatori calcolati in
modo differente rispetto ai lavoratori del settore privato, essendo il relativo
importo direttamente correlato a quello dei contributi versati all’ente
previdenziale di gestione del sistema pensionistico pubblico.
In ogni caso, la
diversa natura del datore di lavoro non potrebbe assurgere a indice della
capacità contributiva tale da giustificare un prelievo fiscale totalmente
differente su medesimi presupposti d’imposta.
Inoltre, si
ritiene inconferente con la questione di costituzionalità «la legislazione
sulla indennità di fine servizio spettante a determinate tipologie di
lavoratori del settore pubblico». Infine, la preclusione per i lavoratori
pubblici di poter materialmente ed effettivamente conferire le quote maturande
del TFR alla propria forma pensionistica complementare, rappresenterebbe
tuttalpiù un’ulteriore discriminazione a danno degli stessi e non certo una
valida ragione per giustificare il differente e penalizzante prelievo
tributario sulle prestazioni di previdenza complementare.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza
dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria
provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 23, comma 6, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252
(Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art.
52, comma 1, lettera d-ter), del decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi),
secondo i quali sulle somme percepite dai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni a titolo di riscatto della posizione individuale maturata
presso una forma di previdenza complementare collettiva si applica il regime
fiscale previgente al d.lgs. n. 252 del 2005, invece del regime fiscale più
favorevole introdotto da detto d.lgs. n. 252 del 2005 per la stessa prestazione
erogata dalle forme pensionistiche complementari collettive ai dipendenti
privati. Il rimettente ritiene che nel d.lgs. n. 252 del 2005 la carenza di una
disciplina generale di armonizzazione con il settore pubblico conduca a escludere
l’applicazione del regime fiscale più favorevole, introdotto dallo stesso
decreto legislativo per il rapporto di lavoro privato, al rapporto di lavoro
pubblico contrattualizzato: la duplicità dei sistemi impositivi e la disparità
di trattamento conseguenti sarebbero, perciò, in contrasto con gli artt. 3 e 53
della Costituzione.
Nel giudizio a quo
si impugna il rifiuto tacito formatosi sulla richiesta, avanzata dalla
ricorrente, di rimborso della maggiore imposta sui redditi delle persone
fisiche (IRPEF) e delle maggiori addizionali regionale e comunale versate sulle
somme percepite da un fondo pensione complementare (Fondo scuola «Espero») a
seguito dell’esercizio, da parte di un dipendente pubblico, della facoltà di
riscatto cosiddetto volontario. L’Agenzia delle entrate ritiene corretta
l’applicazione della tassazione ordinaria, secondo l’aliquota progressiva
applicabile al reddito complessivo, ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera
d-ter), t.u. imposte redditi, mentre la ricorrente
sostiene la incostituzionalità di tale norma e la necessità di applicare il più
favorevole trattamento previsto per i dipendenti privati dall’art. 14 del
d.lgs. n. 252 del 2005.
2.– Deve
preliminarmente rilevarsi che non incide nel presente giudizio lo ius superveniens dell’art. 1,
comma 156, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello
Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio
2018-2020). Tale disposizione ha previsto che «[a] decorrere dal 1° gennaio
2018, ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si applicano le
disposizioni concernenti la deducibilità dei premi e contributi versati e il
regime di tassazione delle prestazioni di cui al decreto legislativo 5 dicembre
2005, n. 252. Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che,
alla data di entrata in vigore della presente legge, risultano iscritti a forme
pensionistiche complementari, le disposizioni concernenti la deducibilità dei
contributi versati e il regime di tassazione delle prestazioni di cui al
decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, sono applicabili a decorrere dal
1° gennaio 2018. Per i medesimi soggetti, relativamente ai montanti delle
prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le
disposizioni previgenti».
La norma citata,
successiva all’ordinanza di rimessione, non ha effetti retroattivi e non è
quindi applicabile al giudizio a quo, il quale ha ad oggetto un rapporto di
previdenza complementare cessato nel 2014.
3.– Va, in primo
luogo, rilevata la inammissibilità delle deduzioni svolte dalla parte
costituita, ricorrente nel giudizio a quo, volte ad estendere il thema decidendum – quale definito
nell’ordinanza di rimessione – «anche con riferimento al principio di non
discriminazione di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007, e in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848».
Si tratta di
profili di illegittimità che il giudice a quo non ha fatto propri: per costante
giurisprudenza di questa Corte «l’oggetto del giudizio di legittimità
costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri
indicati nell’ordinanza di rimessione, sicché non possono essere presi in
considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle
parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare
o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ex plurimis, sentenza n. 194 del
2018)» (sentenza
n. 7 del 2019).
4.– L’Avvocatura
generale ha formulato due eccezioni di inammissibilità delle questioni.
4.1.– Con la
prima, ha sostenuto che il giudice rimettente avrebbe dovuto censurare l’art.
1, comma 2, lettera p), della legge n. 243 del 2004, poiché il principio di
delega da questo espresso costituirebbe il fondamento dell’art. 23, comma 6,
del d.lgs. n. 252 del 2005, disposizione sospettata di incostituzionalità.
4.1.1.– L’eccezione
non è fondata.
La citata norma
della legge di delega ha indirizzato il legislatore delegato ad applicare gli
stessi princìpi e criteri direttivi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 1 anche al
rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, pur subordinando tale
applicazione alle «necessarie armonizzazioni». Pertanto, il contenuto del
criterio direttivo sopra richiamato non consente di affermare che il
legislatore delegante intendesse direttamente ottenere, all’esito
dell’attuazione della delega, una differenziazione della disciplina tributaria
applicabile alle prestazioni di previdenza complementare in ragione della
natura del rapporto di lavoro dell’aderente, tanto più che i principi e criteri
relativi al regime tributario della previdenza complementare presentavano un
contenuto generale e, peraltro, piuttosto circoscritto.
Risulta quindi
priva di validità l’affermazione secondo cui la disposizione censurata
troverebbe diretto fondamento nel menzionato criterio direttivo e non sussiste,
pertanto, la eccepita inesatta indicazione della norma oggetto di censura che
determinerebbe la inammissibilità della questione.
Correttamente il
giudice a quo non ha esteso le questioni sollevate alla disposizione della
legge delega poiché, come osservato nella memoria della parte privata, la
situazione di irragionevolezza che egli lamenta non è conseguenza di tale
previsione, quanto piuttosto dell’inattuazione, sullo
specifico punto, della stessa disposizione.
4.2.– Con la
seconda eccezione l’Avvocatura ha rilevato che l’ordinanza, pur chiedendo la
dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252
del 2005, non avrebbe richiamato, neppure in estrema sintesi, l’intera
disciplina dettata dal decreto stesso in tema di trattamento fiscale delle
prestazioni di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati,
essendosi invece limitata a citare solo quella concernente la prestazione
oggetto del giudizio (il cosiddetto riscatto volontario).
4.2.1.– Anche tale
eccezione non è fondata.
Se è vero che
l’ordinanza di rimessione, nel dispositivo, riferisce genericamente le
questioni all’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, in forza del quale
ai dipendenti pubblici resta applicabile la intera disciplina previgente,
tuttavia nel suo contenuto motivazionale circoscrive precipuamente il dubbio di
costituzionalità al combinato disposto del citato art. 23, comma 6, e dell’art.
52, comma 2, lettera d-ter), t.u. imposte redditi.
Quest’ultima lettera attiene specificamente al trattamento fiscale delle
«prestazioni pensionistiche di cui alla lettera h-bis) del comma 1,
dell’articolo 50, erogate in forma capitale a seguito di riscatto della
posizione individuale ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lettera c), del
decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, diverso da quello esercitato a
seguito di pensionamento o di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità o
per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti».
Dall’insieme delle
due disposizioni si ricava la norma che il rimettente dovrebbe applicare e
sulla quale appunta le censure; così precisato l’oggetto delle questioni e del petitum, ne discende l’infondatezza della eccezione in
esame: l’ordinanza richiama puntualmente la disciplina del trattamento
tributario del riscatto contenuta nell’art. 14 del d.lgs. n. 252 del 2005, di
cui lamenta la irragionevole non applicazione ai dipendenti pubblici, e non
doveva pertanto illustrare anche il regime tributario delle altre prestazioni
erogate dai fondi di previdenza complementare, estranee all’oggetto del
giudizio a quo.
5.– Le questioni
sono fondate in relazione all’art. 3 Cost.
Il richiamato
regime sostitutivo tributario del riscatto, previsto dal d.lgs. n. 252 del
2005, ma solo per i dipendenti del settore privato, si inquadra nell’ambito di
agevolazioni tributarie non strutturali, dirette, in questo caso, a incentivare
lo sviluppo della previdenza complementare; non si configura quindi come una
qualunque spesa fiscale, ma assume una specifica giustificazione costituzionale
in virtù della sua connessione con l’attuazione del sistema dell’art. 38,
secondo comma, Cost., derivante dal «collegamento funzionale tra previdenza
obbligatoria e previdenza complementare» (sentenza n. 393 del
2000; nello stesso senso, ordinanza n. 319
del 2001).
Questa Corte si è
trovata più volte a vagliare la legittimità costituzionale di disposizioni che,
in nome del bilanciamento con altri principi costituzionali, prevedono, a
fronte di una riconosciuta capacità contributiva (sentenza n. 159 del
1985), agevolazioni tributarie e, in questo contesto, ha affermato, in via generale,
che «norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio,
costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile
solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del
1987; ordinanza
n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne
l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi
(sentenze n. 6
del 2014, n.
275 del 2005, n.
27 del 2001, n.
431 del 1997 e n. 86 del 1985;
ordinanze n. 103
del 2012, n.
203 del 2011, n.
144 del 2009 e n. 10 del 1999)»
(da ultimo, sentenza n. 264; nello stesso senso, sentenza n. 242 del
2017).
Nella fattispecie
in esame, tuttavia, è palese che la ratio del beneficio riconosciuto a favore
dei dipendenti privati – quella di favorire lo sviluppo della previdenza
complementare, dando attuazione al sistema dell’art. 38, secondo comma, Cost. –
è identicamente ravvisabile anche nei confronti di quelli pubblici.
5.1.– Tanto
dimostra la ricostruzione dell’evoluzione normativa.
Le forme di
previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del
sistema obbligatorio, infatti, sono finalizzate ad assicurare più elevati
livelli di copertura previdenziale, come enunciano sia l’art. 1 del decreto
legislativo 21 aprile 1993, n. 124 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1, lettera v, della legge 23
ottobre 1992, n. 421) – decreto con cui il legislatore ha per la prima volta
disciplinato in maniera organica la previdenza complementare nel nostro
ordinamento –, sia l’art. 1 del d.lgs. n. 252 del 2005, che oggi regola la
medesima materia.
Tra i destinatari
delle forme pensionistiche complementari vi sono in primo luogo i lavoratori
dipendenti, sia privati, sia pubblici (art. 2, comma 1, lettera a, del d.lgs.
n. 252 del 2005); le modalità di partecipazione sono stabilite dalle fonti
istitutive delle forme pensionistiche medesime, individuate principalmente nei
contratti collettivi (art. 3, commi 1, lettera a, e 2, del decreto citato).
Per quanto attiene
al finanziamento delle forme pensionistiche, e con specifico riferimento a
quelle istituite dalla contrattazione collettiva dei lavoratori dipendenti, esso
può essere attuato mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore
e del datore di lavoro e attraverso il conferimento del trattamento di fine
rapporto maturando (art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 252 del 2005). Le fonti
istitutive fissano le modalità e la misura minima della contribuzione a carico
del datore di lavoro e del lavoratore e «la percentuale minima di TFR maturando
da destinare a previdenza complementare. In assenza di tale indicazione il
conferimento è totale» (art. 8, comma 2, del d.lgs. citato). Quanto alle «forme
pensionistiche complementari di cui siano destinatari i dipendenti della
pubblica amministrazione, i contributi alle forme pensionistiche debbono essere
definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure
coerenti alla natura del rapporto» (art. 8, comma 3, del d.lgs. citato, che
conferma quanto già previsto dall’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 124 del 1993);
ciò rappresenta un implicito richiamo all’art. 3, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che riserva in via di
principio alla contrattazione collettiva la materia dell’attribuzione di
trattamenti economici.
5.2.– Il
finanziamento della previdenza complementare dei dipendenti pubblici – con la
costituzione dei primi fondi pensione negoziali per tali lavoratori – è
divenuto concretamente operativo solo a distanza di tempo dall’approvazione del
d.lgs. n. 124 del 1993. Furono inizialmente di ostacolo l’assenza nel settore
pubblico dell’istituto del trattamento di fine rapporto (TFR) e la inidoneità
delle indennità di fine rapporto variamente denominate, proprie di tale
settore, a realizzare la funzione tipica di finanziamento delle forme
pensionistiche complementari.
Seguendo un
percorso graduale, con l’art. 2, comma 5, della legge 8 agosto 1995, n. 335
(Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), il
legislatore ha dapprima assoggettato alle disposizioni sul TFR, contenute
nell’art. 2120 del codice civile, i trattamenti di fine servizio, comunque
denominati, dei lavoratori assunti dal 1° gennaio 1996 alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche. In forza del comma 6 dello stesso art. 2, alla
contrattazione collettiva, nell’àmbito dei singoli comparti, è stata demandata
la definizione delle modalità di attuazione di tali previsioni, «con
riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e
contributiva del personale», anche ai fini della disciplina delle forme
pensionistiche complementari. Il successivo comma 7 ha affidato alla
contrattazione collettiva nazionale la definizione delle modalità per
l’applicazione della disciplina del trattamento di fine rapporto ai lavoratori
già occupati alla data del 31 dicembre 1995, da recepire in un decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, con la procedura prevista dal suddetto
comma 6.
Successivamente,
l’art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la
stabilizzazione della finanza pubblica), al fine di favorire il processo di
attuazione per i dipendenti pubblici delle disposizioni in materia di
previdenza complementare, ha previsto «la possibilità di richiedere la
trasformazione dell’indennità di fine servizio in trattamento di fine rapporto.
Per coloro che optano in tal senso una quota della vigente aliquota
contributiva relativa all’indennità di fine servizio prevista dalle gestioni
previdenziali di appartenenza, pari all’1,5 per cento, verrà destinata a
previdenza complementare nei modi e con la gradualità da definirsi in sede di
specifica trattativa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori». Tale
misura incentivante è stata oggetto di una più specifica disciplina ad opera
dell’art. 26, commi da 18 a 20, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di
finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo).
Infine, il 29
luglio 1999 è stato stipulato un accordo quadro nazionale tra le organizzazioni
sindacali più rappresentative e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle
pubbliche amministrazioni (ARAN) successivamente recepito dal decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine
rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti).
Ai fini che qui
rilevano, il d.P.C.m. 20 dicembre 1999, come
modificato dal successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 2
marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi dei pubblici dipendenti),
ha previsto che in fase di prima attuazione i dipendenti esercitanti l’opzione
di cui all’art. 59, comma 56, della legge n. 449 del 1997 possano destinare ai
fondi pensione una quota di TFR non superiore al 2 per cento della retribuzione
base di riferimento per il calcolo del TFR (art. 2, comma 1). Invece, per il
personale assunto successivamente al 31 dicembre 2000, soggetto alle regole
concessive e di computo di cui alla legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina
del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), in caso di
iscrizione al fondo pensione è stata prevista «la integrale destinazione al
fondo stesso degli accantonamenti al trattamento di fine rapporto» (art. 2,
comma 2).
Il d.P.C.m. 20 dicembre 1999, all’art. 1, comma 6, ha anche
previsto in via generale che il TFR debba essere accantonato figurativamente e
liquidato dall’Istituto nazionale di previdenza delle amministrazioni pubbliche
(INPDAP, oggi dall’Istituto nazionale di previdenza sociale-INPS) alla
cessazione dal servizio del lavoratore secondo quanto disposto dalla legge n.
297 del 1982. In caso di adesione del lavoratore pubblico a un fondo pensione,
l’art. 2, comma 5, ha disposto che alla cessazione del rapporto di lavoro
l’INPDAP conferisca al fondo di riferimento il montante maturato, costituito
dagli accantonamenti figurativi delle quote di TFR nonché di quelli relativi
all’aliquota dell’1,5 per cento riconosciuta a chi abbia esercitato l’opzione
sopra menzionata. A entrambi gli accantonamenti va applicato il tasso di
rendimento netto conseguito dal fondo di adesione, salva, in via transitoria,
per il periodo di consolidamento della struttura finanziaria dei fondi pensione
dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, l’applicazione di un tasso
corrispondente alla media dei rendimenti netti di un "paniere” di fondi
presenti sul mercato.
5.3.– Sulla base
della disciplina sopra ripercorsa, il finanziamento delle forme pensionistiche
complementari negoziali per i lavoratori sia privati sia pubblici si realizza,
dunque, mediante contribuzioni a carico sia del lavoratore sia del datore di
lavoro e mediante il conferimento del TFR maturando che, insieme, formano la
posizione individuale dell’aderente.
5.4.– Va precisato
che, per i dipendenti pubblici, il TFR non viene periodicamente trasferito al
fondo, ma entra nella disponibilità dello stesso al termine del rapporto di
lavoro dell’aderente, incrementato secondo il tasso di rendimento descritto.
Tale differenza di
disciplina non influisce però sulle odierne questioni di costituzionalità:
queste, infatti, riguardano precipuamente il trattamento tributario di una
prestazione di previdenza complementare a favore dei lavoratori pubblici,
prospettato come penalizzante rispetto a quello della stessa prestazione
erogata ai lavoratori privati. In questi termini, specificamente inerenti alla
materia fiscale, non viene logicamente in considerazione quanto questa Corte ha
avuto cura di precisare ad altro riguardo, ovvero che «il lavoro pubblico e il
lavoro privato "non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del
2012 e n.
146 del 2008) e [che] le differenze, pur attenuate, permangono anche in
séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del
lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” (sentenza n. 178 del
2015, punto 9.2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 159 del
2019).
5.5.– Per quanto
attiene specificamente all’istituto del riscatto, il d.lgs. n. 124 del 1993
dispone all’art. 10, comma 1, che «[o]ve vengano meno i requisiti di
partecipazione alla forma pensionistica complementare, lo statuto del fondo
pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalità e
termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione
complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività; b) il
trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9 [ossia i fondi pensione
aperti]; c) il riscatto della posizione individuale». Il comma 3-ter prevede
che, in caso di morte del lavoratore iscritto al fondo pensione prima del
pensionamento per vecchiaia, la posizione individuale dello stesso «è
riscattata dal coniuge ovvero dai figli ovvero, se già viventi a carico
dell’iscritto, dai genitori. In mancanza di tali soggetti o di diverse
disposizioni del lavoratore iscritto al fondo la posizione resta acquisita al
fondo pensione».
Pertanto, se non
decida di aderire a un altro fondo pensione trasferendovi la posizione
individuale, esercitando il riscatto il lavoratore riceverà l’ammontare della
posizione individuale maturata nel periodo di adesione al fondo, costituita dai
contributi versati da lui stesso e dal datore di lavoro nonché dal TFR
destinato al fondo, e tenuto conto dei risultati della gestione finanziaria
svolta.
5.6.– Il
trattamento tributario di tale provento, inizialmente disciplinato in modo
uniforme – come peraltro rileva la stessa difesa erariale – per i dipendenti
pubblici e privati dal testo unico delle imposte sui redditi, risponde ad
alcuni principi con cui il legislatore ha informato la materia: la deducibilità
dal reddito imponibile dei contributi destinati alla previdenza complementare,
entro un determinato importo; la esclusione del TFR trasferito alle forme di previdenza
complementare dal reddito da lavoro dipendente imponibile dell’anno in cui è
maturato; la tassazione dei rendimenti della gestione finanziaria del fondo
pensione direttamente in capo a questo, con conseguente esenzione di tale
componente reddituale dall’imponibile della prestazione erogata all’aderente.
La disciplina
tributaria originariamente prevista per il riscatto della posizione di
previdenza complementare sanciva, quindi, l’assimilazione di tale reddito a
quelli di lavoro dipendente, così come in via generale per tutte le
«prestazioni pensionistiche di cui al decreto legislativo 21 aprile 1993, n.
124, comunque erogate» (art. 50, comma 1, lettera h-bis, t.u.
imposte redditi). Lo specifico criterio di tassazione del riscatto dipendeva
dalla sua causale e le somme erogate erano considerate imponibili al netto dei
redditi già assoggettati a imposta (artt. 20, comma 1, e 52, comma 1, lettera
d-ter, t.u. imposte redditi), ossia dei contributi
destinati a previdenza complementare non in precedenza dedotti dal lavoratore e
dei rendimenti conseguiti durante la gestione (sottoposti a tassazione in capo
al fondo pensione).
6.– È solo con il
d.lgs. n. 252 del 2005 che i regimi tributari del riscatto si differenziano.
Quest’ultimo,
infatti, modificando la disciplina della previdenza complementare, ha mantenuto
all’art. 14 la previsione generale secondo cui, ove vengano meno i requisiti di
partecipazione alle forme pensionistiche, gli statuti e i regolamenti delle
stesse devono consentire il riscatto, in alternativa al trasferimento della
posizione ad altra forma pensionistica.
Il trattamento
fiscale del riscatto, non più contenuto nel t.u.
imposte redditi, è stato disciplinato dal medesimo d.lgs. n. 252 del 2005:
artt. 14, commi 4 e 5, e 11, comma 6.
Il regime
impositivo introdotto dal d.lgs. n. 252 del 2005 prevede che la prestazione
erogata dal fondo pensione venga tassata con una ritenuta a titolo d’imposta e,
quindi, in maniera distinta rispetto agli altri redditi del percipiente e senza
concorrere a determinarne il reddito complessivo.
Tuttavia, tale
regime, come rilevato dal giudice rimettente, non si applica a tutti gli
aderenti a forme pensionistiche complementari.
Infatti, se per un
verso l’art. 21, comma 8, del d.lgs. n. 252 del 2005 ha, in via generale,
abrogato il d.lgs. n. 124 del 1993, per altro verso, il censurato successivo
art. 23, comma 6, ha disposto che «[f]ino all’emanazione del decreto
legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera p), della legge 23
agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si
applica esclusivamente ed integralmente la previgente normativa».
Con quest’ultima
disposizione il legislatore delegato – prendendo atto della ormai sopraggiunta
scadenza del termine di attuazione della delega contenuta nella menzionata
lettera p) dell’art. 1, comma 2, della legge n. 243 del 2004 – ha quindi
esplicitato che ai dipendenti pubblici dovesse applicarsi esclusivamente e integralmente
la previgente normativa.
La individuazione
della specifica disciplina applicabile avviene, quindi, in ragione della natura
del rapporto di lavoro dell’aderente a una forma di previdenza complementare e,
precisamente, a seconda che egli dipenda da un’amministrazione pubblica o da un
datore di lavoro privato.
Dal 1° gennaio
2007, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 252 del 2005, per effetto della
mancata attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2,
lettera p), della legge n. 243 del 2004, si è dunque originata una distinzione
di disciplina con riferimento a vari istituti della previdenza complementare,
tra cui il riscatto di una posizione individuale e il connesso regime
tributario.
Qui non è in
questione l’esercizio incompleto della delega, che non comporterebbe di per sé
violazione degli articoli 76 e 77 Cost., ove non determinasse «uno
stravolgimento della legge di delegazione» (sentenza n. 149 del
2005 e ordinanza
n. 283 del 2013). La fattispecie in esame, infatti, è esclusivamente
l’effetto riflesso della parziale attuazione della delega, che ha condotto al
risultato normativo di discriminare due fattispecie caratterizzate da una
sostanziale omogeneità, con violazione del principio dell’eguaglianza
tributaria e una conseguente incidenza sul contesto sociale.
7.– La
ricostruzione del quadro normativo evidenzia, infatti, che non sono individuabili
elementi che giustifichino ragionevolmente una disomogeneità del trattamento
fiscale agevolativo. Tale conclusione trova, peraltro, conferma nella stessa
evoluzione legislativa che ha sempre mantenuto equiparate le due posizioni,
salva l’eccezione – concretizzatasi nella normativa del d.lgs. n. 252 del 2005
– derivante dalla parentesi dovuta alla mancata attuazione di una parte della
legge delega n. 243 del 2004. È inoltre significativo che lo stesso
legislatore, con l’art. 1, comma 156, della legge n. 205 del 2017, abbia
successivamente provveduto – pur con l’eccezione dei montanti delle prestazioni
accumulate fino al 1° gennaio 2018 – a ristabilire una situazione di omogeneità
di trattamento.
8.– A un diverso
esito non possono condurre le argomentazioni dell’Avvocatura generale.
8.1.– Sotto un
primo profilo, non sono conferenti il richiamo alla stabilità del rapporto di
lavoro pubblico e al maggiore importo dei trattamenti pensionistici obbligatori
percepiti dai dipendenti pubblici; e ciò in disparte l’assenza di un’adeguata
dimostrazione di questa specifica affermazione.
Né l’uno né
l’altro dei due caratteri sono, in ogni caso, in grado di offrire una valida
ragione a sostegno della ragionevolezza della duplice disciplina del
trattamento tributario del riscatto, quale prestazione pensionistica
complementare: sia che venga percepita da un dipendente privato, sia che venga
percepita da un dipendente pubblico. In entrambi i casi, infatti, la
prestazione sottoposta a tassazione è composta da contributi a carico del
lavoratore, del datore di lavoro e dal TFR maturato nel periodo di adesione al
fondo.
A fronte di tale
dato, se si può affermare che la durata del rapporto di lavoro (specialmente
ove a tempo indeterminato) e le garanzie di stabilità influiscono sul
complessivo funzionamento della previdenza complementare per i lavoratori
dipendenti, basato sulla continuità dei conferimenti e sulla durata della
gestione a capitalizzazione, quegli stessi elementi sono inidonei a integrare
un valido criterio di differenziazione dei lavoratori quali soggetti passivi
del rapporto tributario. Ciò in quanto la stabilità del rapporto di lavoro non
è carattere indefettibile ed esclusivo del settore pubblico; peraltro la
disciplina tributaria rimane diversa anche quando l’aderente sia un dipendente
pubblico assunto a tempo determinato.
Quanto all’entità
del trattamento pensionistico riconosciuto dal sistema di previdenza
obbligatorio, l’argomento dell’Avvocatura sembra fare riferimento al più
favorevole criterio di determinazione della pensione secondo il sistema
retributivo; si tratta, però, di una prospettiva fallace perché i dipendenti
pubblici che possono aderire a un fondo pensione sono coloro ai quali fin
dall’inizio del loro rapporto di lavoro si applicano sia il regime di TFR, sia
il nuovo sistema di calcolo contributivo delle pensioni, introdotto dalla legge
n. 335 del 1995, al pari dei dipendenti privati. Venendo in rilievo per
entrambe le categorie di lavoratori il medesimo criterio di quantificazione del
trattamento pensionistico obbligatorio, cade il presupposto su cui dovrebbe
poggiarsi la giustificazione del differente trattamento tributario delle
prestazioni di previdenza complementare in ragione della natura pubblica o
privata del rapporto di lavoro dell’aderente.
8.2.– Sotto un
secondo profilo, ad avviso dell’Avvocatura la non irragionevolezza della scelta
del legislatore delegato deriverebbe dalle vicende che hanno portato alla
progressiva estensione al settore pubblico del TFR, partendo dalla diversa disciplina
ed entità del trattamento di fine servizio (TFS), e dalla differente modalità
di accantonamento del TFR stesso.
Anche tale
approccio non coglie la specificità delle questioni sollevate: il tempo occorso
per introdurre il TFR nel settore dell’impiego pubblico ha condotto alla
disciplina contenuta nei d.P.C.m. 20 dicembre 1999 e
2 marzo 2001 che questa Corte ha ritenuto costituire un «punto di equilibrio
individuato dal legislatore e dalle parti negoziali, secondo un bilanciamento
non irragionevole» tra lavoratori in regime di TFR e lavoratori in regime di
TFS, all’esito di un «laborioso processo di armonizzazione e [della] necessaria
gradualità che lo ha governato» (sentenza n. 213 del
2018). Ciò premesso, la conseguita possibilità per i lavoratori pubblici di
accedere alla previdenza complementare, con la ulteriore significativa
incentivazione a favore di quelli che, ancora in regime di TFS, ritengano più
conveniente l’opzione per il TFR, esclude che i profili evidenziati dalla
difesa dello Stato possano tuttora assumere rilievo quali indici della
legittima differenziazione del suddetto trattamento tributario.
Con particolare
riguardo al meccanismo di accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici, se
questo – per esigenze di contenimento delle risorse pubbliche – implica una
temporanea "sottrazione” di fonti di finanziamento che i fondi pensione potrebbero
altrimenti gestire direttamente, la sua disciplina non influisce però sulla
quantificazione della posizione individuale maturata dall’aderente. Infatti,
come illustrato (supra, punto 5.2.), ferma rimanendo
la destinazione al finanziamento della previdenza complementare impressa anche
al TFR fin dall’adesione al fondo pensione, al momento della cessazione del
rapporto di lavoro pubblico l’istituto gestore (oggi l’INPS) trasferisce al
fondo il montante del TFR maturato, applicandovi lo stesso tasso di rendimento
conseguito dal fondo nella gestione dell’altra componente della posizione
individuale, costituita dai contributi periodici.
Pertanto
l’aderente che, al venir meno dei requisiti di partecipazione al fondo,
eserciti il riscatto della posizione individuale maturata, vedrà quest’ultima
calcolata allo stesso modo, sia se dipendente pubblico, sia se dipendente
privato.
In conclusione, la
peculiare modalità di gestione del TFR pubblico, mediante un accantonamento
virtuale in costanza di rapporto di lavoro, non è idonea a differenziare dal
punto di vista funzionale la posizione individuale maturata in un fondo
pensione da un dipendente pubblico rispetto a quella maturata da un dipendente
privato e, di conseguenza, a giustificare un differente regime tributario del
riscatto della posizione medesima.
9.– Per le esposte
considerazioni, la disposizione censurata deve essere dichiarata
costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in
cui assoggetta ad imposta il riscatto della posizione individuale ai sensi
dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del d.P.R. n. 917 del 1986, anziché ai
sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 252 del 2005. Risulta pertanto
assorbita la censura relativa all’art. 53 Cost.
Non appare
necessario estendere, come invece richiesto dalla parte privata, la
dichiarazione di incostituzionalità anche al terzo periodo dell’art. 1, comma
156, della legge n. 205 del 2017, con cui il legislatore ha disciplinato anche
i rapporti di previdenza complementare in corso a quella data; la tecnica
normativa utilizzata, basata su un rinvio alle «disposizioni previgenti», è
infatti di per sé idonea, all’esito del presente giudizio, a rendere
applicabile l’art. 14, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 252 del 2005, anche ai montanti
delle prestazioni accumulate fino al 1° gennaio 2018 e successivamente oggetto
di riscatto.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6,
del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme
pensionistiche complementari), nella parte in cui prevede che il riscatto della
posizione individuale sia assoggettato a imposta ai sensi dell’art. 52, comma
1, lettera d-ter), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), anziché
ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15
luglio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Luca ANTONINI,
Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 3 ottobre 2019.